Bimensile di Informazione e critica d'arte

2012

 

Garbellotto, Marinotto, Onorato, Pope Gamba

 

 
 
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Aprile - Maggio 2012

 

 

 

manlio onorato

 

Al Modo Delle Stelle - (Nach Art Der Sterne)

Frankfurter Westend galerie - Frankfurt am Main

 

La mostra di Manlio Onorato "Al modo delle stelle" (Nach Art der Sterne) ha un titolo preso in prestito da Osservazioni sui colori di Ludwig Wittgenstein in cui il pensatore medita su come "sembra che esista un concetto di colore più fondamentale che non quello del colore di una superficie" che sarebbe proprio da rappresentare "o per mezzo di un piccolo elemento colorato del campo visivo o per mezzo di punti luminosi, al modo delle stelle".

E chi dunque meglio di un altro filosofo può trovare le parole per introdurci a una sincera lettura dell'opera dell'artista vicentino, come quelle di Dino Formaggio: "Onorato è venuto alla sua pittura senza imprevisti, ma solo per natura e percorso proprio, per spinta ispirativa di vita e di pensiero, in un personale cammino. Non passa, come Malevic, per Léger, per il Cubismo …." Poiché per Onorato il punto di partenza sarà sempre la pittura stessa".

Onorato è un profondo conoscitore della pittura e dell'arte (non a caso fu proprio lui, pochi mesi fa a ricordare in una celebrazione ufficiale il professore di Estetica); questo gli ha permesso di superare i possibili confronti con le esperienze pittoriche del passato (con la Pittura Analitica solo per citare un esempio) e di aprire un dialogo con le storia dell'arte, superando così quell'esercizio pittorico che, per la maggioranza degli artisti, porta all'identificazione con la propria opera.

Però sarebbe anche ingeneroso pensare alla pittura di Onorato come un fare esclusivamente razionale e riflessivo privo cioè di quella dimensione emotiva e affettiva che caratterizza la pittura astratta; anzi il suo lavoro vive in una dimensione sperimentale, nella quale l'atto del fare rappresenta il momento dell'esternazione delle proprie concezioni estetiche. Così, mediante una lenta maturazione, egli alterna azioni pittoriche a riflessioni sulla pittura, come per altro sottolinea Dino Marangon "le sue componenti essenziali, il colore, la luce, la superficie e le forme, e ancora i suoi materiali, i suoi strumenti, le sue modalità esecutive ed espressive, la sua compiuta autonomia, ma anche, non meno fondamentale, la sua storia”, sottolineando come “memore probabilmente degli insegnamenti di Mondrian sul superamento del tragico in pittura, Onorato  sembra cercare di proporre ai propri fruitori una agognata quiete e tranquillità, intessendo sempre nuove modulazioni e ritmi cromatici, come sottomessi però a un ordine che tuttavia non è mai tassativo né tanto meno costrittivo".

Egli viene quindi materializzando gradualmente una pittura il cui dinamismo ricerca e definisce originali equilibri cromatici anche mediante un colorismo sfuggevole e aleatorio, come instabili ci possono apparire, in un primo momento, i diversi punti luminosi. Le tenui velature trattengono la luce, la imbrigliano in un campo pittorico che trasforma i brevi barlumi di giallo in altrettante fonti di luce. Fonti perimetrate da impalpabili e morbide pennellate di un tenue azzurro, come a creare un'illusoria profondità, un punto dal quale possa giungere fino allo spettatore, l'idea di una lontana luminosità. Superfici caratterizzate da un lirismo pittorico carico delle declinazioni cromatiche del blu, del rosso e del giallo, con alternative modulazioni coloristiche come energici lampi luminosi che si stagliano sulla superficie. Tutto questo mentre l’infinitezza dello spazio – sebbene sia solamente uno spazio percettivo – permette alla pittura di parlare di sé, di proporre una lucentezza che gradualmente va mostrandosi agli occhi indagatori dell’osservatore.

