Trimestrale di informazione e critica d'arte

 

2016

 

 

F. Battain - A. Carmassi - V. Cecchini - A. D'Agostino - A. Gamba - V. Gaul - L. Giacobbe - N. Sonego - I Situazionisti - A. Viani

 
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ottobre - novembre 2016

 

Winfred Gaul

ovvero dell'astrazione.

 

«È stato questo l'effettivo punto di partenza della sua avventura artistica, tessuta attraverso una fenomenologia assai molteplice, in scatti di frequenti stagioni fra segno, forma, colore e persino infine materia, proposti secondo una possibilità di esiti molto diversi fra loro per la varietà di combinazioni alle quali accedeva il suo sperimentalismo innato, fatto di riflessione colta, di istinto, di passione, di sentimento, di curiosità e interrogazioni, e sostanzialmente di dialogo.» È questa la descrizione che Enrico Crispolti fa di Winfred Gaul nella presentazione in catalogo della mostra Markierungen 1973-1974, che si è tenuta alla Galleria Peccolo di Livorno.

Il percorso pittorico di Winfred Gaul, come per altro egli stesso ha affermato in un suo scritto, vive di uno stabile equilibrio tra momento mentale e quello sperimentale, all'interno di una sfera nella quale il concetto globale è, «determinato esclusivamente dalla portata emozionale e intellettuale.» La sua pittura può essere intesa come la negazione della staticità, sia nel suo essere pensata che realizzata. È in sintesi un incedere all'interno di un processo creativo in completa e costante evoluzione, mutevole nel suo formarsi e nel suo apparire e mostrarsi. Una pittura che vive esclusivamente di se stessa e che non si perde nell'inseguire ulteriori esperienze se non quelle di una continuità creativa che nasce da una sensazione individuale e da una riflessione del tutto personale, sostenuta però dalla consapevolezza che «La decisione di preferire la pittura ad altre forme di espressione artistica è la mia decisione personale e non ha nulla a che vedere con il progresso o il regresso, la moda o lo stile». (Gaul)

Un fare quindi che intende porre a confronto, in un dialogo senza interruzioni, le componenti linguistiche della pittura e l'azione, per così dire, esecutiva, tendente a verificare e dar consistenza alla sperimentazione linguistica, mantenendosi però all'interno di una dimensione personale. Una forma espressiva che, nel corso del tempo, si è fatta originale e identificativa. Questo perché, nell'artista, vive la convinzione che l'opera d'arte non deve limitarsi a essere oggetto utile, ma essere espressione di una processo creativo libero e fantastico. Se dunque da un lato l'artista vaga intellettualmente nel possibile mondo dell'arte, nel dipingere invece la forza espressiva e creatrice alterna l'atto razionale proprio del pensiero con quello puramente sperimentale e manuale del fare materialmente pittura; e alla superficie compete il compito di oggettivare questi passaggi.

Gaul opera dunque attraverso un personale e immediato rapporto con l'arte, al di fuori di ogni tendenza di movimento o di esperienza collettiva, se non quella di condividere una lettura "analitica" esternata da molti pittori europei. Ed è proprio Crispolti che, quando viene sottolineando le ragioni del superamento dell'informale, nei primi anni sessanta, distingue il suo lavoro da quello di molti suoi coetanei, in particolari quelli la cui pittura presenta un preponderante atteggiamento riflessivo e razionale.

Si avvertiva, negli anni settanta, la necessità di abbandonare un tipo di arte che fosse una manifestazione immediata dell'atto pittorico e della sua conseguente temporalità. Si doveva, nel contempo però, negare una conoscenza della realtà sostenuta solamente da considerazioni meramente razionali. Essere informale, per molti significava rappresentare un universo caotico, in cui non era possibile anteporre alcun ordine precostituito. Di questo movimento era però necessario riaffermare uno dei suoi principi: l'esistenza di una pittura che fosse comunque testimonianza dell'essere e dell'agire.

È con queste attese che l'attività creativa di Gaul si confronta con l'eredità di quegli anni, e dunque giustificata ci appare la scelta di Pierre Restany di accogliere, nella teorizzazione dell'Abstraction-liryque, l'opera dell'artista tedesco.

 Winfred Gaul, nel nuovo corso dell'astrattismo, mantiene costante un'attenzione rivolta alla pittura sia ritenendola espressione di un quanto linguaggio, sia come occasione e possibilità di sperimentare nuove vie e nuove realtà, con un una particolare «levità gestuale in quanto segnico, spazialmente pneumatico, e nel segno di intensa valenza soprattutto cromatica.» (E. Crispolti op. cit.).

Così viene esprimendo dapprima una personale valutazione delle passate esperienze pittoriche, per poi inoltrarsi in uno sperimentalismo decisamente originale, ma non astorico né estraneo alle ricerche proposte da diversi "pittori" della sua stessa generazione, quelli che andavano sostenendo una pittura come analisi del linguaggio espressivo; così segno, forma, superficie, colore e materia sono diventati oggetti di attenzione pittorica. Come il fare, attraverso un continuo esercizio della pittura, si è trasformato in un momento di riflessione con la certezza dell'estraneità dell'opera ad ogni altro significato che non fosse il solo aspetto fenomenologico.

Non si tratta però di una pittura fredda, lontana dalla personalità dell'individuo (sebbene molti suoi contemporanei ritengano che questa non debba contenere alcun elemento emozionale); Winfred Gaul non ci appare in queste veste e lo dice bene Crispolti: «Era un pittore naturalmente predisposto alla riflessione teorica, non un pittore d'istinto, anche se spesso evocativamente effusivo, quasi sentimentale». Quindi con quell'atteggiamento di chi ricerca l'armonico equilibrio tra sé e la pittura; in sintesi tra un mondo interiore e il segno, il colore e la superficie. Così se da un lato ogni elemento linguistico acquista autonomamente un suo ruolo, dall'altro è necessaria la contemporaneità degli altri elementi, quali corollario di un contesto creativo.

«La linea diventa colore e il colore diventa spazio pulsante - quindi una funzione del tempo. Sono affascinato dalla possibilità di realizzare un quadro con il minimo intervento. Sono affascinato dall'idea che basterebbe una linea, una macchia, una traccia di colore per fare pittura». E questa considerazione dell'artista tedesco si trasforma immediatamente in un fare, in un intenso dialogo con la pittura. Riduzione linguistica, equilibrio formale, sonorità cromatiche, segni che attraversano la superficie diventano i temi sui quali Gaul focalizza la sua ricerca.

Nelle sue opere prevale la piacevolezza di guardare a una pittura che mostra se stessa e che non rimanda a superficiali manierismi dell'astrazione. Un atteggiamento personale e individuale mantenuto soprattutto verso se stesso, in particolare alla fine di ogni suo ciclo. Gaul non riprende le vecchie esperienze. C'è in lui la necessità di superare il suo passato e di trasformarlo in storia generatrice di future sperimentazioni. Così dal un suo passato riparte un nuovo ciclo, senza mai essere però ripetitivo di se stesso; solo continuazione di un percorso che guarda agli accadimenti contemporanei e paralleli della ricerca contemporanea, con la consapevolezza che l'unicità del proprio lavoro appartiene al più ampio campo dell'affermazione della pittura, come un personale momento di riflessione del proprio essere; come una parte determinante di un percorso espressivo che rende universale il linguaggio pittorico e più umano il rapportarsi con i suoi elementi espressivi: segno di una coralità sia formale che pittorica.

 

 

 

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markierungen LXXIX - 1974, 180x180 cm acrilico e gesso su tela

 

markierungen XXXXVII - 1973 -180x180 pastello su tela

markierungen XXIV - 1973, 180x180 cm acrilico  su tela

 

 

 

markierungen XXXXVI - 1973, 180x180 cm pastello su tela

 

 

ottobre - novembre 2016

 

 

 

 

 

Una generazione senza nome

 

 

Non sono un gruppo. Non hanno una categoria estetica con la quale identificarsi. Non hanno un critico militante che li segue o che abbia teorizzato la loro pittura (sebbene diversi studiosi d'arte abbiano raccolto e sottolineato l'apporto innovativo, l'autenticità della ricerca, l'equilibrio formale, le riflessioni sul cromatismo ecc.) Sono la generazione di pittori nati negli anni cinquanta/sessanta.

Provengono da realtà geografiche e da storie diverse e soprattutto da frequentazioni differenti. Lavorano autonomamente senza un contatto diretto e continuativo fra loro; stimolano atteggiamenti volti a promuovere un ampio utilizzo dei linguaggi dell'astrattismo. Spesso li troviamo insieme in alcune mostre collettive (sono molto apprezzati all'estero in particolare in Germania), senza però individuare un qualsiasi manifesto né un programma comune che dia unità di intenti alla loro ricerca o ne stabilisca limiti e confini di appartenenza o di esclusione.

Di certo è che propongono una pittura libera da legami con il passato; comunque propositiva che li rende protagonisti delle differenti espressività.

Potremmo però pensarli come gruppo solamene se ordinassimo i lavori secondo categorie linguistiche o definendo i loro minimo comune denominatore all'interno di una costante riflessione su specifiche tematiche che hanno caratterizzato le esperienze pittoriche degli anni settanta. Sarebbe improprio e ingeneroso – per rispetto del loro impegno più che decennale – ogni accostamento alla pittura di quegli anni, sebbene continuino la memoria delle pratiche del dipingere che hanno disegnato, fin dagli anni del secondo dopoguerra, l'orizzonte della pittura. Non possiamo però non prendere atto che alcuni appartenenti a questa generazione si sono confrontati con gli esponenti della cosiddetta Pittura Pittura (ne ricordiamo a proposito la mostra Plurale del 1990 a Cividale del Friuli con testi di Cerritelli e dello scrivente), rimanendo però del tutto autonomi con le loro proposte relative al monocromo, al segno, al gesto, al colore, alla materia o ancora sulla superficie. Nonostante le similitudini non si può certo parlare di continuità fra le due generazioni, come per altro afferma Claudio Olivieri in uno scritto a me indirizzato: «Appartenere alla storia non vuol dire che la storia, o i sincronismi apparenti con la storia, debbano comparire come ingredienti di tutela, come garanti indiscutibili.» (Del Resto, pag. 51, Treviso 2001). A rendere netta la separazione è l'assenza di quell'atteggiamento analitico che ha contraddistinto i loro predecessori. A volte il loro lavoro richiama individualità artistiche affermate, ma guardano a questi personaggi con quel distacco necessario per non essere inglobati all'interno di un percorso contraddistinto anche da una superficiale continuità. Semmai si tratta di un dialogo tra passato e presente, frutto dell'esperienza di ogni singolo artista. È necessario – e questo ce lo indica la storia – che l'arte abbia da avere dei padri, ma questo si risolve esclusivamente all'interno dell'evoluzione dei linguaggi e nell'intimità della pittura. Tale deve essere l'attenzione verso la storia, poiché è con essa che si confronta l'indole (termine desueto ma ancora efficace) dell'artista, solo così viene sperimentando linguaggi che molti orizzonti hanno ancora da scoprire.

