Bimensile di Informazione e critica d'arte

 

2015

 

R. Guarneri - La materia del colore

 

 
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gennaio - febbraio 2015

 

 

 

 

Riccardo Guarneri

 

 

Parlando della mia pittura

 

Riccardo Guarneri: Nei primi anni sessanta diventai amico alcuni pittori di Genova: Bargoni, Esposto, Stirone Carreri che avevano fondato il gruppo Tempo3. Fu Eugenio Battisti a proporre il nome di tempo3 intendendolo come il terzo tempo dell'astrattismo: l'astrattismo classico geometrico, cui seguì l'informale poi questo tempo tre che andava oltre l'informale. Notai che avevo delle affinità con loro, sebbene ognuno di noi lavorasse per conto proprio. All'epoca non eravamo tanto originali, seguivano la moda dei gruppi, c'era, infatti, il gruppo1, il gruppoT, il GruppoN e così via. Io allora tenevo solidi rapporti anche con gli amici del Gruppo1. Nel contempo frequentavo a Milano Aricò, Vago, ecc. Mi ritrovai così in una situazione molto diversa e più stimolante rispetto a quella che vivevo a Firenze, dove non trovavo alcuna risposta a livello intellettuale. Per questo intensificai i contatti con Milano, Roma e Genova. Già frequentavo Battaglia, Verna che studiava a Firenze e nello stesso tempo dipingeva, Vago, Matino, Griffa, Gastini, Olivieri. Questi erano i giovani per me più interessanti, tanto che mi riconoscevo nel loro lavoro di ricerca e quindi mi sembrò normale condividere il loro cammino. Cominciammo a esporre insieme in diverse mostre alla galleria la Piramide di Firenze che, con la galleria Peccolo di Livorno e al critico Lambertini, mostrava interesse per questo tipo di pittura. Accanto a questi, ricordo gli incoraggiamenti di Bruno Passamani e Vinca Masini; è stata lei a presentarmi ad Apollonio e ad Argan. Allora ero poco più che un ragazzetto, poi questa situazione si è allargata e, in diversi modi e tempi, venni coinvolto.

 

Diego A. Collovini: I nomi che hai fatto e le gallerie che hai citato hanno esercitato una forte spinta verso una nuova idea di pittura. In particolare Roberto Peccolo che, con i suoi rapporti con l'Olanda la Germania e la Francia, ha introdotto diverse novità in fatto di pittura. Penso anche che quegli anni abbiano rappresentato un momento interessante per tutti coloro che volevano fare la pittura, infatti, dopo l'affermarsi dei variegati linguaggi dell'arte negli anni sessanta, sono state allestite diverse mostre che hanno guardato una nuova riflessione sulla pittura. Oltre al lavoro di Menna che nella sua La linea analitica dell'arte moderna ha voluto dare un'interpretazione diversa e per certi versi anche innovativa alla pittura, ci sono stati molti critici che hanno riflettuto sul linguaggio della pittura, e in quella logica di lettura anche il tuo lavoro si è trovato inserito all'interno di una storia che ha avuto diversi sviluppi; però io credo che quelle esperienze, diciamo analitiche, siano state il risultato di una ricerca approfondita personale e anche individuale. Tutti voi non siete però riusciti a diventare un vero e proprio gruppo, ma una sommatoria di eventi che ne hanno analizzato profondamente il linguaggio della pittura astratta e tu partecipasti più volte a queste mostre.

R.C.: Devo dire, che non ne fui coinvolto sotto l'aspetto dell'appartenenza a un gruppo vero e proprio, d'altronde tutti noi lavoravamo per conto nostro, ma per come sono realizzati i miei lavori mi trovai nel mezzo e ne venni direttamente interessato. Per capire in che rapporto stavo con l'esperienza Pittura Pittura, posso citare la mia partecipazione alla mostra Empirica allestita da Cortenova a Rimini e poi a Verona. Venni inserito tra gli antesignani. Mi si chiese di esporre dei quadri degli anni sessanta, come fossi un precursore di quell'esperienza. Poi ne furono allestite altre in Italia e, come i giovani che hanno sempre la voglia di mostrare i propri lavori e che ritengono importante l'esserci, vi partecipai. Tra tutte, ricordo Fare Pittura che si tenne a Bassano del Grappa Curata da Fagone e Passamani.