 

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Aprile - Maggio 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

david marinotto

 

Galleria Liba – Pontedera

 

Potremmo certamente inserire le opere di David Marinotto all'interno in un percorso artistico tutto veneziano, in quella storia della scultura che origina negli anni quaranta fino ai giorni nostri. Ma non credo sia solamente il semplice succedersi come docenti presso l'Accademia di Belle Arti veneziana (da Arturo Martini, Alberto Viani, Franco Tramontin e ora Marinotto), ma piuttosto come una realtà presente di una ricerca iniziata nel secondo dopoguerra. Maestro primigenio di questo percorso fu certamente Viani, le cui opere esprimono una profonda attenzione alle qualità fisiche dei materiali e al dialogo di questi con la forma in un contesto in cui è andata maturando un'idea di astrazione che ha visto ridurre al minimo gli elementi rappresentativi della realtà. Le opere di Marinotto non possono essere estranee a quel processo di astrazione, soprattutto quando l'artista riconosce alla linea la facoltà di dare forma alla materia ma, nel contempo, ritiene che sia la materia a dare consistenza tridimensionale alla linea. Così ciò che appare fondamentale e decisivo nelle sculture dell'artista è lo stretto rapporto che intercorre tra la materia e la forma; conseguentemente, le sue figure possono essere incluse in un'idea di astrazione che propone una sintesi tra i volumi e la spazialità degli stessi. Così nell'evoluzione espressiva delle arti plastiche di Marinotto la materia (con le sue specifiche qualità) e la forma (con le sue variegate dimensioni) vivono in un costante rapporto dialettico estraneo a ogni rappresentazione che non sia la pura invenzione di forme.

Con questi presupposti lo scultore è andato via via privilegiando l’essenzialità e la plasticità delle forme, cercando in queste la morbidezza del pieno e la sinuosità delle linee; così come nel suo pensare lo spazio, non esclude la presenza del vuoto, non come assenza della materia, ma come un breve momento di pausa, o come forma priva di materia. Credo siano proprio questi i presupposti che hanno fatto esprimere a Eva Viani queste parole: «Penso a come la scultura coniughi l'atto concreto del fare, della mano che spacca la materia, la scava e la leviga, con l'altro dell'ideare forme cui dar corpo, costituito da consapevolezze, percorsi personali inimitabili, memorie di segni e progetto di altri del tutto inediti, fino a quando l'opera acquista la sua autonoma consistenza e, uscita dalle mani dell'artista, si avventura, sola, in un mondo e in una storia diversa - quella delle forme appunto - e tra queste si accampa e con queste dialoga».

Alcune delle opere esposte, pur continuando a esprimere un'evoluzione del rapporto tra materia e plasticità in chiave astratta, rinunciano, sebbene solo in parte, alle caratteristiche che hanno contraddistinto il lavoro passato; non sono più espressione del ritmo della figura e del contrappunto della linea. L'artista vuole invece far vivere la materia nella forma in un costante dialogo con uno spazio dalla duplice identità: di spazio chiuso e di spazio infinito.

Queste sue ultime creazioni tridimensionali stimolano una percezione diversa rispetto al suo recente passato; infatti, se le opere precedenti sono definite da alcune qualità sia strutturali che nella definizione della forma come la verticalità, la leggerezza e sinuosità delle linee, questi ultime produzioni risentono di un'impostazione formale che tende a rafforzare la struttura orizzontale e ad accentuare la presenza di uno spazio chiuso tra due forme in contrapposizione allo "spazio contenente" l'opera nella sua complessità.

Tra quelle massicce figure ci appare, diversamente, un'area vuota, come espressione dell'esistenza di uno spazio chiuso in contrapposizione a un altro spazio, quello infinto, quello cioè che oltrepassa, contenendole, le contenute forme plastiche. Una contrapposizione tra finito e infinito come una metafora tra il conoscere (che appartiene al singolo) e il sapere (che appartiene all'uomo). Marinotto disegna così i termini di un dialogo tra spazio chiuso e spazio assoluto, tra spazio contenuto e spazio contenente in un'ottica dialettico–formale tra i pieni e i vuoti.

