Trimestrale di informazione e critica d'arte

 

2018

 

G. Casanova; D. Hockney; L. Giacobbe, Sembra un quadro, sembra una fotografia;

 

 

LIBA: 20 anni; O. Pinarello; Sidereus Nuncius; A. Jones

 

 

 
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Sembra un quadro, sembra una fotografia

 

 

 

 

Galleria Sagittaria Pordenone


Centro Culturale Casa A. Zanussi

 

 

 

Interessante nella duplice accezione del termine, bella e stimolante, la mostra che si è appena chiusa alla Galleria Sagittaria di Pordenone

Sembra un quadro, sembra una fotografia, nata da un’idea di Guido Cecere (con testi in catalogo dello stesso Cecere, già docente di fotografia e design all'ABA di Venezia e di Angelo Bertani) e che origina da una riflessione origliata a un'esposizione: «Quante volte un fotografo, vicino a una sua opera, esposta magari in una mostra, ha sentito esclamare “che bella foto... sembra un quadro!”, da un visitatore che aveva l’intenzione di fare un complimento all’autore? Molte, troppe volte! E quante volte un pittore realista o iperrealista, ha sentito esclamare da un estimatore estasiato “ma guarda che lavoro incredibile, sembra una foto!” (Cecere).»

Già nelle domande dei visitatori si trova la risposta e pure la chiave di lettura della mostra stessa, che intende evidenziare alcuni momenti di dialogo tra i due stili espressivi. Un dialogo consolidato già dalle provocazioni delle Avanguardie Storiche, nel tentativo di delegittimare un'idea tradizionale di storia dell'arte e per sconvolgere le assodate, quanto "passatiste", concezioni estetiche fino ad allora condivise. Potremmo citare L.H.O.O.Q.  (la Gioconda coi baffi di Duchamps) che porta con sé la duplice identità: essere una riproduzione (da fotografia) della Gioconda di Leonardo e, nel contempo, superficie pittorica sulla quale l'artista ha disegnato i baffi.

La mostra, allestita con un chiaro intento esplicativo, inizia con l'esposizione di alcune fotografie di fine ottocento; immediatamente opere che testimoniano la prima collaborazione tra le due discipline artistiche: il colorismo, la piacevolezza dell'immagine fotografica arricchita da una luce cromatica. Ne seguono altre che gradualmente vanno a sancire un'autonomia concettuale della fotografia.

Forse un'attenzione più analitica all'iperrealismo avrebbe offerto uno stimolo ulteriore, poiché l'idea di un "reale assoluto" in pittura si è reso possibile solo nella fedele riproduzione di una fotografia; per la pittura questo è il solo modo per fermare il tempo e la mutazione tonale della luce.

La mostra segue con opere che affrontano la contaminazione, fotografie che si ispirano alla pittura e altre pitture che si rifanno alla fotografia. Una campionatura di qualità (e i saggi in catalogo ne ampliano la sfera di riflessione e di interpretazione) che ripercorre l'intreccio tra la realtà raccolta dalla fotografia e l'immaginazione della pittura. Un dialogo dunque che non guarda esclusivamente al relativo ruolo artistico, ma anche a una comune interpretazione dei contenuti contaminandone spesso i generi. Non trascurabili, per eleganza e per effetto percettivo, le foto che si ispirano alle "nature morte" (personalmente la fotografia di Frullani) o le pitture che riproducono immagini similmente al realismo fotografico (Aita ne è un esempio), oppure la sola fotografia in quanto tale stampata da Giacomelli.

Il tema della mostra apre all'universo dei linguaggi dell'arte, poiché "L'arte è la capacità di creare immagini, creando contemporaneamente una loro regolarità oggettiva." (W. Von Humboldt).

L'autonomia artistica della fotografia è comprovata da più di un secolo; un'arte decisamente diversa – a volte distante – da quella pittorica. Inscindibile è il legame della fotografia con la realtà o con l'oggetto ripreso, comunque appartenente al mondo fisico in quanto reale; e ciò nonostante le possibili elaborazioni che spesso ci riportano alla stanca domanda: può la realtà confrontarsi dialetticamente con la fantasia?