Il ritorno alle pratiche della pittura, verso la fine del XX secolo, era ormai estraneo a ogni costrizione o impalcatura ideologica. È più interessante, per noi, recuperare il filo conduttore che li accomuna, in forma non certo critica ma in quella più squisitamente del fare o in relazione alle esperienze dell'astrattismo, cercando un'identità nuova che non venga confinata in ristrette categorie espressive. Quest'esperienza sposta continuamente gli equilibri, accrescendo la percezione e alimentando la capacità di guardare oltre i propri canoni, in quanto dipingere è atto mai uguale a se stesso, ma ancor di più mai uguale al già fatto. L'intento è interpretare il presente senza doverlo ascrivere ad altre tipologie storiche, e consolidare, allo stesso tempo, la convinzione che non tutto sia già stato fatto.

Non troviamo, in questi pittori, la freddezza del ragionamento o della pura riflessione linguistica, né la parcellizzazione del fare, ma un aspetto ludico, un'interiorità più attenta a un immediato rapporto con la fenomenologia della pittura, inteso come allontanamento da un atteggiamento puramente dialettico tra le diverse proposte espressive, accennando però a un completamento linguistico avvertibile nel confronto diretto in mostre, nelle quali i nostri protagonisti si trovano a esporre. Per questo hanno guardato con umiltà a esperienze già concluse e senza la prerogativa di voler procedere in una ricerca in cui la razionalità compositiva spesso ha avuto un ruolo determinante. Operano invece con la convinzione che nell'ambito della pittura nessun limite è stato tracciato.

Le opere, di questi artisti, esprimono momenti temporali che guidano verso nuovi confini nel divenire della loro espressività individuali, accompagnate da sperimentazioni sul colore nello spazio dinamico della superficie (Loris Agosto, Italo Bressan, Michele De Luca, Maria Morganti). Altre vedono pitture legate all'effetto della luce e delle infinite combinazioni cromatiche che ne scaturiscono (Enrico Bertelli, Paolo Iacchetti e Manlio Onorato). Alcuni sono attenti al cromatismo della materia dalla diversa uniformità o nelle mescolanze colorate (Luca Giacobbe, Angelo Molinari e il compianto Graziano Negri). Come non apprezzare gli accordi cromatici tra segno e energia del colore che si manifesta nella libertà e forza del gesto (Gianni Asdrubali, Alessandro Gamba, Nelio Sonego), fino alla seduzione e al mistero del monocromo (Gianni Pellegrini, Sonia Costantini e Domenico D'Oora).

Va dunque sottolineato l'aspetto lirico che accompagna il loro fare, non certo condizionato da un procedere "in itinere" (caratteristica questa di un atteggiamento riflessivo e per certi versi analitico), ma di una visione complessiva alla ricerca di un'identità e di una risonanza interiore quanto intimistica, già delineata e già definita nel suo fluire di visioni e sperimentazioni che tendono ad amplificare una sonorità interiore. Per cui ciò che caratterizza non è dunque il formarsi dell'opera bensì il suo apparire, il suo porsi immediatamente alla vista dello spettatore nel suo aspetto fenomenologico dell'essere pittura. Ciò naturalmente mette in evidenza quel momento personalistico che contraddistingue le molteplici liricità.

Così, nel suo apparire, prima come intenzione, poi come realtà oggettiva, la pittura rincorre il flusso dell'energia del fare. Vengono mescolati aspetti ludici a percezione inconsce dalle quali spesso scaturisce la consapevolezza che l'immaginazione e la libertà della pittura inducono a soluzioni nelle quali intimismo e mondo esteriore si mescolano; come la storia individuale e l'attualità del pensiero si fondono in un atto simultaneo. Apparire ed essere formano un procedere che non ha bisogno di spiegazione, ma venir percepito nella sua totalità, nel suo essere quel filo poetico che accompagna il pensiero nella fluidità del colore, nell'apparizione degli effetti della luce o nel cangiante colorismo. Ciò rende visibile l'intimo sentimento che spinge l'artista a immaginare la pittura come lo strumento che registra la temporalità dell'essere. Una temporalità certo non priva di passato né di aspirazione per il divenire. È la pittura che accompagna il sentire, il vivere e il fare. Ciò che resta è pittura e ciò che vediamo è pittura.

Si tratta di un territorio fluido e indefinito fuori da ogni teorizzazione. Sono esperienze individuali, e come tali differenti, personalizzazioni espressive, dalle quali lo spettatore coglie le sensazioni e le provvisorie riflessioni quasi un esercizio di lettura per porsi in sintonia con il senso vitale del costante inseguire la pittura da parte degli artisti.

Dunque non spendiamo ragionamenti sugli elementi linguistici, ma dobbiamo farci attrarre da un lirismo che guarda a un equilibrio sia formale che espressivo-strutturale e a tutto ciò che pone attenzione all'insieme dell'opera. Una pittura dunque praticata, libera da costrizioni categoriali e che, nell'alternanza necessaria tra l'emozione del fare e razionalità linguistica, non esprima una netta discriminante tra questi due atteggiamenti. Un dialogo in cui l'invadenza o la predominanza o ancora l'equilibrio dell'uno e dell'altro, porta l'artista a pensare al proprio lavoro nella logica dell'evoluzione espressiva, conservando personalità e attenzione per quegli elementi che rendono libero il proprio esprimersi attraverso la pittura e che guardano essi stessi alla pittura.

 

 

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ottobre - novembre 2016

 

 

 

 Arte prioritaria

Scoglio di Quarto

Milano

 

 

La galleria Scoglio di Quarto, di Milano, edita la collana Arte prioritaria, che costa di libretti (cm 15X11) ma corposi nei contenuti (superano tutti abbondantemente il centinaio di pagine). Si tratta di una serie di pubblicazioni che spaziano tra letteratura, critica e storia dell'arte e arte stessa. Questi gli autori e i titoli già pubblicati: Stefano Soddu, Shangai (un bastoncino per ogni ricordo); Luca Giacobbe, Senza titolo; Luca Pietro Nicoletti, Appunti Lombardi; Lorenzo Bocca, Sperimentare geometrie; Franco Vetrovez, Ho conosciuto il pipistrello Pipilius 2014.

Un'iniziativa certamente lodevole che merita essere letta e guardata con attenzione, poiché ampia lo sguardo che la galleria dedica al mondo culturale contemporaneo, in un momento tra l'altro difficile sia nel mercato che nella promozione di giovani artisti (molte sono le gallerie che, nonostante il loro impegno, hanno chiuso) tutto questo all'interno di un "nuovo" sistema culturale che ancora stenta a prendere forma.

Queste significative opere allargano lo sguardo del cultore d'arte, poiché trattasi di pubblicazioni a corredo dell'attività degli autori; aprono a un modo singolare di guardare all'arte. È vero che artista è colui che crea delle forme usando il linguaggio dell'arte, ma è anche vero che a monte di ogni azione creativa esiste un altro mondo fatto di riflessioni, contatti, percezioni, dialoghi con il mondo reale e con chi guarda e interpreta l'arte.

Pubblicazioni quindi da guardare con occhio critico e attento a un'idea di creatività artistica che non propone solamente una visione limitata a opere esponibili in mostra (questo già lo offre lo spazio espositivo della galleria), ma apre all'uomo artista, alle sue problematiche creative e alla sua visione del sistema dell'arte. Ci è difficile pensare – in questo momento – ad un sistema dell'arte che ricalchi le esperienze del passato e ancor più difficile ci diventa poter immaginare un collezionismo nei termini degli anni ottanta (quando la giovane arte era nelle possibilità dell'ahimè scomparso ceto medio).

Operazione veramente esemplare questa della Galleria Scoglio di Quarto poiché tiene in vita un "sistema dell'arte" costruito sul dialogo a più voci tra gallerista, critico, storico, artista, letterato e collezionista. Era questa la "filiera" che ha permesso da un lato il formarsi di collezioni tematiche (d'altronde negli anni passati esistevano anche le gallerie di tendenza), dell'altro ha proposto la condivisione – quasi sempre sperimentale – di linguaggi e forme espressive. Comunque un modo di parlare di arte e promuovere l'arte in modo articolato e frutto della più che decennale esperienza della galleria, e che, per come l'ho conosciuta io, propone ancora.

 

 

 

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Maggio - giugno 2016

 

Antonio D'Agostino


Una lettura

 

 

Per affrontare la lettura delle opere di Antonio D'Agostino è necessario scandagliare il suo percorso artistico ed individuare, nelle diverse manifestazioni, non certo l'unità espressiva, quando una sintesi linguistica delle successive sperimentazioni da lui effettuate. Infatti, il suo lavoro, a differenza di quello molti artisti, non può essere scandito temporalmente da varie fasi creative, anche parallele ai cosiddetti movimenti o gruppi o, semplicemente seguendo una specifica moda. Non ci pare che il suo percorso possa essere assoggettato a una lettura di tipo storicistico o evolutivo, che intende circoscrivere in un periodo o in un ciclo i diversi momenti della sua produzione; ciò anche supportati dalla consapevolezza che una sperimentazione si conclude quando si arriva al completamento della creatività o della saturazione delle possibilità linguistiche stesse.

Questo tipo di analisi si rivelerebbe un inutile esercizio nella lettura delle opere di D'Agostino, poiché la linea del tempo della sua ricerca artistica si vedrebbe diramata in molteplici parti e versi, dato che i suoi periodi creativi non si mostrano mai definitivi, ma sempre aperti a nuove riflessioni. Il suo percorso non pare possa essere rappresentata con un segmento orizzontale, ci appare invece spezzettato nel tempo e verticale per quanti riguarda l'utilizzo dei linguaggi dell'arte. Le sue esperienze artistiche, infatti, vivono parallelamente ai diversi linguaggi, senza mai diventare uno citazione dell'altro e mantenendosi distanti anche da ogni contaminazione. E questo, almeno per sua indole, rappresenta un ulteriore aspetto di come l'artista si sia approcciato non al mondo dell'arte, ma ai singoli stili espressivi.