La sfera isolatamente collocata tra le due forme si propone quindi come oggetto identificante le due identità tra loro in contrapposizione; se da un lato può essere intesa come simbolo dello spazio chiuso poiché tutto esiste in funzione della perfezione geometrica e della sua forma (poiché ogni punto della superficie è equidistante dal suo centro), dall'altro la sua stessa superficie, in quanto priva di un punto focale, riflette la luce nella sua totalità.

Forme dunque non come allegorie né come espressioni di una percezione naturale, ma forme che dialogano con lo spazio sia con quello reale della materia che con quello (e più consono a uno scultore) della percezione.

 

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Aprile - Maggio 2012

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

fernando garbellotto

 

 

Fractal Net singing – respirare l'ombra è come toccare un corpo.

Palazzo Crepadona - Belluno

 

 È nel cinquecentesco palazzo Crepadona che Garbellotto dialoga con la città di Belluno. Dialogare credo sia la parola esatta e per diverse ragioni; la prima è che la corte del palazzo – coperta da un progetto dell'architetto Botta – è stata scelta come il luogo nel quale l'artista ha voluto replicare i casuali rumori e suoni della città. Un'istallazione sonora all'interno di una scenografia formata da una serie di reti sistemate lungo tutto il perimetro; mentre nel mezzo un'altra rete, contenuta in una scatola di plexiglass, promette, tra le silenziose sue simili e tra "rumori cittadini", un momento d'interruzione e di ripensamento; come un transitorio attimo di riflessione tra la continua riproducibilità dei suoni e l'interrotto susseguirsi delle maglie dipinte. Una pausa in attesa di un'ulteriore azione, potenzialmente in divenire, semmai la rete si spiegasse in un prossimo futuro; ma al momento immobile in solitaria attesa.

Dialoga poi sulla facciata esterna del duomo sulla quale è stato proiettato il video Fractal Net Thinking, già presente al Padiglione Italia all'ultima Biennale di Venezia. Un imprevedibile intervento video–sonoro nella città attraverso il quale l'artista ha coinvolto i passanti con immagini e canti già elaborati in un contesto diverso dalla imprevedibilità dei rumori cittadini.

Un successivo dialogo avviene in situazioni di particolare problematicità aperte dalle sue reti in quella percezione di "essere contenuto" in uno spazio che, pur essendo limitato o comunque chiuso, lascia percepire l'esistenza di un luogo altro, che alberga oltre quell'orizzonte intuibile tra le maglie dei suoi lavori.

Nella pubblicazione che accompagna l'esposizione, diversi interventi introducono l'opera dell'artista veneto e forniscono essenziali elementi per la lettura e la comprensione del percorso della mostra. Si affrontano le particolarità ispirative quanto la progressione compositiva dei suoi lavori. Sono, infatti, esposte opere che vanno dal suo primo approccio con il linguaggio della pittura (1969) fino alle recentissime creazioni, passando per i calchi ottenuti attraverso l'imprimitura della materia di scarto del vetro, alle forme a volte sospese, geometricamente ricomposte o sequenzialmente replicanti.

Le opere più recenti si evolvono in tre fasi: pitturazione di una superficie, riduzione di questa in tante fettucce e costruzione di una rete. È un processo dialettico che si evolve partendo dalla distruzione della gestualità – come espressione di un primigenio atto pittorico casuale – la realizzazione di piccole strisce e la loro ricomposizione seguendo la regola euclidea della perpendicolarità delle linee–forma. Le sue reti, infatti, sono una sommatoria di tanti quadrati vuoti che compongono una superficie. (È forse questo un'altra metafora di un dialogo tra geometria euclidea e quella frattale?).