Reale è l'espressione della bellissima modella dell'opera di Vaccari; suo, personale e inscindibile è il sorriso, reso ancor più materiale perché racchiuso nella temporalità del fumare.

Immaginario, ma certamente non memo vero (perché, in possibilità, sta vagheggiato in ogni essere umano), è il sorriso beffardo che anima alcuni ritratti di Antonello da Messina.

Artisti lo sono, e il pittore e il fotografo, perché entrambi, come ci ricorda Wittgenstein, costruiscono l'arte "insegnando a vedere in un modo anziché in un altro".

 

 

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Vaccari, 19773

Andy Wharol

     
 

 

 

 

 

 

 

 

Luca Giacobbe

 

 

 

La pittura di Luca Giacobbe è una pittura veloce. È l'immediatezza – quella che appartiene al gesto, al segno, alla materia – che guida l'artista nella scelta del colore, che anticipa la forma con un movimento rapido, spigliato, sicuro e deciso e che propone, in una visione unitaria, la composizione della superficie.

Ciò chiaramente induce lo spettatore a pensare che la forma, che Giacobbe definisce sulla superficie, sia il risultato di una progettazione personale, il frutto di un processo creativo che si affina attraverso il ragionamento, come un lento processo di programmazione in itinere; una riflessione interiore che prima si stampa sulla mente e poi, quando si satura e idealmente prende forma, si realizza nell'azione istantanea della pittura. Questa è certo l'impressione che abbiamo poiché la pittura che ci offre l'artista ci appare come la sintesi di un percorso suggeritoci dall'unicità della forma e dalla specificità dell'opera: tutto ciò nell'immediata e breve temporalità della sua esecuzione. Infatti, nelle opere di Giacobbe, non individuiamo, come spesso accade per molti artisti astratti, un'operazione pittorica come risultato di un processo esecutivo, quasi seriale, in cui si elabora la forma, il colore, la materia, verificando l'efficacia di un proprio linguaggio espressivo; non si affida all'esercizio della pittura, a quell'azione cioè di sperimentazione, quasi sequenziale, alla ricerca dell'ultimo segno di un equilibrio formale o ancora dell'effetto del tratto cromatico.

La pittura di Giacobbe è dunque diversa da un processo creativo di quel tipo, è anche originale nel suo essere, ed è pure una pittura colta. Qualità che fà dell'artista un "intellettuale" e non solo per la sua attenzione per la storia dell'arte, cui guarda con curiosità al suo divenire storico con particolare riferimento all'uso dei colori o al senso della pennellata, ma anche per la sperimentazione degli effetti cromatici e dell'utilizzo delle vibrazioni della materia e della luce.

Sono sottese, nelle sue dinamiche superfici, i percorsi e le esperienze espressivo–astratte che si sono alternante negli ultimi decenni del secolo scorso, in particolare verso quelle dell'astrattismo del secondo dopoguerra (generalmente l'informale in tutte le sue manifestazioni)

La sua pittura è però una pittura originale e non di sintesi, non individuiamo, nelle sue opere, alcun riferimento ad un maestro o ancora a cicli espressivi, benché a volte quelle geometrie irrazionali che ci offre possano rimandare, senza mai appropriarsi di alcun ché, a momenti della storia della pittura; e nonostante la sua costante attenzione per la Pittura Analitica e l'amicizia con alcuni dei protagonisti di quel ciclo,  Giacobbe non ne è mai stato un seguace. Di quell'esperienza ha di certo condiviso alcune riflessioni sul fare pittura, più spesso ha dato per scontate, se non già per acquisite, le problematiche relative a una pittura particolarmente meditativa, sia sotto l'aspetto procedurale del fare che in quello intellettuale del pensare.