Comun denominatore del suo procedere è rappresentato da un atto, un istante creativo che guarda al presente e rende attuale il suo operare. Si tratta dell'incidenza del contemporaneo, da lui inteso come quell'atteggiamento di attenzione, curiosità e sperimentazione di ciò che accade e che si manifesta simultaneamente nel mondo della creatività artistica: curiosità e attenzione che riserva a ciò che nell'arte appare come attualità operativa. Ecco come in lui, in quanto artista, si siano sviluppati gli interessi per la pittura, per il cinema, per la fotografia, per i video, per le installazioni ecc. E, in questo alternarsi di espressività diverse, viene contrapponendo le caratteristiche specifiche di ogni linguaggio: la staticità della pittura al movimento del cinema; o ancora il silenzio della fotografia al suono e al rumore(fluxus), la bidimensionalità dell'inquadramento dei video alla tridimensionalità delle istallazioni, la durata temporale delle pitture all'effimero degli happening.

La ricerca è dunque il momento coniugante l'operare di D'Agostino, quell'atteggiamento analitico di continua verifica dei linguaggi dell'arte; una verifica che si mantiene estranea a una riflessione meramente dedicata ai contenuti. Questi interessano relativamente, dato che l'impegno dell'artista è verificare quanto sia di per sé efficace e autonomo un determinato linguaggio dell'arte. Tale atteggiamento si manifesta, ad esempio, nella ricerca del particolare nei video, nella messa in primo piano della singola tematica nelle performance, nella ricerca di autonomia dei componenti linguistici della pittura. Ciò lo rende uomo del suo tempo, poiché questo suo privilegiare la sperimentazione e la ricerca lo accomuna a molti altri artisti che, nel corso dei primi anni settanta del novecento indagano la pittura. Sperimenta anch'egli tematiche cha caratterizzano il fenomeno pittorico che va sotto varie definizioni come Pittura Pittura, Pittura Analitica, Fare pittura ecc. (per questo non si può racchiudere tale periodo in un preciso movimento artistico, quanto piuttosto considerarlo come un individuale atteggiamento verso il fare pittura).

L'esperienza con il contemporaneo di D'Agostino, ha origine a contatto con la cosiddetta Nuova Astrazione che determina il suo modo di rapportarsi con la pittura, infatti appare immediata l'analisi dei componenti il linguaggio e l'esclusione di immediati riferimenti alla realtà o alla natura. Prima di ogni intervento fattivo, l'artista vive dunque un momento di ponderata riflessione, quasi la preparazione di un atto programmatico. E questo anteporre il pensiero alla manualità e all'immediatezza di cui questa è portatrice, viene costruendo una forte tensione dialettica mediante la quale – quasi aprioristicamente – antepone un teorico dialogo tra gli stessi componenti linguistici e i materiali di cui si serve. Così superficie, materia, colore, segno e gesto vanno a delineare una grammatica con la quale l'artista interpreta non solo la pittura in quanto tale, ma lo introduce alla ricerca di un individualismo intimo che, via via, lo viene caratterizzando e specificando. Tanto che il risultato dell'atto pittorico può essere considerato come un momento analitico della propria specificità espressiva e, conseguentemente, di prevenire ogni fuga di tipo espressionistico.

D'Agostino parte dunque dalla superficie, da quello che può essere definito il luogo della pittura, con un primo intento – come è perfettamente visibile nei suoi Intonaci dei primi anni settanta – di far coesistere, anche concettualmente, l'elasticità e la mutevolezza del supporto in tela, con la durezza e l'immutabilità del cemento. A seguire l'analisi delle sue dimensioni e strutturazioni bidimensionali, prive di rimandi che non siamo quelli immediatamente riconducibili al linguaggio della pittura e all'azione di pitturare.

Con gli intonaci l'artista intende produrre un'azione in divenire, lasciando traccia, sul leggero intonaco, di un movimento circolare e addensante, privo di colorismi e scatti segnici, tutto in un grigiore da palcoscenico poco illuminato. Solo in un secondo tempo viene delineando una serie di direttrici geometriche che dividono lo spazio e si contrappongono al movimento gestuale registrato dalla superficie intonacata; ne scaturisce un senso di indeterminatezza e di sospensione che rende ancora più lirico e poetico l'atto creativo. Con questo suo procedere D'Agostino evidenza, in modo netto e preciso, il distacco dall'elemento geometrico e dal suo supporto naturale: la superficie. E così l'idea di una geometria perfetta realizzata nei giusti rapporti numerici si perde nella fase della percezione. Dell'opera riusciamo così a raccogliere gli aspetti fenomenologici che a nulla rimandano se non al loro mostrarsi in quanto tali: dei momenti in itinere della pittura.

L'opera diventa espressione di un'intimità, sia passionale quanto razionale. Una passionalità che viene ulteriormente attraverso l'uso di colorismi che perimetrano lo spazio pittorico. Sbrecciature come un contorno irrompente che si contrappone all'effetto gelido e controllato dei segni geometrici e della luce monotimbrica della superficie.

Ancora una volta l'artista fa dialogare la staticità del supporto di cemento con le improvvise gestualità cromatiche, in un gioco, ancora una volta, di alternanza tra la monocromia della superficie e i lampi colorati che rendono affettivo il fare e vivace la percezione. Si riaffaccia così il dubbioso atteggiamento di D'Agostino che muove dalla riflessione razionale al ludico, quanto intimo, spirito creativo. La sua attività artistica trova così sintesi nella distruzione dell'ordine compositivo dell'opera; quell'ordine che apparentemente si definisce come sintesi di un equilibro tra progettualità e percezione.

Tale contrapposizione appare evidente anche nelle Strutture primarie, sebbene queste manifestino un'espressività più contenuta e un ragionamento più determinato. A governare la creatività dell'artista, in questo ciclo pittorico, è una geometria irrazionale – perché fantastica – all'interno di uno spazio monocromo altrettanto irreale. Anche in queste immaginarie forme, sospese nello spazio, si alterna il senso della fuga a quello della chiusura. Contrapposizione raffigurata da un lato dalle gabbie, dall'altro dalle prospettive non euclidee vibranti in una libertà spaziale dove il monocromo si fa metafora dell'infinito. Figure dalle assonometrie e prospettive deformanti, "gabbie possibili e impossibili" allo stesso tempo. Sebbene apparentemente dettate da un rigore strutturale che aleggia sulla superficie, come un'ambiguità percettiva, uno sfasamento ottico, un'inquietudine delle forme.

La costruzione sia geometrica che concettuale di questa pittura è solo pretestuosa. Con il passare del tempo le gabbie si aprono e si trasformano in superfici, talvolta impenetrabili, fino a diventare delle vere e proprie pareti intonacate, che ci riportano all'interno del mondo creativo di D'Agostino, fatto di contrapposizioni espressive e di alternanze linguistiche che caratterizzano il suo sperimentalismo artistico negli ultimi cinquant'anni.

 

 

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Intonaco, 1971

tecnica mista, cm70x 100

Intonaco, 1971

tecnica mista, cm70x 100

Intonaco, 1971

tecnica mista, cm70x 100

 

 

 

 

Maggio - giugno 2016

 

Alberto Viani

 

"Ogni lavoro è sempre un'avventura"

 

Dall'edizione della Biennale del 1948 (quando fu presentato il Fronte Nuovo delle Arti) si sono avviate le sperimentazioni più importanti degli ultimi decenni del '900. A questo gruppo Alberto Viani aderì nel 1946 e nel '48 ottenne il Premio per un giovane scultore. Lo scalpore che quella mostra suscitò fu grande e ancor di più lo fu per le future generazioni, le quali proprio in quelle rivoluzionarie ricerche trovarono motivi per approfondire nuovi linguaggi espressivi. Molte delle esperienze contemporanee si richiamano ai protagonisti di quell'epoca; e la scultura ebbe in Alberto Viani l'ispiratore e l'originale interprete della forma. Uomo schivo, intellettuale che proprio in quegli anni successe ad Arturo Martini nella cattedra di scultura dell'Accademia di Belle Arti di Venezia.

Il grande cambiamento prospettato negli anni dell'immediato secondo dopoguerra era dato proprio dalla contaminazione dei linguaggi dell'arte, per cui ogni idea, sebbene già consolidata, di spazio pittorico o spazio tridimensionale andava perdendo di identità. Burri, Vedova ed altri, ma soprattutto Fontana, inseguendo le esigenze di una comunicazione di massa, riuscirono ad elaborare un linguaggio articolato e complesso, facendo dialogare i diversi e molteplici elementi linguistici tra loro. D'altro canto altri artisti ricercarono una sorta di rigore formale anteponendo alla contaminazione dei generi lo studio plastico della forma, mossi da un atteggiamento antiaccademico o di avanguardia.

A vedere molte delle opere di Alberto Viani, ci viene dunque spontaneo porre al centro del nostro ragionamento l'idea che la forma, perseguita dall'artista veneziano, trova origine nella figura umana; e conseguentemente, le forme che egli elabora nel suo percorso artistico sono essenzialmente delle forme antropomorfe, o meglio delle metafore antropomorfe, come spesso ha sottolineato il Bettini. Non si tratta però di considerare le opere realizzate da Viani come forme di per sé definitive, ma in continuo mutamento e in progressivo divenire.

La realtà viene così assunta come momento specifico dell'attenzione dell'artista, il quale non considera la figura come espressione di un significato definitivo e contestualizzato, ma si sofferma essenzialmente sulla plasticità che le sue forme potranno assumere. Lo stesso Viani ci informa che le idee, che stanno a monte dell'opera, non sono affatto precisate "perché sono veramente chiarite solo quando sono realizzate. Ogni lavoro è sempre un'avventura che ti impegna a risolvere un problema, che nasce solo nello svolgimento di quel lavoro e che devi risolvere in quel momento, che è unico ed è irripetibile, perché le altre opere avranno tutte e sempre, nel loro svolgersi, una situazione nuova"

Viani usava riportare ogni sua riflessione, sia come citazione scritta che in disegno su grandi cartone – che sono dei cartoni didattici poiché stavano esposti, ad uso dei suoi studenti, nell'aula di scultura all'Accademia di Venezia – che riassumevano il suo lavoro. Altri promemoria hanno accompagnato lo scultore, come ricorda Wladimiro Dorigo: "E intanto, senza interrompersi e senza interromperci, Viani disegnava e disegnava. Erano fogli di risulta, pagine di giornale, tovaglioli di carta. Gesti iterati all'infinito con il lapis, armonici e dolci, con improvvisi scarti, alla fine interrotti, sospesi". Sono disegni non preparatori per sculture, ma esercizi quasi letterari, segni di composizione, dove le linee si rincorrono sulla superficie alla ricerca di una figura che si possa collocare tra la forma pura e assoluta e la figurazione del corpo umano, libera però da attributi specifici o eccessivamente descrittivi. Una forma ideale, caratterizzata da una modulazione quasi architettonica, prossima all'astrazione. In questi suoi cartoni è possibile individuare una contemplazione interiore emotiva della figura; una realtà fuggevole che l'artista fissa nella figura plastica. Sono dunque testimonianze che, come scrisse lo stesso Viani, "inizialmente precedono la ricerca […] e un 'senso di certezza interiore' verso la grande tentazione: fare l'opera" (Riflessioni dichiarazioni sulla mia scultura).