 

  D.A.C.: Credo dunque che dobbiamo, in questo nostro colloquio, inseguire, anche se solo in parte, quel tipo di riflessione, parlare cioè dei componenti linguistici che caratterizzano il tuo modo di fare pittura. Per primo credo sia il caso di riflettere su un effetto particolare che caratterizza la finalità del tuo operare: la luce. Accanto alle evidenti forme che maggiormente focalizzano la lettura, si percepisce una certa atmosfera, ovattata, quasi una nebulosa che copre la superficie dalla quale però emerge una particolare idea di luce, che porta con sé, quasi rispettosamente, segni, vibrazioni cromatiche, forme quasi geometriche; insomma rendi protagonista una luce riservata come fosse formata da un andirivieni di onde che vibrano su tenui cromatismi.

R.C.: Per quando riguarda il discorso sulla luce, credo tutto sia cominciato con il mio viaggio in Finlandia.  Allora suonavo in un'orchestra. Ero molto giovane e fui affascinato dalla luce incredibile che hanno il mare, i ghiacci, il cielo e le soffuse nuvole. Era in inverno o inizio primavera. Credo che quella luce abbia influito più tardi nel mio lavoro. O forse in quel viaggio si è manifestata una mia predilezione verso quelle luci fredde e terse; in effetti, io non amo molto il sole o le luci forti che caratterizzano i paesi mediterranei. Mi affascina di più la nebbia, mi attirano i cieli bianchi e i mari argentati e colgo queste minime differenze che ci possono essere tra due bianchi, tra quello della neve o quello di un cielo nuvoloso. In quegli anni mi ritrovai all'Aia. Fui affascinato dagli ultimi autoritratti di Rembrandt, e anche di Seghers – che dipingeva dei quadri molto chiari e luminosi  – o dei colori di Vermeer. Mi si scolpì nella memoria la luce presente negli autoritratti di Rembrandt. Tutti con i fondi scuri e con la luce che illuminava i volti. Allora dipingevo dei quadri abbastanza scuri e la mia pittura era di tipo informale; erano gli anni 1952 o '53. Cominciai piano piano a schiarire il colore fino a portarlo a una rarefazione, praticamente quasi un monocromo. Però in questo monocromo c'erano sempre dei segni che mi derivavano dall'informale, ma pian piano stavano evolvendo e assumendo una forma quasi geometrica: diventavano superficie e costruzione. Forme leggere, aleatorie realizzate con leggeri segni a matita. Il segno della matita è lieve, trasparente, quasi impalpabile. La vibrazione provocata da questi segni creava una singolare superficie; naturalmente dal fondo bianco della tela trasparivano queste linee, queste forme. E su questi quadri così bianchi, la trama di graffite o i segni di matita variavano di colore e di intensità. Se uso una matita rossa su una tela bianca con tratti leggerissimi, è chiaro che appare un rosa pallidissimo creando una particolare luce.

 

D.A.C: Si può pensare a una inspirazione di tipo naturalistico o una riflessione analitica sugli effetti del colore utilizzato su campiture diverse?

R.C.: No non credo si possa parlare di naturalismo nelle mie opere, sebbene l'emozione sia stata determinata dal paesaggio; mah! dentro di me può darsi. Certo non volevo che il quadro avesse un riferimento figurale. Per me la pittura è astratta, poiché avevo già abbandonato la figurazione negli anni cinquanta. Come tutti a vent'anni si è figurativi, nel 1953 sono passato all'astrazione e da allora ho sempre continuato in questa direzione. È certo però che, come tutti gli astratti, non mi sono limitato a ritenere che la pittura fosse solo una necessità espressiva. Pitturare significa anche riflettere su quello che si fa e quindi nel corso del tempo sono stato più coinvolto razionalmente che emotivamente.