È da questo diretto rapporto con i protagonisti e da un'attiva partecipazione alle mostre sulla pittura "non di genere" che si forma l'artista fiorentino; sono le sue sperimentazioni personali, le manifestazioni artistiche, molteplici, articolate e dialettiche, a non identificarlo in alcuna delle variegate realtà pittoriche d'inizio secolo.

Giacobbe dipinge quasi nella solitudine della sua ricerca, consapevole però di servirsi degli elementi linguistici della pittura astratta, certo che la loro alternanza definisce i suoi percorsi, i suoi periodi. Ciò è avvertibile essenzialmente nei diversi cromatismi che alterna nei suoi cicli pittorici. Ci sono i tempi del giallo, del rosso, del verde, dell'arancione, del rosa, dell'azzurro, dei celesti, delle combinazioni di questi con il giallo o il rosso; poi quelli neri scuri su cui campeggiano tratti chiari come a segnare delle spazialità infinite (la forza del nero). Altre volte è il tempo delle forme piatte assolutamente bidimensionali e limitate nello spazio. C'è quindi questa alternanza tra forme delineate e ben definite con altre che sono l'espressione della gestualità, stimolata da uno stato d'animo saturo, pronto a manifestarsi con irruenza e con sicurezza: una realtà interiore che improvvisamente si manifesta, si realizza e si consuma in un attimo, attraverso il gesto e la materia del colore; non dunque la sintesi di una programmazione personale o il mero risultato di un progetto che si insinua nella creatività dell'artista.

Per Giacobbe il gesto è portatore di interiorità e di meditazione intima e riservata, che trova nell'immediatezza del segno e del gesto la sua esternazione. Un'azione estetica che si è resa evidente alla mostra presso la galleria Scoglio di Quarto a Milano, dove ha presentato, qualche tempo fa, un carnet con una serie di opere il cui unico protagonista è il segno. Piccole carte dove l'artista ha sperimentato il segno puro, al di fuori di alterazioni cromatiche o di velature dagli effetti percettivi incontrollabili, quasi degli haiku del segno. Sono la fenomenologia di un segno sintetico, intimo e libero, un diario nel quale tracciare ogni giorno la direzione del proprio pensiero e dell'interiore emotività: una traccia quotidiana della propria identità di pittore.

 

 

 

 

 

 

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Croce barbara, 2016
olio e pastello su carta incollata su tela
cm 40x40

Pietracupa, 2017
olio e pastello su carta incollata su tela
cm 120x110

Fuori piazza, 2016
olio e materiali vari su juta
cm 50x40

 

 

 

 

Profili: la realtà dell'immaginazione

 

 

Galleria Nuovospazio, Udine

 

Galleria La Bottega, Gorizia

 

 

"Tramite l'immagine fotografica voglio rappresentare ciò che non si vede ma si avverte all'interno dell'anima, mentre i profili pittorici, che la contengono o la osservano, possono rappresentare la realtà esteriore" Con queste parole Ottavio Pinarello introduce il suo lavoro, proponendoci diverse considerazioni. Per prima l'idea di profilo che, in senso generico, si intende quella linea estrema di contorno di un oggetto. L'artista non si limita però alla semplice rappresentazione del profilo umano, ma ne enfatizza l'aspetto metaforico e simbolico, concettualizzandolo per guardare interiormente alla realtà, non certo con lo spirito della riproduzione dell'immagine ma con quello dell'interiorità, della sensazione, dell'intima percezione. Un concetto che ci pare ben esternato attraverso il titolo (che fa parte integrante della mostra) dove il termine realtà si pone in contradditorio a quello che lo segue: immaginazione. Se poi si tratta di fotografia, ci sembra ancor più difficile che i due momenti possano identificarsi, poiché è luogo comune (sebbene sfatato nella sua incertezza) che la fotografia sia la rappresentazione oggettiva della realtà e che poco lasci all'immaginazione.

Però realtà e immaginazione possono dialogare.