Si tratta dunque di un processo di graduale trasformazione, di riduzione di una forma esistente nell'intento di definirne le linee essenziali. Per Viani questo non sembra essere un processo naturale, fondato su un preciso percorso schizzo–progetto disegno–forma materia–scultura.

Viani è uomo colto, fortemente interessato alla filosofia e al conoscere, tanto che nulla avviene se non passa attraverso il filtro del ragionamento e della riflessione. In lui c'è la "consapevolezza profonda e tradotta in gesto che vi è una frattura, un contrasto, tra il 'modo' della nascita dell'opera e l'opera stessa."

Il percorso creativo dello scultore sembra dunque originare da una sottile instabilità che rappresenta il passaggio da un segno grafico, come immediata percezione del reale, alla sua elaborazione come dialogo con la materia. L'azione artistica va così gradualmente delimitando i piani e i profili della scultura, esaltando così l'assoluta purezza delle forme, le quali emanano emozioni immediate segnate da una invisibile e latente sensualità

Il lavoro di Viani esprime la volontà di giungere ad una soluzione definitiva attraverso un personale confronto con la materia, con la quale realizza "splendide, luminose creazioni dove l'integrità dei levigati volumi appare definita, e quasi racchiusa, da sinuosi e continui profili che hanno fatto pensare a disegni plastici rotanti nello spazio" (Mazzariol).

 

 

 

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Maggio - giugno 2016

 

 

Luca Giacobbe

 

Scoglio di Quarto - Milano

 

Luca Giacobbe, presente con una sua personale alla galleria Scoglio di Quarto a Milano, ha guardato con attenzione alle esperienze astratte del dopoguerra, condiviso in via sperimentale l'atteggiamento analitico degli anni settanta e quello più ludico degli anni seguenti. Ciò ha permesso al suo lavoro di vivere, anche criticamente, la contemporaneità, con l'intento di mantenersi in costante confronto con le esperienze degli artisti sui coetanei e di perseguire le varie vie, anche quelle sperimentali.

Se da un lato cogliamo nel lavoro dell'artista fiorentino un'attenzione per le ricerche delle Avanguardie Storiche, dall'altro si avverte una profonda riflessione sul colorismo, filtrato però da una curiosità per la pittura quattrocentesca fiorentina e da quella coeva veneziana. A seguire la strutturazione materica, la luminosità del colore, le gradazioni cromatiche che scaturiscono dalla mescola dei colori, l'effetto della luce, la possibilità della materia di mantenere vivo un percorso segnico o formale.

Soggetti del suo operare sono anche alcune forme statiche, dalle irregolarità perimetrali o dai lati frastagliati, immobili come sospese su un immaginario spazio che inducono a percezioni illusorie, come brevi versi di una poesia ermetica. Non sono figure geometriche riconoscibili né forme che richiamano alle costruzioni tridimensionali, sono immagini dettate da un procedere in costante rapporto con il piano pittorico e con la pittura in quanto tale. Le sue forme così tracciate, vivono di una propria autonomia, esprimendo un'originale identità nel loro continuo dialogo con il colore. Sono espressione di un dinamico divenire creativo, dettato da un'immediatezza esecutiva, libera e vibrante nel suo delinearsi sulla superficie. Una libertà dettata dalla liricità del colore e dal ludico movimento, come risultato di una progettualità che sta all'origine del suo fare.

La pittura si trasforma da memoria di un percorso che guarda con discrezione al passato, a sperimentazione contemporanea, senza con questo rievocare esperienze già collaudate né ricalcare atteggiamenti espressivi già consumati. Giacobbe tralascia quindi ogni citazione e guarda intenzionalmente a una creatività più intima, dalle caratteristiche personalistiche, per esprimere la consapevolezza che la pittura è un'azione che non ha limiti e che tende all'infinito, spinta, in questo divagare nel tempo e nello spazio, dall'intimità dell'artista. Ecco dunque che il suo operare si fa sempre più individuale per accentrarsi e diventare aspetto fenomenologico di uno stato percettivo emozionale.

Non si avverte l'angoscia della progettualità o la necessità di esternare un contenuto, al contrario. Il suo fare, benché come ogni artista guardi alle finalità della pittura, non si chiude in una definizione, non si adagia alla comodità di essere riconosciuto come un autore singolare, assume però lo stato creativo di chi elabora un linguaggio e lo rende compagno di un dialogo personale e ininterrotto con il fare, ma con una propria visione di un mondo interiore sempre in aperto confronto con la realtà che gli sta attorno, alla ricerca un equilibrio strutturale (benché le sue opere appaiono caratterizzate da un senso di disequilibrio) nel quale se la forma definisce i contorni dello spazio, il colore si fa espressione di un lirismo come sintesi del guardare alla pittura e nel contempo del fare pittura.

 

 

 

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Casa Sotterranea-Olio su tela cm 120x130 (2012).

Doppio Inganno, olio su tela, cm 40x50, 2014

 

 

 

Maggio - giugno 2016

I

 

Internationale Situazioniste

 

 

galleria Peccolo - Livorno

 

 

Era il 1972 quando a Parigi, per "autoscioglimento", si chiudeva l'esperienza dell'Internationale Situationniste, forse una delle più attraenti e ancora inesplorate esperienze politico–artistiche del secondo dopoguerra. Fondata a Cosio di Arroscia, in provincia di Imperia, ai confini con la Francia, nell'aprile del 1957.

Non fu certamente una semplice aggregazione di artisti e intellettuali, ma la ricerca di una sintesi, anche politica, che guardò con attenzione alle Avanguardie storiche, soprattutto con l'intento di chi, attraverso la cultura (cosa diversa quella di massa del 1968 in cui operò l'Internationale Situationniste e quella di inizio secolo, quella rigettata in diversi modi dalle Avanguardie) intendeva dare una scossa al mondo occidentale. Un mondo che Marx, l'economista, cui essi guardavano non aveva previsto. Guy Debord, nella sua La Société du spectacle (che ebbe molte ristampe) individuò uno degli aspetti che rendono ancora attuale la critica di quei intellettuali: spettacolarità dei rapporti umani, «un rapporto sociale fra individui mediato dalle immagini»; un mondo dove la sostanza è sostituita dalla forma, dove l'apparire conta di più dell'essere, dove l'essere viene rappresentato attraverso i feticci della merce. Una realtà già priva dello spirito hegeliano che nutrì il maestro Feuerbach, ma l'essere in quanto possessore e come tale rappresentato dagli effimeri valori della merce: una realtà esistenziale urbanizzata e strutturata come un grande palcoscenico concepito quale espressione della volontà della classe dominante, un ambiente urbano capace di condizionamento e di coercizione psichica e fisica dei cittadini.

L' Internationale Situationniste è stato attiva in Europa per tutti gli anni sessanta, aspirando a importanti trasformazioni sociali e politiche e si definivano spiriti liberi mentre la loro attività in realtà si è concentrata principalmente nelle città di Parigi, Amsterdam e Bruxelles. Sostenuta da un'omonima rivista pubblicata dal 1959 al 1969. Dodici numeri con la tecnica del dètournement che hanno divulgato il pensiero dei loro protagonisti.

Ancor oggi quel gruppo, fondato da Pinot Gallizio, Piero Simondo, Elena Verrone, Michèle Bernstein, Guy Debord, Asger Jorn e Walter Olmo – architetti, filosofi, urbanisti artisti, intellettuali insomma – è alla ricerca di una definizione, di un'identità che sappia essere distintiva e valorizzatrice nello stesso tempo di quanto la riflessione storico-politica ha loro demandato. Molte infatti sono state le pubblicazioni su questo movimento molte ancor di più su uno dei suoi indiscussi protagonisti (ancor prima nel Movimento Lettrista che confluì nel dell'Internationale Situationniste.)

Giudizi molto complessi che si muovono da due estremi: da quello di J. L. Godard che li definì «i figli di Marx e della Coca Cola» a quello di Annachiara Leardini nel suo Un sogno di Libertà. «Il loro programma è stato epigrammatico e non sistematico, e l’eredità consiste solo in scarti di idee preliminari, vignette sfocate e ipotesi vaghe. Eppure, in qualche modo, dopo i situazionisti, l’urbanismo, la politica, l’arte e il design radicale non sarebbero stati più gli stessi.»

Riprende le fila di questa esperienza la galleria Peccolo di Livorno, con la curatela e pubblicazione di due interessanti libri bilingue, italiano e francese: Lettrismo e Situazionisno (con i saggi di Sandro Ricaldone, Beniamino Vizzini, Carlo Romano, Gianfranco Pancrazio, Pino e Pier Paolo Bertelli, Mirella Bandini, Yan Ciret e Bruno Corà, interventi agli incontri che si sono tenuti a Livorno) e Il mito situazionista della città (con scritti di Morella Baldini e di Yan Ciret).

Le ragioni di un ritorno al pensiero Situazionista ce le suggerisce S. Ricaldone nell'Introduzione e presentazione degli incontri, quando afferma: «Se pur deprecabile, l’assenza di un dibattito esterno ha contribuito - per citare ancora Knabb - a provocare “l’effetto inverso ed esagerato di conferire ai situazionisti un monopolio apparente della comprensione radicale della società moderna e della sua opposizione”, così come, nel contesto delle vicende artistiche degli anni delle “origini” (1952-57) e della prima fase” (1957-1961), ad attribuir loro il ruolo di unica tendenza rivolta al cosiddetto “superamento dell’arte”. Il diffondersi di un’opinione di tal genere, per quanto solo in parte giustificata, ha contribuito negli ultimi anni a determinare una consistente ripresa delle tematiche situazioniste non solo nell’ambito della critica radicale alla società contemporanea, ma dell’arte e dell’architettura, che pure nelle loro mainstreams si sono vieppiù distanziate dalla “modernità” (nel senso vero, cioè propriamente rivoluzionario) dei situs, dagli affondi con cui “hanno risposto più esattamente degli altri ai problemi, ed alle illusioni, del loro tempo (urbanistica, spettacolo, ecc).» ( pag. 6)

Superamento dell'arte, intesa da Debord come il compito dell'arte; il compito di sottrarre l’esperienza al tempo per renderla eterna. L'arte si contrappone alla vita perché immobilizza e reifica, ostacolando la comunicazione diretta tra gli individui. Non può esistere un'Arte Situazionista ma un uso situazionista dell'arte: «L'arte nell'epoca della sua dissoluzione [...] è allo stesso tempo un'arte del cambiamento e l'espressione pura del cambiamento impossibile.»