 

D.A.C.: Sarebbe difficile pensare, ora, che la tua pittura sia legata a un informale espressivo o di tipo psicologistico. C'è una forte attenzione agli effetti della pittura, al suo mostrarsi nel suo definitivo essere, per questo ritengo che il passaggio da una pittura di tendenza – poiché l'informale apparteneva ai tuoi anni giovanili – a una pittura ragionata e nuova, sia stata una scelta ben ponderata e nata dalla consapevolezza che fare pittura non è semplicemente mettere dei colori su una superficie: non si può ragionare su un elemento linguistico senza ragionare dell'altro.

R.C.: Come tutti i pittori ho cominciato col figurativo; ma a contatto con la materia, la luce e il deciso segno delle opere di Rembrandt ho trasportato quelle mie percezioni in una pittura di tipo informale. Io facevo queste macchie bianche al centro con un fondo nero marrone tendente al verdastro, comunque scuro. Erano quadri informali, i bianchi al centro erano fatti di segni a pennello e materia a olio. All'inizio degli anni sessanta – il primo quadro è datato 1962 – cominciai con questi quadri banchi con i segni a matita e con leggere linee bianche a volte fatte in acquerello, altre con un acrilico molto diluito per dare identità autonoma a questa superficie monocroma. Con questi segni diventava poi strutturata. Volevo dare un'idea di geometria e di costruzione formale. Poi andando verso il 1968 – nel 1966 fui invitato alla Biennale di Venezia – queste superfici erano praticamente scandite con dei quadrati che non erano mai quadrati perfetti, ma erano sempre sbilenchi tanto che io li chiamavo quadrangoli. Era più che altro per creare una difficoltà di lettura, ciò che sembrava un quadrato era, in realtà, una linea leggermente inclinata o leggermente curva. C'era una sorta di psicologia della forma sostenuta con quadrati simultanei, dei quadrangoli o angoli quasi sempre bianchi leggerissimi, con la volontà di geometrizzare o di razionalizzare l'immagine. Però non era una pittura geometrica nel senso storico, ma un artifizio per creare dell'ambiguità tali da prolungare la lettura. L'osservatore viene così indotto a domandarsi del perché di una linea storta o leggermente inclinata o altre imperfezioni che si contrapponevano alla logica precisa della geometria. Volevo un'attenzione più prolungata, tanto che definivo le mie opere quadri a lento consumo. Ma non solo la falsa geometria anche i colori delle matite, gialle, verdi, rosse contribuivano a creare curiosità. E poiché lea sfumature non erano percepibili immediatamente bisognava chiedere allo spettatore fermarsi a osservare per scoprire ciò che stava ancora nascosto.

 

D.A.C: Abbiamo sfiorato un altro elemento linguistico della pittura: il colore. Un elemento che, proprio per la sua mutevolezza, per le possibili combinazioni e per le possibilità espressive, a volte lo si fa coincidere con una certa idea di pittura. Nelle esperienze informali è stato l'elemento che, accanto al gesto e al segno, definiva l'opera. Nel tuo lavoro il colore si mostra delicato, riservato e, a volte, nella sua massima leggerezza, come un contorno, come un momento di pausa di riflessione rispetto alla composizione dei tuoi quadri, eppure rimane sempre il protagonista della tua pittura.

R.C.: Il colore deve venire dall'interno, dalla personalità dell'artista. La leggerezza del colore nei miei quadri deriva dalla matita o dai pastelli molto leggeri o addirittura dalla polvere di pastello buttata sopra in modo che tutto venga molto velato. Il mio colore vive in funzione del chiaro e della luce chiara. Ho usato molto l'acquerello su una tela bianca o su un foglio di carta bianco, comunque una superficie bianca, perché ogni discorso parte dal bianco. Tutto quello che è aggiunto, va a coprire questo bianco e quindi sottrae parte del bianco ma se la copertura è leggerissima, è chiaro che la luminosità del bianco sottostante traspare e viene fuori, per cui non potevo servirvi di colori acrilici o a olio. È chiaro che il colore viene stabilendo un dialogo tra me e il quadro. Se per esempio si mette una striscia violacea su una superficie bianca, che può essere una tela o una carta, guardando con attenzione questa striscia ai bordi appare un giallo leggero, perché fa parte del processo dei colori complementari.