Pinarello, infatti, inverte i rapporti formali, ponendo in primo piano l'oggetto estraniandolo dalla sua realtà, dal suo stato di esistenza, per porlo sul piano della percezione, a volte comune con lo spettatore altre più intimo. Profilo dunque come interpretazione del sé, come essenza di una percezione della particolarità della vita; profilo senza identità ma come figura che appartiene al mondo finito. Lo stesso mondo che Pinarello, relega nel vuoto, nel buio dello sfondo, nell'assenza totale di luce dove ogni fotografia si rende impossibile; ma ciò non appare impossibile al linguaggio della pittura cui è concessa ogni immaginazione.

 La presenza del taglio di luce tende a evidenziare il particolare, quasi estrapolato da una buia quinta. Allo spettatore la figura appare quasi improvvisamente, come catturata da un fascio luminoso apparentemente statico o alternativamente originato da altre fonti. Un movimento teso a individuare la presenza di una forma antopomorfa. È dunque questa l'azione che guida l'artista nel suo lavoro, la ricerca della realtà come percettiva sensazione dell'essere e del suo manifestarsi come forma.

 E lo si avverte nella figura del profilo, che non lascia dubbi sul suo significato, ma che, contemporaneamente alla sua generalizzazione, riesce a trasformarsi in concetto a farsi idea. Pinarello non limita dunque il suo operare attraverso l'immagine fotografica ma la elabora con l'intervento attivo della pittura, con la quale nasconde, nel monocromo nero, l'altra realtà, quella che fa da contorno al soggetto raffigurato. Si crea così quel gioco tra apparire e scomparire, tra essere e non essere, tra stare alla luce o eclissarsi nel vuoto: il buio rende enigmatica ogni lettura.

C'è dunque necessità che le immagini assumano un'identità, che si materializzino, che siano condivise con lo spettatore e diventino concetto; che il frutto dell'immaginazione dell'artista diventi materia. Così come il profilo visibile è reale, la realtà e il contesto che li circonda sono volutamente negati alla percezione collettiva attraverso la cancellazione pittorica: l'assenza di luce nasconde ogni materialità percettiva. Non esistono più né spazio né tempo, come viene nascosta ogni storia che ricostruisce le immagini; rimane solo il loro essere come puro atto fenomenologico.

Non si può dunque parlare di un effetto della fantasia, poiché la fotografia, anzi la macchina fotografica proprio per il suo essere rappresentazione della realtà, diventa il testimone dell'essere, mentre l'infinito, il nascosto, l'immaginabile, l'assenza sono ciò che appartiene all'intimo dell'artista, al suo essere parte di un mondo all'interno del quale la realtà e l'immaginabile convivono, e dove si alternano e si manifestano prima nella sospensione dell'essere e poi nel venir riconosciuti e resi nuovamente reali.

 

 

 

 

 

 

 

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Crepe. 2008
60x80 cm
Scatto fotografico dell’autore impresso su tela, con successivo
intervento pittorico

 

Pioggia in nero
cm 70 x 100
Scatto fotografico dell’autore impresso
su tela, con successivo intervento pittorico

Gillo Dorfles, Ottavio Pinarello, Paolo Barozzi,
2011, Spazio Krizia, Milano.

 

 

 

 

 

 

Sidereus Nuncius

  

Venezia

 

Palazzo autorità portuale - sede italiana della

 

Biobridge Foundation

GALILEO (asciugandosi) «… Per duemil'anni l'umanità ha creduto che il sole e tutte le costellazioni celesti le girassero attorno. Papa, cardinali, principi, scienziati, condottieri, mercanti, pescivendole e scolaretti: tutti erano convinti di starsene immobili dentro questa calotta di cristallo. Ma ora ne stiamo uscendo fuori, Andrea: e ci attende un grande viaggio: perché l'evo antico è finito e siamo nella nuova era. Da cent'anni è come se l'umanità si stia aspettando qualche cosa. Le città sono piccole, le teste altrettanto: piene di superstizioni e di pestilenze. Ma ora noi diciamo: visto che così è, così non deve rimanere. Perché ogni cosa si muove, amico mio.»