 

 

 

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Gennaio - marzo 2016

 

Alessandro Gamba

 

 

Alessandro Gamba: In uno scritto del 1986, Menna citava Accame: «La pittura di Alessandro Gamba è già chiaramente orientata in tal senso quando scrive che la pittura qui non si pone solo come voce parlante ma anche come mediazione di se stessa.» Appare chiaro che, secondo il critico bolognese, io farei una pittura che ha un'esigenza, un'esigenza anche espressiva. La mia pittura è una mediazione fra l'esecuzione e il suo presentarsi nei titoli. Quando intitolo un'opera Emblematico è chiaro che a quest’opera dò una particolare importanza. Secondo me ci sono due aspetti interessanti, e che tu sottolineasti a suo tempo nel 1990 per la mostra allo Studio Delise a Portogruaro. Considerazioni che si riferivano però al periodo che va dal 1985 al 1990, quando le mie superfici erano così segnate, così nette e sulle quali poi ho inserito dei segni neri volutamente rigidi; erano, però segni che marcavano ugualmente delle traiettorie che seguivano, per così dire, un percorso psicologico. Il quel momento m'interessava lavorare evidenziando una sorta di dicotomia linguistica: cioè una parte era costituita dal fondo, che era una sorta di tessitura emotiva emozionale e aveva un diverso movimento rispetto al segno, che era invece progettato ma molto strutturale, per cui la convivenza di questi due elementi permetteva, come Accame aveva notato allora, la convivenza di un momento razionale e uno emozionale. Credo che nelle mie opere questi due aspetti possano convivere pur mostrandosi a volte divergenti.

Diego Antonio Collovini: Nella costruzione del quadro, quando cioè si apre il dialogo tra emozione e razionalità, si affaccia però una visione generale della campitura pittorica, sulla quale il segno detta il ritmo della pittura. Una dinamica nera che, oltre a dividere la superficie in parti non misurabili geometricamente, va a scandire la forma della superficie sulla quale poi tu vai a definire l'approccio ludico della pittura, cioè quel momento che tu giustamente ritieni rappresentare l'aspetto psicologico. Ma collocando storicamente il tuo lavoro – visto che la tua generazione è stata più volte inserita in un processo di continuità rispetto alla sperimentazione delle pittura degli anni settanta – qual è l'apporto delle esperienze pittoriche del passato e che cosa hanno lasciato nel tuo lavoro? Anche in considerazione che le esperienze aniconiche si sono spesso prestate a una lettura di tipo quasi strutturalista, estranea dunque a una lettura storicistica o sentimentalistica ma concentrata esclusivamente sul linguaggio, come aveva più volte suggerito Menna.

A.G.: Ti rispondo citando una frase di Cerritelli che, assieme ad altri, ha voluto seguire le più fresche espressioni pittoriche degli anni ottanta–novanta: «Per un giovane pittore che, agli inizi degli anni ottanta si affaccia sulla scena espositiva, non può essere dunque altro confronto con quello della pittura eclettica e disinibita della Transavanguardia, dell'Arte Postmoderna o nel versante opposto con l'esperienza della cosiddetta Pittura Colta, si tratta di versioni differenti di un medesimo desiderio di riconquistare le tradizioni di una pittura dall'arte antica alle avanguardie, per rilanciarne il ruolo nel presente, sia come piacere dell'opera sia come uso liberatorio dei linguaggi, sia infine come rilettura della pittura antica e del tempo sospeso dell'opera. Fuori da questi orientamenti dominanti esistono, bene inteso in altri campi di ricerca, altri orientamenti che non hanno mai cessato di essere proposti, anche se sono stati considerati fuori dal dibattito dell'attualità, modelli pittorici per così dire esauriti.  Tra di essi il versante della cosiddetta arte astratta recita un ruolo silenzioso, autonomo, apparentemente marginale sebbene dotato di una propria e inattaccabile energia progettuale dovuta soprattutto dal rapporto ideale con l'astrattismo storico, in quest'area di lavoro legata alla ricerca non figurativa Gamba muove i primi passi con una serie di opere che tra il 1980/81 sembra evocare un mondo poetico, lirico e soggettivo un sentimento della vita che s'identifica nell'immagine del cuore …». Si riferiva a un mio quadro che raffigurava un cuore. Praticamente c'era già una presa di distanza rispetto a tutte le esperienze citate. Io non lavoravo alla maniera della Transavanguardia, non lavoravo alla maniera della Pittura Colta, non lavoravo alla maniera della Pittura Analitica. E non lavoravo alla maniera degli astratti classici, come Rho, Radice, Reggiani. Sentendo e vivendo il mio tempo desideravo invece di esprimermi in un certo modo, possibilmente cercando di essere autonomo. Guardavo attentamente alle esperienze precedenti anche prendendo qualcosa sia sotto l'aspetto tecnico che quello puramente espressivo. I quadri dei primi anni ottanta avevano una matrice informale, trasformandosi poi nel linguaggio che ha caratterizzato, in modo così netto, gli anni dal 1985 fino al '90. Poi realizzai che questo sfondo era talmente pregnante, talmente segnato che non c'era più bisogno di farlo dialogare con una linea nera, perché già reggeva da solo. Mi apparivano così alquanto "grafiche". C'era dunque bisogno di un cambiamento. Dai primi anni novanta ho riaperto le riflessioni sui grigi, e sono tornato a riappropriarmi della pittura. La tela è diventata più omogenea e soprattutto non mi sono più preoccupato della convivenza tra il momento razionale e quello ludico. Volevo che i segni sprofondassero all'interno della superficie, volevo che uscissero dai lati della superficie pittorica della tela perché - anche sotto l'aspetto psicologico – volevo alludessero a un'espansione. In alcune opere ho inserito dei ferri che proseguivano la direzione dei segni poiché intendevo occupare oltre lo spazio bidimensionale della superficie pittorica, anche quello tridimensionale, quello reale. Chiaramente in quelle opere si avverte la memoria di certe esperienze che rimandano all'arte ambientale, o a quegli artisti che lavoravano uscendo dal perimetro virtuale della tela per entrare in quello reale dello spazio. Tutto questo finisce nel '90 ma sono una continuazione ideale dei cuori, della prima metà degli anni ottanta. Ho cominciato a dipingere i cuori di bianco dai quali affioravano segni e accidenti di varia natura. Era un modo di dipingere vicino alla pittura informale: c'era la materia, c'era il gesto. Per questo, più che di pittura analitica, nei quadri 1985-90, parlerei di riduzione della pittura. Infatti, io diminuivo gli elementi facendo pulizia nel campo pittorico dell'affollarsi di segni. Avevo fatto una sintesi, creando queste strutture di cui tu scrivesti all'inizio degli anni novanta.

D. A. C.: È vero che c'è una differenza tra una pittura dove il segno è particolarmente distinto, da altre in cui i segni si percepiscono nella loro assenza. Il segno, a volte, si fa frastagliato, si perde, scompare e lascia sulla superficie solo la traccia che lo aveva ospitato; se un tempo si percepiva come strumento di divisione o di separazione, nelle più recenti come un'assenza di pittura. In alcune opere appaiono entrambi, così, in questa sintesi, si apre una riflessione sui colori. Ci sono periodi in cui i tuoi lavori sono caratterizzati da colori unici come fossero dei monocromi che stimolano effetti percettivi molteplici, spesso parallelamente a esperienze di artisti che hanno lavorato sul monocromo o sulla luce, magari anche non dipingendo nel senso classico del termine.

A. G.: Ho guardato molti altri pittori ma non ne ho guardato nessuno in particolare. Si può dire che ho guardato a Licini come ho guardato a Remo Bianco a Kandinskij o ancora a Carmassi, ma nel senso che sono quattro artisti che io adoro, però poi formalmente non ho niente di loro. Anzi se mi accorgo che se un mio lavoro si avvicina a uno dei tre, cerco immediatamente di cambiare percorso. Sono molto critico nel mio lavoro. Se mi faccio affascinare da altri artisti, ne prendo immediatamente le distanze; per me rappresentano solo un momento di riflessione. Sono vicino a certi nello spirito, come aveva rilevato Accame, proponendo un riferimento a Kandinskij, non un nesso formale ma interiore, un modo di approcciarsi alle cose, certamente non posso essere comparato a Guttuso o a Magritte. Il mio lavoro non si può paragonare a quello di altri artisti. Ho realizzato dei lavori negli anni '82 e '83 che intitolavo Anime in movimento; Anima Gialla, ad esempio, ha un piccolo movimento rappresentato da un segmento giallo come simbolo dell'anima, ma era un piccolo tratto in un labirinto di segni neri e aggressivi. Ce n'è un altro che si chiama Segno Minaccioso. È chiaro che non si parlava più di una costruzione formale o di un qualcosa che volesse alludere a qualcos'altro. Tutti noi si guarda inevitabilmente alle forme espressive della pittura, tutti si viene dalla storia dell'arte e naturalmente si fa una certa fatica a liberarsi di ciò che piace perché tendenzialmente si vuol seguire il percorso tracciato da altri, mentre bisogna cercare un ruolo autonomo e indipendente dagli altri, rimanendo però vicino a quel filo rosso che tiene assieme la lunga storia della pittura. E quando si sente o si vede che affiora qualcosa di quella storia, bisogna essere bravi a toglierlo e iniziare un progetto nuovo. L'hanno detto in tanti che sebbene quel poco d'altri ci possa dar piacere o meno, o possa diventar interessante o meno, bisogna allontanarci: ogni artista, sono convinto, deve avere una sua autonomia. Che sia una grande autonomia a me non è dato di sapere, comunque si deve vedere che queste opere sono di Gamba. E ciò è molto importante, poiché ai nostri giorni spesso nelle mostre si vede che c'è una ricerca già elaborata tante altre volte da altrettanti artisti.

D. A. C.: Avevamo aperto una riflessione sul colore sia per quanto riguarda la sua funzionalità linguistica quanto l'incidenza ciclica nelle tue opere. 

A. G.: Io lavoro per cicli i cromatici, e prevalentemente da quindici anni le mie opere si presentano come dei monocromi. Ho fatto per cinque anni i verdi, poi per tre ho usato i grigi e questo per mettere in risalto il segno, nei termini di cui si è già parlato. Nelle mie opere ci sono pochi elementi e devo creare attorno a loro una superficie affinché possano esaltarsi; infatti, vengono fuori bene con una superficie rosa o una verde: sono delle superfici vibratili, delle quali mi piace si avvertano le composizioni a diversi strati. Voglio che sia percepibile ciò che c'è sotto e sopra una struttura. Nella mia psicologia i segni sono ancora presenti sebbene in queste campiture, fortemente elaborate con sovrapposizioni di colori e di velature cromatiche, tendano a scomparire, fino a perdersi nella superficie o diventare parte integrante del fondo che può essere bianco, grigio o giallo, generando così delle strutture psicologiche come nel caso di In attesa che suoni, che è un'opera la cui struttura segnica è stata scambiata per uno strumento musicale siciliano o un'arpa o qualcosa del genere. Onde evitare ogni improprio tentativo di paragone con quell'oggetto, ho detto che mi sono ispirato a una piccola trivella e che ho trasformato in un oggetto simbolico e ho intitolato il quadro Emblematico. Sebbene pochi leggano o capiscano la pittura, io voglio anche trasmette qualcosa oltre ai segni, voglio anzi che il segno abbia anche un'identità.