Pare azzardato un accostamento concettuale tra le reti di Garbellotto e le sequenze dei Broadway Boogie Woogie di Mondrian (non certo con la citazione guttusiana)? Non c'è nulla di più limitato del giro armonico del blues (il Boogie Woogie ne è una derivazione fortemente ritmata), solo tre accordi; come non c'è nessuna sequenza musicale così limitata che abbia ospitato tanta improvvisazione irrispettosa delle regole. Note lunghe, spezzate, arpeggiate, sincopate, tirate fino alla stonatura, distorsioni, effetti sonori in battere e in levare. Solamente il genio di Mondrian ci poteva regalare la sintesi geometrica (la perpendicolarità della linea) e la sintesi cromatica (i tre colori primari), nella consapevolezza che, come nella sequenza armonica del blues, ciò avrebbe originato il possibile della pittura. Similmente, l'opera di Garbellotto, attraverso la riduzione in tante strisce di tela di una precedente imprevedibile azione pittorica (e sconosciuta, dato che non ci è dato di vedere la tela dipinta prima del suo annullamento) e la conseguente ricostruzione tridimensionale, adatta allo spazio figure dialoganti fra loro in un'unione di "tracce dipinte" annodate perpendicolarmente tra loro. Così se da un lato Garbellotto dà origine a figure chiuse e rappresentative come le Flags, bandiere di diversi Stati, spesso arricchite di particolari elementi caratterizzanti la nazione che rappresentano, dall'altro alcune installazioni aprono a contenuti dialoganti con simbologie conosciute ma sempre problematiche.

Garbellotto, con l'installazione Who?, ci propone un Cristo ligneo del cinquecento contenuto in una delle sue reti. È certo un richiamo al sudario, come metafora della materia finita. Ma quella figura umana (che ha segnato la materia) è poi ascesa all'infinito, ha rinunciato a ogni consistenza terrena. Nell'istallazione di Garbellotto la rete diventa il momento del passaggio tra lo spazio chiuso dell'essere (il corpo) e l'infinito (dell'anima o dell'idea?); della presenza dell'essere materiale sono rimasti solamente delle tracce (come quelle della pittura) di una presenza.

La risposta, forse, la si può trovare nell'alto Who? (inginocchiatoio e rete) che sta accanto?

 

 

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Gennaio - Febbraio 2011

 

 

 

 

pope

 

Studio d'arte MATTEO
Portogruaro

 

Lo spazio STUDIO d'ARTE  MATTEO sede espositiva della casa editrice MATTEO, a Portogruaro ha presentato l'artista Pope. È stata l'occasione per presentare il video-intervista da poco realizzato per conto della Regione Veneto.

E sono quindi le parole del pittore a farci entrare nel vivo della sua pittura le cui origini artistiche si possono individuare nelle esperienze degli anni settanta, quando molti giovani allora proponevano una pittura razionale, riflessiva, dove il risultato pittorico non poteva essere stabilito a priori, ma inteso come il risultato di un processo creativo dipendente dal linguaggio utilizzato. Come del resto il risultato non poteva essere considerato né come assoluto tantomeno definitivo, ma un procedere artistico riconoscibile temporaneamente ma posto in relazione al solo risultato del fare, per cui il ogni opera non si poteva mai considerare una conseguenza di una tradizione artistica ma quell'unico momento sempre in evoluzione della creatività individuale.

Le esperienze pittoriche di quegli anni venivano, conseguentemente, denominate con terminologie diverse: da pittura pittura a nuova pittura, da pittura analitica a pura pittura. Il rapporto con questo movimento (che definirei piuttosto un'esperienza multipla di singoli artisti che di volta in volta venivano invitati a rassegne, nelle quali il critico di turno ne esplicava l'aspetto estetico e forniva indicazioni per una lettura individuale) è stato, per ogni arista, diverso e personale, comunque non pensato in modo aprioristico, ma come conseguenza di una forma individuale di creatività pittorica e di accettazione di una sintassi espressiva efficace. Potremmo condividere, seppur nella sua generalizzazione, la definizione di Celant usata nel 1967 quando parlando di alcuni artisti americani, fra i quali Martin e Ryman, scrisse di una "pittura che da sistematica si fa analitica". Una pittura che muove da un linguaggio sistematico, come forma di espressione, per trasformarsi in un linguaggio in grado di guardare a se stesso, di ripensare la pittura come una forma linguistica valida non per ciò che può raccontare o descrivere, ma per la sua potenzialità espressiva autonoma. 