Sono parole tratte da Vita di Galileo di Bertold Brecht, è l'annuncio della nuova scoperta, l'apparire, anche non così improvvisamente, di un nuovo modo di guardare all'infinito. L'universo è stato rivoltato, liberato e ordinato nell'incommensurabile spazio del cosmo. Non più l'uomo al centro dell'universo ma, come in realtà, posto in una parte mobile dello spazio siderale; non più l'uomo come essere privilegiato da Dio ma un uomo con la sua conoscenza e la sua sapienza a interpretare e misurare il sistema solare.

Dopo Galilei si apre il nuovo libro dell'universo, completamente nuovo e da leggere con le parole degli uomini mortali.

A commentare questa grande rivoluzione si sono cimentati gli artisti Kimiko Yoshida, Paolo Frascati e David Marinotto, interpretando il passaggio da un universo infinito, sacro e immobile creato da un essere sovrannaturale, a uno finito, misurabile, sempre in movimento e soggetto alla corruttibilità e alla finitezza terrena.

Presso l'edificio 11 dell'Autorità Portuale di Venezia, sede della italiana Biobridge Foundation, si è inaugurata Siderius Nuncius, una mostra che, citando il famoso libro di Galilei, intende far dialogare gli artisti sulla grande rivoluzione Copernicana.

«L'arte non acconsente alla realtà delle cose così come sono» scrive Kimiko Yoshida, giapponese e autrice delle opere pittorico/fotografiche esposte in questa mostra. I suoi lavori, prevalentemente autoritratti, aventi quasi sempre lo stesso soggetto, la stessa inquadratura, la stessa luce, lo stesso principio cromatico, lo stesso formato quadrato, ci appaiono come la metafora di un grande e ripetuto sguardo sospeso (come per altro sono allestite in mostra) e, proprio per la loro apparente ripetitività, rappresentano l'oggetto della loro attenzione: l'infinito. Un'astrazione che, nella sua sequenzialità, induce all'idea di spazio interminabile; le opere di Kimiko si ripetono simili a sé stesse ma mai uguali; opere che inseguono il limite di un universo che si abbandona finalmente al mondo delle idee e dei pensieri.

Gli occhi di Kimiko, replicati nei leggeri eterei autoritratti, intravvedono il sistema solare che lo scultore Paolo Frascati ripropone nella sua installazione. Una grande spirale realizzata con variegate e informi figure tridimensionali in ceramica. Ogni elemento simboleggia un pianeta, una stella, una costellazione. In questa materializzazione dall'infinito a finito, dal pensiero all'uomo avviene lo scambio tra il "vedere" delle opere di Kimico a essere materia, forma, quotidianità. Frascati riproduce la sezione aurea, una spirale che può essere centripeta, quando tutto porta al centro, alla ragione galileiana, al pensiero che dimostra la validità matematica del sistema Copernicano; e centrifuga quando dalla ragione dell'uomo si apre il desiderio di conoscere e di raggiungere l'infinito attraverso il pensiero; dalla materia dura della terra, lo yin, alla materia leggera del cielo, lo yang. A far da contorno figure antropomorfe modellate con tratti decisi forti come a dar identità a muti spettatori immobili e disposti a dialogare con le figure proposte da David Marinotto in un'altra installazione. Rosse figure, prive di proporzione, erette, apparentemente vaganti. Silenziose forme che paiono aggirarsi in quell'antico mondo tolemaico, spaesate al richiamo del nuovo ordine siderale. Figure con addosso una fera, simbolo della perfezione, della regolarità assoluta: il luogo dei punti dello spazio che hanno tutti ugual distanza da un punto fisso, detto centro, ci dice la geometria Il fascino di un nuovo universo che si scontra con la sferica calotta di un mondo superato. Sfera dunque come passato e come futuro, sfera sulla cui superficie ogni riflesso della luce si spande in tutte le direzioni come a seguire quel tao che dal finito porta all'infinito.