D. A. C.: I tuoi lavori del 1986 sono caratterizzati da un fondo abbastanza chiaro, con un segno predominante che attraversa la superficie. Un segno lavorato a chiaroscuro che prende così volume. Le altre forme inserite nello spazio appaiono in sospensione su una profondità illusoria, quasi un oggetto oscillante che si sposta sulla superficie, creando dei giochi di volumi. Si assiste, nelle opere seguenti, a un passaggio graduale di trasformazione: da un senso di tridimensionalità illusoria a uno indiscutibilmente bidimensionale, dove il colore si appiattisce e luce si manifesta nei riverberi delle sfumature cromatiche. È confortato questo tipo di lettura?

A. G.: Questa pittura si trova nelle mie ultime opere. Nel tempo si sono pulite, nel senso che sono arrivato a una forma più essenziale. È una sintesi che è venuta formandosi quando ho cominciato a togliere gli elementi che a oggi mi sembravano in più e, con un processo di sottrazione, ho ottenuto qualcosa in più. Io lavoro essenzialmente sulla memoria perché queste linee, come ti ho detto, creano delle strutture spaziali o psicologiche, a volte tutte e due le cose, e chiaramente la linea nera è sempre presente; mentre in altre opere lontane nel tempo la linea nera è scomparsa, sbiadita, ma è rimasta la traccia che la conteneva. Sono delle frequentazioni che nel tempo hanno lasciato una leggera traccia di sé, e questo è uno stimolo per analizzare il passato e per affrontare un nuovo percorso. Non è un caso se ho intitolato una serie di quadri Incontro. Sono proprio degli incontri, un pretesto per fare della pittura senza dimenticarsi che rappresentano una pittura in evoluzione, in divenire. La pittura è espressione di un pensiero e i pensieri non stanno mai fermi. Così se mi chiedo perché dipingo, non so rispondere ma so che è un fatto misterioso, un'esigenza interiore, non lo faccio per convenienza né per altre riflessioni. Io credo che un pittore non debba riflette ma dipingere. Il mestiere dell'artista è un mestiere faticoso solitario, non è un mestiere come tanti credono, bisogna faticare sulle opere per sé stessi. L'artista si conforta già nel dipingere, e non certo perché qualcuno gli riconosca dei meriti. L’artista è artista perché trova un'esigenza per essere tale.

 

 

 

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Doppia punta  1985

(olio su tela  cm. 150x150)

Doppio movimento 1987

(olio su tela cm. 150x120)

Tensione, 2002

(olio su tela, cm. 100x70 )

Doppio senso, 1986

(olio su tela cm. 155x155)

Trappola delicata 2001

(olio su tela cm 200x200)

 

 

 

Gennaio - marzo 2016

 

Vincenzo Cecchini

 

 

parlando della mia pittura

 

 

  

Vincenzo Cecchini: Io penso che il dipingere sia un’azione che parte da uno stato d’animo, cioè dal desiderio di confrontarsi con una superficie, sulla quale altri elementi vengono a raccordarsi in modo tale che ciò che alla fine uscirà sarà la testimonianza di un procedere, di un susseguirsi di azioni che vanno a definire un’immagine che è poi pittura. In quel percorso si aprono delle riflessioni sugli elementi che costituiscono la mia pittura. Se decido di dipingere a olio io tengo presente le caratteristiche del colore a olio e non solo come consistenza materica, certo diversa da altri tipi di colore; oltre alla viscosità, la brillantezza o l’amalgama, c’è l’aspetto storico della pittura ad olio. Molti dipinti, che fanno parte della storia della pittura, sono ad olio e hanno permesso di creare effetti particolari che Giotto, ad esempio, non ha potuto usare. E così succede con tutti gli strumenti che utilizzo, dalla matita al pennello, dal colore ad olio a quello acrilico, dalla macchina fotografica alla stampante-scanner. Ciò che uscirà è ancora una cosa vaga, come anche la costruzione dell’opera stessa. Vivo i periodi della mia pittura in maniera diversa: in alcuni desidero organizzare il mio lavoro in modo non formale, in altri invece ubbidisco alle strutture che via via mi si mostrano.

 

D.A.C: Se ho ben inteso, non esiste nel tuo lavoro una progettualità; tutto origina da un rapporto immediato con gli elementi costitutivi della pittura. Cominciando dalla superficie per poi aprirsi alle caratteristiche materiali del colore, alla prima forma che scaturisce dalla selezione del campo pittorico, o dalla direzione dei segni e così via. Così, nel definire quella che chiami struttura, si manifesta una certa omogeneità tra il movimento e le caratteristiche del colore; per certi versi è un raccogliere la fisicità del materiale per delinearne gli effetti della luce. Ricordo per esempio i fogli di plastica trasparente che usavi negli anni settanta.

V.C.: La mia fisicità e la fisicità del materiale devono conoscersi e dialogare: nella mia pittura non deve esserci violenza.

 

D.A.C.: Credo dunque che i nostri ragionamenti debbano seguire la logica con la quale affronti la cosiddetta “operazione del dipingere”. Non sbagliamo se consideriamo il colore come una materia, prima che un'espressione cromatica a sé stante; intendo che il colore, che accompagna la tua pittura, deve avere delle caratteristiche particolari che esulano dall’aspetto fenomenologico, per assumerne un altro di tipo concettuale, poiché la tua pittura porta con sé una componente interpretativa autonoma. Lo scrisse Lotar Romain quando ti presentò alla Galleria Peccolo di Livorno. Egli, nella sua interpretazione di tipo concettuale, sostiene che ogni prodotto artistico comprende in sé altre interpretazioni, poiché la pittura esercita una certa forza, la particolare energia del movimento o di un segno, e tutto questo appartiene all’artista e non alla materialità del colore. Come il modo di usarlo, a volte fluido a volte denso a volte trasparente, altre appena accennato: tutto appartiene alla tua personalità e al tuo rapporto con la materia della pittura.

V.C.: Scegliere la materia del colore o la direzione dei segni, è un modo per distinguere vari periodi e per caratterizzare il mio evolvere come pittore. Le ultime opere, ad esempio, guardano a quelle più giovanili, alle mie esperienze degli anni settanta. In quegli anni usavo la fotografia nella quale oltre alla luce c'è la presenza di un grande buio, che veniva regolato dagli acidi di sviluppo, dal tipo di emulsione, dal tempo di esposizione. Ricordo quelle operazioni di tanti anni fa e ho presente come lentamente si formavano quelle ombre. Era un desiderio di esprimere un gesto con tutto quello che mi capitava tra le mani: era comunque un atto di pittura indipendente dal pennello, dal colore, ecc.

 

D.A.C.:  Viene così spontaneo fare una similitudine tra pittura e fotografia. Fare della fotografia, servirsi cioè della macchina fotografica significa usare un mezzo che, tramite la luce, impressiona la pellicola in negativo, solo in un secondo tempo si stampa il positivo. Si viene così a creare una pausa tra le due azioni. Un modo di procedere che induce a guardare un’immagine e nello stesso tempo a pensarla come riprodotta. Questa "pausa" in pittura non esiste, poiché nella pittura astratta non si dà un antefatto da riprodurre. La pittura, quella tua intendo, non rappresenta un momento oggettuale ma comincia dall’immaginazione. Anche un solo pensiero, che sia progetto o atto iniziale non importa, importante che entrambi si propongano come cominciamento di un’azione pittorica. In pittura dunque non c’è quel momento vuoto di attesa e di personalizzazione dell’immagine come in fotografia, la pittura è un’azione continua; è in quel momento che, per molti tuoi compagni di strada, ha inizio il processo di analisi e di riflessione sull’atto pittorico, compresi gli elementi linguistici che appartengono alla pittura: superficie, colore, materia, ecc. di cui si è già detto.

V.C.: È vero, la fotografia lascia uno spazio vuoto che appartiene alla macchina fotografica, ma nella pittura quel vuoto è riempito da atteggiamenti, comportamenti e riflessioni. Sono queste le pause che ritengo siano l’espressione di un modo di essere che si esplica in tutta la giornata; che io dipinga o non dipinga, che sia al mare a fare una passeggiata o al bar a giocare a biliardo, io, dentro di me, sto dipingendo. È sempre un guardare e soddisfare me stesso anche quando le azioni si esauriscono non nel momento del fare ma nel loro essere. Siamo tutti, per fortuna, diversi nel tempo.

 

D.A.C.: Vita e pittura fanno parte quindi di un modo di esprimersi e di vivere. Le tue esperienze, le tue frequentazioni, e le tue opere ti hanno avvicinato ai protagonisti degli anni settanta sotto l’etichetta della Pittore Analitica. Sebbene tu appartenga a quella esperienza, credo che essere catalogato ti vada un po’ stretto, soprattutto se, come hai appena detto, la pittura è un’espressione di vita, un momento condivisibile con il resto della giornata. Non ti vedo immobile a guardare la tua pittura e trarre delle considerazioni.

V.C.: Infatti, a me è andato sempre un po' stretta la definizione di Pittore analitico, anche se questo termine deve essere inteso in modo più generale, non specifico ad un movimento che in realtà non è mai esistito almeno nel senso dato dalle Avanguardie Storiche, con tanto di manifesto. Nel caso particolare della Pittura Analitica ho partecipato a qualche esposizione sotto questo nome con amici pittori con i quali avevo molte idee in comune ma non sufficienti per far rientrare completamente in quell'esperienza la mia idea di pittura, e della quale mi piace pensare ci sia una grossa parte non analizzabile.

 

D.A.C.: Concordo sul fatto che la definizione di analitico sia intesa più come una riflessione su alcuni elementi della pittura piuttosto che essere una fredda analisi psicologica o scientifica del colore o della superficie. Lo dimostrano i tuoi vari periodi che a volte si soffermano esclusivamente sulla superficie che accarezzi con dei pastelli facendola vibrare, oppure le ricerche sulla viscosità del colore, come negli anni ottanta- novanta, oppure ancora negli anni seguenti la possibilità di una forma /immagine che ristruttura la superficie come gli inserimenti di piccoli elementi in laterizio.