 

D.A.C: Anch'io penso che la tua pittura non possa essere ascritta a categorie ben precise, poiché, al di là di alcune considerazioni sulla progettualità penso che l'aspetto più evidente sia quello della liricità, cioè di una pittura che si esprime con un certo equilibrio formale ma anche molto attenta agli effetti del colore, comunque libera e che insegue sé stessa nel procedere e nel formarsi; come non penso sia un'esecuzione formale precisa che segue un percorso già definito, ma che risponde a un'idea generale ma che poi, nel proseguo del fare si alimenti dal sola.

R.C.: C'è sempre un inseguire nel mio lavoro. C'è in realtà un progetto iniziale, un'idea dalla quale parto. Mettere quattro quadrati uno dentro l'altro che si spostano leggermente fa parte della progettazione sulla quale io faccio magari dei disegni e sebbene i primi interventi  avvenivano con dei minimi scarti c'era sempre qualche cosa che, in fase di lavoro, alla fine veniva modificata. Ne discusi con Apollonio – che mi stava allora preparando una presentazione per una mostra – al telefono. A una sua domanda risposi che ormai non progettavo più e lui mi disse: "Per forza non progetti, hai sempre progettato ormai ce l'hai addosso non te lo puoi togliere". Vedi il mio percorso pittorico è sempre stato un continuum. Non ho mai pensato a un cambiamento, non ce n'è mai stata l'esigenza. Nelle mie opere c'è sempre una variazione su un tema, un tema che cambiava di volta in volta. Mi sento un bachiano che procede su piccole variazioni. Non essendo mai stato assillato dal mercato, ho potuto sperimentare cose nuove e diverse, approfondire alcune tematiche. In particolare ho sempre cercato una sintesi tra la tela e la carta. Ho usato carte pesanti di 600 grammi e su queste o utilizzato degli acquerelli cercando di sostituire il segno della matita che, su quella carta ruvida, sgranava, così quest'impossibilità di continuare in una certa direzione mi ha indotto a lavorare sulle macchie di colore ad acquarello leggero. Così ho realizzato le strisce orizzontali anziché vibrarle con la matita, le vibravo ad acquerello. Ho poi provato, inutilmente, a realizzarle su tela con scarso successo e questo m'indusse a un cambiamento nella tecnica. Utilizzai una carta di riso giapponese leggerissima che stendevo sulla superficie con la pasta d'amido. Sulla superficie di tela dipinta di bianco incollavo una carta di riso giapponese leggerissima e sopra stendevo una macchia di acquerello. Il risultato fu efficace ne uscivano delle filettature interessanti e intriganti nel loro effetto. Con questa tecnica lavorai quasi tutti gli anni ottanta.

 

D.A.C: … ma non mi hai detto come hai cominciato …

R.C.: A un filosofo tedesco domandarono che cosa fosse per lui la vita e lui disse che è quello che ti capita. Io ero intenzionato a fare il musicista poi in Finlandia incontrai un pittore veneziano, uno di quelli che girano il mondo facendo l'artista, poi conobbi una ragazza ceramista che mi fece visitare l'Accademia di Belle Arti di Helsinki. A Firenze ebbi frequentazioni con tre pittori uno era il figlio di Gianni Vagnetti e gli altri erano due giovani pittori dell'Accademia che avevano vinto una borsa di studio, molto bravi tecnicamente e con loro iniziai a sperimentare il linguaggio della pittura e così, piano piano, mi accorsi che non avevo più voglia di studiare la chitarra. Io avevo scelto la musica ma la pittura ha scelto me.

 

 

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gennaio - febbraio 2015

 

 

 

 

 

 

 

La materia del colore

 

 

 

 

ovvero di cosa parliamo quando parliamo del colore

 

 

Galleria comunale – Monfalcone

 

 

 

 

 

La Galleria Comunale di Monfalcone ha visto esporre quattro artisti provenienti da diverse aree italiane: Michele De Luca che opera a Roma, Enrico Bertelli a Livorno, Manlio Onorato a Vicenza e Loris Agosto a Udine, però la protagonista è stata la pittura nel suo farsi (e nei molti rapporti con i diversificati linguaggi pittorici) e nella sua essenza fenomenologica (personalizzazione e individualizzazione del luogo della pittura).