A far da cornice a questa mostra un'importante raccolta di opere in giada di Antoine Turzi. Una collezione che, nella diversità della giada, ricorda la civiltà cinese, un altro mondo la cui concezione dell'universo non si scostava poi tanto da quella teorizzata da Elemento coagulante di questa collezione che ripercorre, attraverso sculture o scritture su giada la storia della Cina dalle sue origini ad oggi, proponendosi come un testimone muto di un percorso di formazione e elemento di dialogo tra la cultura orientale e quella occidentale

 

 

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kimiko yoshida
japanese brides

 

Davide Marinotto

 

 

 

Paolo Frascati
Universo, 2018

 

 

 

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David Hockney

 

 

 

 

82 ritratti e 1 natura morta

 

 

Venezia – Ca' Pesaro

 

 

 

«Mio padre, impiegato, mi portava al museo a Bradford, dove sono nato, nello Yorkshire. Anche se non c’era granché, solo pittori vittoriani. Ricordo la riproduzione di una strada dipinta da Cézanne appesa nella casa accanto alla nostra: per me era la cosa più bella vista da piccolo. Ma la vera scoperta è stata a Leeds, dove ho incontrato da vicino l’arte italiana, i francesi, Bonnard. Ho sempre voluto fare l’artista: a 7 anni lo sapevo già. A 16 ero alla Bradford School of Art e a 18 sono andato a Londra».

Molti anni dopo, nel 1991, diviene membro della Royal Academy.

Hockney è uno degli artisti britannici più conosciuti al mondo, simbolo indiscusso della PopArt inglese, le cui esposizioni a Londra, Parigi, New York – come la recente mostra veneziana – attraggono sempre un numero altissimo di visitatori.

L'artista espone, a Ca' Pesaro, 82 ritratti e una natura morta con la curatela di Edith Devaney, (Curator of Contemporary Projects della Royal Academy of Arts di Londra). Nelle sale del nobile palazzo veneziano non troviamo ritratti di personaggi conosciuti o facilmente identificabili, come vorrebbe la tradizione della PopArt, bene espressa da Warhol; non la riproduzione seriale su ampie campiture dei volti di Mao, Marilyn Monroe, o ancora di Jacqueline Kennedy/Onassis, di Michael Jackson, Cassius Clay e quant'altri. Hockney ritrae le persone del suo quartiere, la gente comune che delimita la quotidiana realtà dell'artista e, accanto a questi, alcuni suoi interlocutori del mondo dell'arte. L'artista viene offrendo così una visione quasi autobiografica della sua vita a Los Angeles e riporta sulla tela le sue relazioni con il mondo artistico internazionale, con galleristi, critici, curatori, volti più o meno conosciuti dagli occasionali spettatori. Eccoli in posa: John Baldessari, Larry Gagosian e Stephanie Barron.

La peculiarità di queste opere sono le medesime condizioni temporali, con le quali va a realizzare il ritratto: tre giorni, o come dice l’artista «venti ore di esposizione», durante i quali ogni soggetto si accomoda su una sedia, collocata su una pedana, con alle spalle il medesimo sfondo neutro. Anche il formato è uguale per tutti: centimetri 121,9 x 91,4.

Le figure definiscono così un campionario sull'espressività dei personaggi, accentuati nella composizione statica, quasi in una curiosa attesa, prossime a un dialogo non solo con lo spettatore, ma anche con il passato artistico dell'autore. Le pitture di Hockney si possono accostare alla ritrattistica fotografica (quasi un'interpretazione concettuale del tempo: venti ore di esposizione similmente proporzionato al tempo di apertura del diaframma della macchina fotografica).

A contribuire alla vitalità dell'opera i colori solari e contrastati e man mano accentuati, a rendere quasi visionaria un'atmosfera domestica o paesaggistica a tratti singolare, protagonisti di un distacco, quasi meccanico, dal quale si possono estrapolare sentimenti ed emozioni, ma sempre in assenza di un luogo specifico o di un'identità geografica. I protagonisti fanno così rivivere la dimensione della quotidianità dalla quale traspare un diretto rapporto con gli stessi raffigurati, ma al difuori di un luogo ben definito o identificabile. In qualsiasi luogo dunque.