V.C.: Per me la pittura è sempre stato un atteggiamento, un modo di vivere con tutti gli imprevisti, e spesso il mio ragionamento si è soffermato proprio sugli imprevisti. Negli anni settanta fotografavo un mio gesto pittorico, lo ingrandivo nel tentativo di “congelarlo". E lo riproponevo sulla tela come "pittura". In questa operazione l’imprevisto era il sostegno di tutta l’azione. Oggi quei gesti”, o quegli sfioramenti, seguono una struttura elementare, una geometria semplice, e nel loro organizzarsi perdono l’eventuale violenza del gesto inconscio. Questo binario, dove mi costringo a camminare, è un percorso creativo che ha delle piccole avventure. La fluidità della materia, ad esempio, nasce dall’esperienza dei liquidi usati nella fotografia, dal formarsi dell’immagine nei bagni di fissaggio e lavaggio. C’è similitudine tra la forma che si manifesta in un liquido e la scorrevolezza del colore. E’ una maniera di raggelare il gesto. Il colore inizialmente caldo e fluido accompagna il movimento della mano o del pennello che avvertono lentamente il suo consolidarsi. Comincia la sfida, o il gioco, e l’esito spesso dipende da questioni atmosferiche.

 

D.A.C.: Hai fatto mostre con Morales, con Cotani, col tedesco Girke, col francese Viallat, giusto per citarne alcuni, senti che c’è un linguaggio della pittura europea o semplicemente è un fatto tecnico molto vicino al singolo artista? Voglio dire, senti quest’esperienza come un fatto internazionale oppure c’è qualcosa di intimo che è diventato semplicemente comune a tanti in Europa, una sorta quindi di momento romantico come un ritorno ai materiali della pittura?

V.C.: Mi sono avvicinato ad alcuni pittori come Carmengloria Morales o Paolo Cotani perché stavamo bene insieme e mi piaceva la loro pittura, ma non ho mai desiderato frequentare pittori per fare un discorso di gruppo.

 

D.A.C.: Tu adesso ti confronti con un nuovo tipo di cultura rispetto a quegli anni, cos’è che ti pare sia rimasto nei tuoi lavori di quella esperienza?

V.C.: Mi è rimasta la possibilità di essere libero davanti a una tela, facendo sempre i conti con il pericolo di venire chiuso dentro una struttura che mi imprigiona per sempre; in alternativa cerco uno spazio che mi lasci la possibilità di scarrozzare dove voglio. Il problema è sempre quello di inventarsi i confini.

 

D.A.C.: … allora la tela è …?

V.C.:  La tela è un paesaggio da attraversare, con delle avventure e degli imprevisti. Sto preparando una serie di opere nelle quali la tela è coperta da uno schermo trasparente sul quale sono fotografati segni, colori e carezze. Riprendo una vecchia idea che non ho portato a termine. E il ciclo continua…

 

D.A.C.: … e la pittura è…?

V.C.: “…fatta con la stessa tela con la quale sono costruiti i sogni”.

 

 

 

 

 

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dal nero al grigio, 1972

olio su tela cm. 200x80

 

 

 

 

 

 

suoni bizantini , 2004

acrilico e olio su tela cm. 80x60

 

 

 

Gennaio - marzo 2016

 

 

 

Arturo Carmassi

 

 

Un ricordo

 

 

Ho finito la mia ultima intervista ad Arturo con la promessa di incontraci a Parigi, al museo Rodin dove sarebbero state esposte le sue sculture e al Petit Palais per vedere l'antologica pittorica. Non so se le mostre si terranno, me lo auguro; mi auguro che i suoi amici parigini, tra tutti Jean-Marie Drot, portino a compimento le due iniziative; certo al momento è che Arturo ci ha lasciati alla fine di gennaio, non raggiungendo – per pochissimo a dir la verità – quei novant'anni che citava continuamente mentre raccontava della sua vita o quando apriva una delle sue disquisizione sull'arte o sui personaggi del mondo artistico che ha frequentato e con i quale a volte ha solidarizzato o polemizzato.

Non era un uomo facile Arturo, né il suo carattere si prestava a compromessi. Era sicuro della sua arte e dei linguaggi espressivi che andava di volta in volta sperimentando o rafforzando, sia nei momenti in cui padroneggiava una sorta di simbolismo figurativo sulle grandi tele, sia quando realizzava le sue litografie astratte fatte di segni e punti linee, o ancora gli ampi teleri informali, dove legni corde e colore e materia si intrecciavano, dando spessore estetico proprio nel suo aspetto puramente fenomenologico e nei suoi attivi collage in cui energia e movimento si perdevano sulle ampie campiture cromatiche e dove gli improvvisi guizzi segnici seguivano l'irregolarità della superficie.

Grandi opere occupavano tutta la parte superiore del suo studio facendo da quinta a noi seduti su sedie e sgabelli africani più o meno comodi. Spesso allietati dall'immancabile champagne, freddo al punto giusto. La bottiglia posata sulle sedute, accompagnava le riflessioni sull'arte, sugli artisti. E non c'era discussione che non cominciasse dal Giamaica. E tra i ricordi: le scelte di allora e qualche episodio con protagonista Maryse, affioravano i teneri ricordi di Chighine, uno degli artisti che Carmassi ha sempre ricordato con quell'aria triste di chi avrebbe voluto fare di più per quel grande pittore, come lo ha sempre definito.

Non mancava viaggio in Toscana, spesso con mio figlio, che non mi fermassi a mangiare da lui. Di mezzogiorno o di sera era lui a cucinare. Noi a camminare tra le sue collezioni di maschere africane, passando piano piano sopra la pelle del leone che da terra pareva che ruggisse al busto di Guttuso o a quello di Van Gogh. C'era sempre un libro aperto. Da quelle pagine si capiva cosa stesse studiando e quello, a volte, era anche il primo argomento per aprire la serata. Poi, seduti in tavola sempre preparata per sei, si finiva lo champagne.

Seduti si aspettava che arrivasse con le portate. Sempre complete e varie e poi iniziava. Iniziava parlando del più del meno, poi una specie di disgusto per le tante cose che non funzionavano, dalla politica, all'arte, dal comportamento degli uomini alla comunicazione dei mass media, che definiva sempre imprecisa e faziosa. E qui Arturo liberava la sua passione; una passione fatta di calore nei torni vocali che, nei momenti più intensi, sfiorano il falsetto tanto che la parola immancabilmente non finiva per mancanza di fiato. Così le parole passavano seguendo i pensieri e gli artisti (Picasso fra tutti) e anche i ricordi su storie e accadimenti. E tra un epiteto a uno e ad un altro, scendeva di tono per inserire alcune parole in un fluido e sonante francese. Ma nei momenti di maggior sconforto mangiava ingordamente il gelato direttamente dalla vaschetta.

I suoi ragionamenti non erano dettati dalle emozioni, a volte sussurrate a volte urlate ma sempre sostenute da ragionamenti profondi.

A quel tavolo mi sono seduto con personaggi illustri, professori di filosofia tedeschi, scienziati francesi, collezionisti di tutta Europa, rettori e scrittori.

Critici d'arte, non ne ho conosciuti a casa di Arturo.

E non comuni erano gli abbassamenti di umore, quando nel salutarci, davanti alla macchina guardava le bianche sculture di marmo che ancora riflettono controluce il ricordi di Maryse, la donna che gli è stata accanto per una vita. Arturo ha voluto fossero messe in quella posizione perché nel tramonto una forma immaginaria si stagliasse come una siluette che, prima della notte, salutasse il compagno.

Anch'io voglio lasciare questi pochi pensieri pensando alla voce roca di Arturo capace di diventare improvvisamente rotonda e calda quando parlava dei grandi pittori toscani di quei colori che hanno caratterizzato la storia della pittura senese, come quel Piazzetta che mi citò nell'ultima intervista, cercando di farmi capire come una macchia di colore possa caratterizzare tutto il lavoro di un pittore.

 

 

 

 

 

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Gennaio - marzo 2016

 

 

Nelio Sonego

 

 

 

 «Quindi l'immagine di Sonego diviene un'indagine di ricerca di qualche suo problema, ma anche di un problema di altri problemi, di invenzione, di annotazione, di emozione.

«Una strada diversa da molti, diversa dai più, che non è "in", ma anzi se ne discosta, come succede per chi non sta a orecchiare, che non sta a informarsi, ma che ha già un percorso chiaro e autonomo.» Questo è quanto scriveva, nel 1987, il lungimirante amico di Nelio Sonego, Mario Nigro. Vedeva bene l'artista toscano, poiché difficilmente è possibile racchiudere l'opera di Sonego in un movimento artistico o limitarlo in una corrente pittorica relativa a questi ultimi decenni. Come dice il nostro autore: «è lo spazio della tela che ho davanti che mi attira con la visione a imprimere i segni». Ciò induce a pensare che non sia possibile una interpretazione della pittura di Sonego a prescindere dall'univoco rapporto tra l'artista e la superficie. Dalla sua dichiarazione si intuisce che è proprio la superficie a chiamare alla pittura, alla creatività, all'espressività. Ogni operazione diventa così un dialogo che si nutre dell'immediato rapporto tra fare e guardare al proprio lavoro. Un guardare al passato con la consapevolezza che «facendo del ricordo una percezione più debole si misconosce l'essenziale differenza che separa il passato dal presente, si rinuncia a comprendere i fenomeni del riconoscimento e, più in generale, il meccanismo dell'inconscio.» (H. Bergson, Materia e Memoria).

Le opere dell'artista veneto vanno dunque lette nel loro ri-presentarsi come in un'apparente immutabilità; una forma espressiva dunque sempre in evoluzione, che esprime nuove potenzialità ed esplicita nuove individualità; una pittura tesa al superamento delle singole esperienze tracciando un personale percorso chiaro e autonomo, con il quale l'autore ha delineato una personale interpretazione del segno e del colore.

Sonego è un'individualità artistica e nel contempo solo nel suo fare. Esplora le potenzialità di pochi elementi del linguaggio dell'astrazione, ma lo fa con la consapevolezza che l'opera, una volta completata, deve misurarsi con lo spettatore e con tutte quelle forme espressive che hanno guidato buona parte della ricerca nell'arte contemporanea. Ci sembra quindi che in questa ri-proposta tematica si possa individuare un certo razionalismo che limita una gestualità (e non si dimentichi che fu allievo di Vedova all'Accademia di Belle Arti di Venezia) che si è anche mantenuta lontana da un'idea di immediatezza, di improvvisazione formale o di epifanica materializzazione dell'atto pittorico.