Pope, alcuni anni prima di venire direttamente a contatto con queste esperienze, proponeva una pittura che potremmo definire (ma solo per utilità del lettore) programmata o geometrica. Ora, guardando al suo percorso artistico, ritornano alla luce le esperienze degli anni settanta, sia in ambito metodologico, che, più squisitamente, in quello operativo. Un'identità che si identifica sia nella continuità della ricerca, che in quella leggera distinzione che differenzia la cosiddetta pittura analitica dalla più generica Nuova Pittura.

E questo naturalmente per diverse caratterizzazioni del suo fare pittura.

È vero che la definizione data alla nuova forma pittorica da Menna nella sua ormai celebre pubblicazione La linea analitica dell'arte moderna, ha messo in evidenza le componenti del fare pittura, come il telaio, la tela, il colore, la materia, ecc., ma viene proposta anche una determinante riflessione sul fare, sul procedere materialmente, sulla pratica, creando così una sorta di esercizio della pittura che palesa sia il processo del fare materialmente pittura che quello dell'analisi delle componenti che caratterizzano la pittura in quanto tale, tanto che nelle recenti opere si possano ancora individuare le radici di quell'importante esperienza vissuta a contatto con i più significativi artisti di quel periodo. Si potrebbe parlare del processo creativo seriale (l'esercizio della pittura di cui si diceva), poiché non esiste, nel pittore, la convinzione dell'esistenza di una pittura intesa coma unica, ma di una pittura complessiva e costantemente in evoluzione; come il formato, che, per Pope, rimane all'interno della geometria del quadrato (non è un caso che alcuni titoli citino Malevich).

O ancora si potrebbe riflettere sulla linea, che Pope non traccia sulla superficie, ma che è comunque sempre presente nella composizione dei multipli. E sono proprio i multipli che caratterizzano non solo la composizione in quanto tale, ma definiscono lo stretto rapporto esistente tra la pittura e lo spazio. Ad accostare il lavoro di Pope alla pittura analitica concorre anche la concezione che l'artista ha della materia, che egli intende come la sommatoria e la registrazione del fare. La materia come testimonianza della pratica pittorica, materia come identità della superficie che gradualmente è andata formandosi; anche le dimensioni delle opere – almeno quelle più significative – vivono in un rapporto di uno a uno in tal modo lo spettatore è nelle condizioni di scoprire se stesso proprio nel momento della percezione dell'opera stessa.

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Gennaio - Febbraio 2011

 

 

 

 

Alessandro Gamba

 

Galleria La Bottega

Gorizia

 

 

"Gamba lavora su una codificazione fluida di segni, direi quasi privi di materia pittorica, o quantomeno di rilevanza materica: operando da una quindicina di anni in regime fondamentalmente di monocromia." Con questo primo assunto Enrico Crispolti ha presentato le pitture di Alessandro Gamba rendendo evidente il primato del colore rispetto alla materia o ad altri elementi linguistici che caratterizzano la grammatica della pittura astratta. E ci diventa naturale immaginarci l'artista toscano come un attento osservatore di quella pittura della seconda metà del secolo scorso quando artisti come Mark Rothko riempivano ampie superficie con dei monocromi che lasciavano solamente ad alcune lievi, quanto impercettibili, trasparenze il compito di definire un cromatismo lirico dalle minime variazioni coloristiche. O come non intravvedere nella creatività di Gamba riferimenti alle composizioni pittoriche di Osvaldo Licini, nelle cui opere il colore vibrante crea quell'atmosfera quasi irreale delle sue Amalasunte o le stesse linee che quella superficie dividono con imprecisi segni il campo pittorico, come a definire illusorie quinte da cui escono fantastiche figure.