Attraverso le tonalità cromatiche e l'intensità della luce, i suoi ritratti sembrano quasi un'appendice alle sue opere precedenti, o pronti per trasformarsi in spettatori contemplativi dei suoi paesaggi. Ce li possiamo immaginare seduti ai bordi della silenziosa e solitaria piscina; come a creare, a posteriori, un'atmosfera interiore che non è stata presente in molte pitture del suo passato. Abbiamo in mente le sue raffigurazioni di spazi interni vuoti, o esterni in cui dell'uomo è rimasta solo la traccia, come lo spruzzo del tuffatore nel celeberrimo A Bigger Splash. Schiuma e acqua, testimoni muti di un passaggio da una realtà a un'altra, questa solo pensata o vagheggiata.

L'immaginario vuoto degli spazi è l'interprete nelle opere di un tempo, e quel vuoto ben dialoga con la staticità dei suoi attuali protagonisti. Entrambi si manifestano come negazione del rapporto spazio tempo; una realtà in cui la mutevolezza della luce (quella che con il suo ruotare nello spazio segna il passare del tempo) non sembra svolgere il suo compito. Ecco formarsi l'idea di un tempo ideale, pensato prima nell'immobilità della luce, poi nella staticità dei personaggi. Quasi dei non–luoghi, dove spesso si viene catapultati con quell'ossessione della solitudine, e nel contempo desiderare di diventare spettatori in attesa di un qualche evento. Luoghi nei quali la figura umana, se presente, appare spaesata come proveniente da un altro tempo, da un'altra dimensione, e quindi estranea al mondo che li circonda. E ce lo dice la posizione dei suoi protagonisti che ci appaiono quasi privi di quell'energia che contraddistingue la curiosità dell'uomo nel rendersi consapevole del suo essere parte del tempo vivo e reale, similmente alle "figure nuotanti" che paiono trasformarsi, proprio per la loro compostezza e ieraticità, in ombre antropomorfe insensibili all'idea di movimento che tanto ha ammaliato i protagonisti delle avanguardie storiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Barry Humphries, 25, 27 e 28 Marzo 2015

Acrilico su tela 121,9 x 91,4 cm

© David Hockney Photo credit: Richard Schmidt

Dagny Corcoran, 15, 16 e 17 Gennaio 2014

Acrilico su tela 121,9 x 91,4 cm

© David Hockney Photo credit: Richard Schmidt

Jacob Rothschild, 5 e 6 Febbraio 2014

Acrilico su tela 121,9 x 91,4 cm

© David Hockney Photo credit: Richard Schmidt

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LIBA: 20 ANNI

 

 

Villa Crastan - Pontedera (PI)

 

La mostra 1997-2017 allestita dalla Galleria LIBA presso Villa Crastan – Pontedera (Pisa), promossa dall'Amministrazione comunale e patrocinata dalla Regione Toscana, si propone come una testimonianza di un lungo cammino storico – direi quasi analitico – all'interno dell'arte contemporanea.

L'Associazione Culturale LIBA, fondata nel 1997 su iniziativa di Alessandro Gamba, ha da sempre avuto come finalità il dialogo tra gli appassionati d'arte, i suoi protagonisti e le loro opere. Ospiti sono stati, infatti, gli artisti che hanno segnato e contribuito a delineare l'arte nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso.

In mostra sono esposte circa 70 opere che rappresentano le nuove tendenze, sia in ambito astratto che neofigurativo; si possono vedere opere di Baj, Cascella, Bianco, Arnaldo Pomodoro, Carmassi, Rotella, Scanavino, Staccioli, Santomaso, Schifano. Accanto ai maestri, che possiamo definire storici, l'Associazione LIBA ha introdotto e promosso dei giovani che, guardando con attenzione alle sperimentazioni maturate nei decenni precedenti, hanno contribuito all'affermazione e all'evoluzione dei linguaggi specifici dell'espressività artistica; e va ben ricordare tra tutti Bonoli, Tommaso Cascella, Cascio, Costantini, Gamba, Giacobbe, Marinotto, Notargiacomo, Petrucci, Pinarello, Querci, Sonego, Talotta, Zucchini e molti altri.