Potremmo individuare l'origine del suo viaggio pittorico nell'opera Strutturale del 1979 (in Viaggio lineare, 1991, a cura di C. Cerritelli e dello scrivente). Si tratta di un'opera essenziale nella sua forma: tre linee diagonali tracciate su tela con stecca e matita, contrapposte a un'altra con pendenza contraria. Nelle opere di quegli anni troviamo triangoli segnati con un lapis, nero o colorato, o più semplicemente superfici divise da lievi e appena accennati tratti diagonali, che vanno a definire delle figure rigorose e minimali. Questo è il "disegno" (rubando ancora dalle parole di Nigro) che guida la sua ininterrotta ricerca sull'essenzialità dei linguaggi. E ne chiarisce il senso Enzo di Grazia presentandolo alla Galleria San Carlo Napoli negli anni ottanta: "In questa direzione, analizzare una figura geometrica significa inevitabilmente proporre la pittura come campo d'azione della pittura, la mente umana come campo di riferimento per la ricerca formale, l'arte come creazione di pure forme, slegate da qualunque rapporto con l'esterno."

Benché si faccia riferimento alla geometria, la sua pittura non può essere identificata con un'idea di geometria. Per altro lo dice lui stesso: "Non sono geometrie definite e per questo le ho denominate prima triangoarcoli e poi angoarcoli." Neologismi, come Orizzontaleverticale, che l'artista usa per prendere le distanze da una ricerca artistica priva della singolarità creativa che caratterizza il suo lavoro.

Queste esperienze dunque già delineavano – sebbene nell'incertezza che può avere ogni progettazione artistica di un giovane poco più che ventenne – quale sarebbe stato il suo percorso. Una pittura per certi versi sostanziale, fatta di pochi elementi linguistici come il segno, il colore e la superficie. Questo scarno fare pittura ci suggerisce di evitare ogni considerazione sulla limitazione dei linguaggi dell'arte, e, a seguito di questo, sarebbe ancor di più inesatto pensare che le sue opere cedano a una superficiale idea di "poverismo". È, in sintesi, una continua sperimentazione delle potenzialità del segno, della linea e della superficie (pur non essendo per nulla comparabile con le esperienze della Pittura pittura degli anni settanta). È dunque in questa logica che vanno lette le sue opere; infatti, se messe in relazione alla continuità espressiva, queste mettono in scena un persistente dialogo tra elementi del fare pittura con il loro estrinsecarsi in tematiche su forme (i triangoli colorati) o su linee perimetrali dei rettangoli (Orizzontaleverticale) o di triangoli (angoarcoli).

Rettangoli (che dunque chiameremo così solo perché hanno linee perpendicolari) perimetrati dal solo segno precedono o seguono altre figure simili, caratterizzate però da cromatismi che non si lasciano influenzare da teorie compositive, né intendono riferirsi a logiche interpretative del monocromo. È al colore, nel suo essere luce mutevole, che Sonego guarda. Il colore non è solo un segno, né l'espressione di una gestualità. Con il colore l'artista crea un equilibrio formale tra segno e forma.

Per comprendere l'evoluzione è importante ricordare il ciclo degli Angoarcoli. Figure, generalmente proposte quattro a quattro, aventi forme similari ai triangoli tracciati sulla superficie di carta o tela (alcune anche su superfici grossolanamente dipinte con evidenti pennellate di bianco). Questo periodo rappresenta una sostanziale riflessione sul segno. Un segno lungo quanto la quantità del colore contenuta dal pennello. Un segno irripetibile nel suo divenire, carico di materia tanto da creare delle opportune gocciolature e sufficiente a completare il gesto. Questo periodo può essere considerato il suo più significativo confronto con un'idea di pittura. Un confronto che produrrà un'importante riflessione sulla brevità del segno. La pittura a pennello ha senza dubbio rappresentato un limite per l'artista; eppure è stato un esperimento preceduto dall'uso dei pastelli o dei gessetti che permettevano un segno continuo ed ininterrotto, e seguito, più tardi, dall'impiego delle bombolette spray. Poi i neon, con i quali ha intenzionalmente cancellato l'azione gestuale, per lasciare il campo alla sola linea luminosa (Bruce Nauman docet).

Ma anche questo suo guardare alle innovazioni espressive, o all'annullamento dell'atto pittorico non è dato dal venir meno delle singole possibilità dei segni, ma all'efficacia e alla variegata forza comunicativa del suo sistema espressivo. E se questo tende a esaurirsi o a perdere effetto, nel contempo si fa presupposto per una nuova riflessione sui segni, sull'azione pittorica, o semplicemente sui colori. Ancora una volta Sonego non si lascia affascinare da esperienze estranee al suo fare arte, né guarda altrove. Ritorna con spirito innovativo e riflessivo alla sua pittura.

Nell'evoluzione della produzione artistica di Sonego si avverte la maturazione dell'uomo e dell'artista, la stessa maturazione che ha sviluppato e delineato, nel tempo e nell'esercizio pittorico, la specificità del suo fare. Ancora una volta vediamo l'artista rielaborare quel "disegno" aveva in testa poco più che ventenne. Ma è nella mutevolezza del tempo e nel guardare al passato con la consapevolezza che le esperienze maturano, che le nuove produzioni non possono essere l'effetto di una ripetizione del fare, né tantomeno arroganti validazioni della propria pittura come una certezza immutabile, ma comprendere che la pittura segue lo stesso percorso dell'evoluzione del pensiero e della continuità espressiva del fare arte. Il gesto pittorico di Sonego consolida la sua autonomia ed entra così nella sfera del sensibile, alternando in questo modo il ricordo delle esperienze passate con la sensibilità dal fare presente. Ogni nuova composizione si profila dunque come la continuazione di un pensiero che, come tale, prefigura l'opera completata, che si presenta sempre come "presente", sebbene abbia un passato, poiché Sonego realizza le sue opere con un solo atto, continuo e non interrotto, privo di ripensamenti o di correzioni. Un'elaborazione dunque che va escludendo fantasiose espressività, che non si fa allettare dalle mode pittoriche, né tantomeno da contaminazioni linguistiche.

L'artista guarda dunque alle possibilità della pittura per questo sarebbe dunque riduttivo e inconsistente pensare che possa approfondire una pittura diversa da quella che ha elaborato in questi lunghi anni. Sotto questo piano di lettura si comprende anche l'arguta osservazione di Mario Nigro, nell'individuare in Sonego la volontà di cimentarsi con l'evoluzione della sua pittura in relazione alla maturazione del suo atto pittorico.

 

 

 

 

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Orizzontaleverticale, 2005

spray su tela, cm. 200 x 100

 

Rettangolareverticale, 2013

spray su tela, cm. 250 x 170

 

 

Rettangolareverticale, 2015

spray su tela, cm. 104 x 100

 

 

 

Orizzontaleverticale, 2005

spray su tela, cm. 50 x 70

 

 

 

Gennaio - marzo 2016

 

Franca Battain

 

 

Il cammino dell'anima - opere 1998 - 2015

 

 

Nel suo lungo percorso espressivo, Franca Battain è andata consolidando progressivamente la pratica della contaminazione dei linguaggi e questo ha stabilizzando un processo creativo nel quale i vari stili espressivi partecipano, a intensità diverse, alla definizione estetica dell'opera, senza però mai fondersi veramente in un linguaggio comune. È dunque in quest'ottica che si manifesta e realizza l'idea che alimenta la sua creatività.

Nella mostra alla Galleria Comunale di Portogruaro, Battain viene proponendoci un confronto tra le dinamiche evolutive di alcune tra le più praticate forme espressive e come queste contribuiscono alla maturazione delle identità esistenziali, del loro esistere e del loro confrontarsi col mondo dell'arte.

Non si dà opera senza che questa non sia parte di una riflessione o di un rapporto spirituale tra l'idea, il pensiero e il linguaggio (anzi i linguaggi) del suo procedere artistico; tutto ciò nella consapevolezza che compito dell'arte è suscitare emozioni tali da rendere partecipe lo spettatore non solo per la forza del come ci si vuol esprimere, ma anche con l'energia del coinvolgimento che appartiene alle diverse forme linguistiche.

Le sue opere sono in sintesi la risultanza di momenti intimi, di vive sensazioni e di conseguenti visioni; sono interpretazioni di una realtà trascendentale che l'artista interpreta attraverso la forma che solo l'arte riesce a riprodurre. Battain esprime così un'idea di spiritualità, la cui figurazione appare estremamente fluida e vaga quasi priva di materia; e in una realtà, anche psicologica, nella quale l'emozione è descritta con figure quasi irreali e inserite in composizioni che oltrepassano la mera rappresentazione della società. Immagini che ci appaiono sospese in quel mondo onirico e fantasioso  che caratterizza le pitture di Chagall.

Il tema di questa esposizione attraversa un ampio periodo che va dal 1998 ai giorni nostri ed è ben rappresentato dall'installazione La discesa della Vergine: metafora di una spiritualità che si fa materia; spiritualità come momento metafisico dell'idea ma anche come interpretazione delle sensazioni più personali nate dal proprio vissuto. Così il contatto con lo spirito genera un'emozione narrata con i linguaggi della creatività, tale da far sì che l'opera rimanga solamente un punto di vista, una percezione formale, apparentemente muta ma - come tutte le opere d'arte – soggetta all'interpretazione. Per cui i contenuti si alimentano dallo scambio dialettico tra etica e realtà, tra principi e accadimenti, tra moralità e comportamento, tra pensiero ed essere, tra idea e realtà, tra spirito e materia; cosicché il tema che conduce alla lettura delle opere di Battain è il continuo passaggio da un aspetto soprannaturale a quello reale e viceversa; anzi ad essere più precisi è la materia che si fa "segno" dell'idea. È lecito quindi considerare quest'installazione come un'allegoria di un continuo salire alle idee e scendere alla materia, sempre però motivata da una trascendentalità emotiva, silenziosa ed intimistica, fatta di sentimento e di privata memoria.

Ciò che indica come la Vergine sia tornata "cosa" percettibile, sono alcune scarpine (della stessa misura di quelle originali conservate in un convento in Spagna). Una presenza solo citata ma non spiegata: una muta figura come tangibile segno del suo passaggio.

Allo stesso modo e con un linguaggio simile Battain ci fa assistere a una "discesa" più contemporanea e meno evocativa – questa sì molto forte ed intensa – attraverso ciò che le scarpe lasciano sulla terra: le orme. Con il linguaggio della pittura e dell'installazione l'artista si avventura nella definizione di un "segno" che si fa simbolo del movimento delle genti sulla terra. Un camminamento alimentato dal desiderio di libertà qui espresso da alcune orme in carta. Ciò che vuole evocare l'artista è un proprio sentimento, sentito e provato di fronte alla diversità dell'esistenza degli uomini. Una diversità qui riferibile alla migrazione dei popoli, trascinati dalla speranza (ahimè spesso trasformata in tragedia) e dal desiderio di una vita migliore. Orme colorate, di uomini, donne e bambini, si fanno così figurazione di un doloroso cammino verso un futuro più umano, guidati da una nuova discesa di un'idea di vita nuova e in una nuova realtà.

 

 

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Discesa della Vergine, 2015

 

Discesa della Vergine, 2002