Le opere che l'artista ci offre presso la galleria la Bottega di Gorizia, non ci permettono di guardare a una pittura esclusivamente incentrata sul colore. Dobbiamo ancora citare Crispolti per spostare la nostra lettura verso l'aspetto più umano e più romantico dell'artista, verso ciò che lo distingue dalle esperienze del passato e che lo rende unico nel suo essere pittore e nel suo rapportarsi con il linguaggio della pittura. "La codificazione per Gamba risulta chiaramente di parametro psicologico, proprio in ragione della capacità del segno di simbolizzare stati di memoria forse più o almeno prima collettiva che individuale del segno che si costituisce per movenze d’analogia immaginativa, non senza un'originaria ascendenza in codificazioni povere d'una cultura agraria, di memoria antropologica".

Gli elementi linguistici cui Gamba attinge per comporre la sua pittura sono essenzialmente il colore e il segno. Un segno che assume ben due definizioni ed entrambe ricoprono un ruolo complementare l'una verso l'altra; infatti, da un lato verifichiamo la presenza di un segno che si manifesta come una linea che attraversa il campo pittorico per dividerlo, dando così all'opera stessa un equilibrio formale; mentre all'interno dei suoi perimetri appare un secondo segno, quello della pittura che riempie il piano pittorico. Gamba realizza così, attraverso un susseguirsi di fitte pennellate, una campitura quasi monocroma, nella quale si susseguono, senza un ordine programmato, velature e sovrapposizioni cromatiche. Egli viene così a creare una nuova forma che si colloca all'interno di un positivo dialogo tra la linea e la superficie. Una pittura a volte pensata a volte spontanea con lo scopo di suscitare una particolare attenzione al colore e alla dinamicità delle gradazioni cromatiche che diversamente si manifestano negli spazi precedentemente elaborati sulla superficie. Una pittura attenta alla linea come alla superficie e in questa dinamica - estesa allo stretto rapporto tra l'essere e il suo contrario, tra il visibile della forma e l'invisibile del dipingere – Gamba realizza una pittura che rimanda a se stessa, ma anche alle contrapposizioni tra l’atto del fare pittura, perché segue l’indole dell’uomo-artista, e quello più razionale del costruire o inventare una forma.

Questo procedere, se confrontato con le opere giovanili, tende alla riduzione degli elementi linguistici e alla limitazione delle strutture formali che compongono il piano pittorico. Gli effetti sono essenzialmente quelli di evitare che si compongano piani prospettici o che l'immagine posa assumere una collocazione nello spazio. La rigorosità del piano bidimensionale in Gamba è l'elemento strutturale che condiziona ogni sua composizione. Una rigidità che viene meno nell'esternare alla pittura, al gesto del pittare, dello stendere il colore con una serie ininterrotta di gesti che danno spessore e corpo alla superficie. Le continue e incostanti pennellate creano attorno all'opera quella liricità necessaria e che "… dimostrano con tutta evidenza il precisarsi e il consolidarsi di una intenzione di ordine strutturale, autoriflessiva, nuovamente analitica" (Menna).

Così Gamba da un lato esprime la capacità di riflettere sull’arte e dall’altro sono ben percepibili la spontaneità e la naturalezza che accompagnano la sua pittura. L'artista è, come un musicista o un poeta, un compositore e come tale fa del linguaggio dell'arte il linguaggio del proprio essere, lo strumento per esternare le proprie emozioni e le proprie percezioni. È, in sintesi, il proprio modo di esistere nel complesso e articolato mondo dell’arte. Questo servirsi del linguaggio della pittura evidenzia un’altra faccia di sé, quella che vive della conoscenza e del vissuto, quella cioè che gli permette un dialogo dialettico e continuo con le esperienze di altri artisti suoi contemporanei, e con quelli del passato di terra toscana.

 

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