Quattro tipologie d'intervento che si confrontano e che guardano a possibili sviluppi del linguaggio pittorico in un'azione centrifuga che ha per centro il colore e la luce ma aprendo, nel contempo, un dialogo tra diverse tematiche: Colore come trasparenza, Superficie come luogo della pittura, Pittura come nuova identità della superficie, Superficie come forma dipinta.

Queste tipologie linguistiche tendono a definire la temporalità delle azioni della pittura, partendo però dal presupposto che la pittura non può essere valutata semplicemente come un'esplicitazione di un'individuale percezione della realtà (la più semplice delle accezioni dell'astrattismo), bensì come la volontà di costruire un momento di ripensamento (e quindi razionale) anche individuale, sul rapporto spazio–tempo (poiché pittare è comunque un atto in divenire). Inoltre il loro procedere evidenzia una grammatica espressiva che se da un lato tende alla mera riflessione sulla pittura dall'altro – e ognuno seguendo le proprie inclinazioni espressive – apre a contaminazioni con altre specificità linguistico-creative.

La pittura di Manlio Onorato vive di un colore rarefatto, un etereo pastello in un ambiente ovattato, se non addirittura trasognato, caratterizzato da ampi spazi prospettici e da improvvise focalità cromatiche. Egli fa propria ogni ricerca sulla luce guardando anche al passato, ma nella consapevolezza che non concluderà il suo percorso, anzi la sua sarà ancora una sperimentazione. Lo sguardo è alle esperienze passate, alle espressività che maggiormente rendono evidente la lievità della luce e la sua immaterialità. Così si rivelano determinanti i punti di luce e le conseguenti pause, che fanno da contrappunto a un'idea di spazio etereo, quasi onirico, come intima visione che determina un'atmosfera (diurna o notturna), quella cui spetta dare consistenza percettiva alla luce.

Protagonista delle opere del romano Michele De Luca è la luce in uno stretto dialogo con la superficie e con la materia che la costituiscono: tela, legno o metallo. Il cominciamento invece è il segno; una scia luminosa cui viene dato un corpo, una profondità, spesso solo immaginabile poiché estendibile allo spazio percepito. C'è quindi una forma attorno la quale il colore crea delle illusorie spazialità, quasi elementi fluttuanti sulla superficie, che a loro volta si decantano sul piano cromatico priva di ogni intelaiatura o di una rigida costrizione. Le gradazioni luminose di De Luca vanno a definire i volumi delle forme, originando delle vibrazioni cromatiche su differenti spazi pittorici che sottolineano, anche diversificandolo, ogni intervento coloristico.

Esistono due momenti precisi che delineano la pittura di Enrico Bertelli: uno è l'atto pittorico in quanto tale e che si esplica in una pittura articolata, spesso caratterizzata da energici segni che articolano ampie zone cromatiche, sulle quali campeggiano scritte e simboli, speso accompagnate da elementi materici diversi. Il secondo si esplica nella chiusura a ogni successiva intromissione pittorica con l'inserimento di una superficie trasparente, una pellicola lucente, un filtro che trasforma il colore in un raggio di luce. La resina, pur non determinando altro cromatismo, si fa materia con la quale l'artista segna il limite ultimo dell'azione del dipingere nel completamento dell'opera, attraverso un percorso temporale nel quale azzera la casualità e consolida la pittura.

La pittura di Loris Agosto procede verso il consolidamento di un'idea estetica e, nello stesso tempo, muove alla ricerca di un equilibrio formale. Superficie e colore non sono direttamente controllabili, né l'una in quanto supporto né l'altra in quanto espressione cromatica. Da principio c'è la manipolazione del tessuto che andrà a costituire la superficie. Le complesse estroflessioni risultanti determinano un gioco illusorio di luce/ombra. E ancor più casuale è il manifestarsi del colore, steso con la tecnica del dripping in ampie quantità. I colori, seguendo le pieghe della tela, si uniscono, si fondono, si addensano, dialogano tra loro fino a creare casuali chiaroscuri alternando zone dai cromatismi vivaci ad altre di contenute profondità cariche di materia.

 

 

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Manlio Onorato

Loris Agosto

Enrico Bertelli

Michele De Luca