L'alternanza delle diverse esperienze artistiche temporali è stata un palcoscenico sul quale è prevalso il confronto dialettico, comunque in evoluzione, tra forme espressive sperimentali e continuità, in una logica di accostamento tematico e linguistico tra generazioni. Non era difficile quindi trovare alle inaugurazioni critici, galleristi e storici dell'arte ed altri artisti: anime di un dibattito culturale e di riflessione sullo stato dell'arte contemporanea. Così, negli spazi di via G. Bruno, si sono susseguiti artisti che hanno affrontato, anche criticamente, le tematiche della pittura o della scultura; altri hanno prodotto interessanti riflessioni sullo spazio o sulla materia ed il loro concatenarsi in aree urbane, a volte raffrontandosi col limitato spazio della galleria o, al contrario,  con importanti aree museali come il museo Piaggio; quest'ultime nell'intento – sempre riuscito – di far dialogare la storia del design industriale e con le innovative forme della comunicazione del contemporaneo.

Queste iniziative e allestimenti si sono resi possibili grazie ad Alessandro Gamba, vero motore di questa associazione che è riuscito a coinvolgere, in questo progetto ventennale, le istituzioni locali e le strutture espositivi e museali della città. La lunga collaborazione con l'amministrazione ha contribuito ad allestire significative esposizioni sparse nel territorio, collocando, nei luoghi più frequentati della città, sculture di artisti ormai storicizzati; tra queste iniziative vale ricordare la mostra personale di Remo Bianco, del 2008, presso la Galleria Comunale "Centro per l'arte O. Cirri", la cui finalità è stata quella di riunire in un'unica esposizione il variegato linguaggio dell'artista milanese.

 Non va certo relegato in secondo piano il ruolo svolto nella divulgazione della cultura contemporanea in particolare quella relativa alla ricerca. E ciò appare dimostrato dalla linea programmatica perseguita nei due decenni di attività nel territorio. Si sono viste opere di artisti impegnati in una riflessione sul valore e sul senso del fare arte nelle sue variegate espressività pittoriche. In quest'ottica sono stati ospitati artisti provenienti da altre realtà culturali, voglio ricordare la mostra di Heiner Meyer, Sepideh Salehi-Kamran Taheri Moghadam, Viallat ed altri.

Alcune iniziative invece hanno guardato ai principali movimenti artistici della storia dell'arte europea, tra tutti la cosiddetta Pittura Analitica (Pinelli, Aricò, Olivieri, Viallat, ecc). Altri artisti, alla galleria Liba, hanno rappresentato, con le loro opere, le variegate sperimentazioni del secondo dopoguerra; è il caso di Arturo Carmassi le cui opere di scultura o di pittura hanno affrontato diversi stili e diversi linguaggi espressivi (non va certo dimenticata la sua verve polemica che ha alimentato e movimentato il dibattito artistico italiano).

Grande spazio è stato riservato alla scultura; importanti allestimenti all'aperto e nei luoghi più visibili della  città (Pontedera può vantare innumerevoli sculture sparse per la città). Vale qui ricordare l'estesa mostra di Simon Benetton in collaborazione con l'Amministrazione Comunale e la Fondazione Piaggio.

Questa mostra non può che essere un omaggio all'attività della Galleria Liba ma ancor di più rappresenta un diario nutrito di articolate riflessioni sui linguaggi espressivi dell'arte contemporanea.

 

 

 

 

 


 

 

 

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Gino Casanova

 

 

 

Sala consigliare

 

 

 

Santo Stefano di Cadore – Belluno

 

 

 

Benché Gino Casanova abbia lavorato nella solitudine e lontano dal mondo pulsante dell'arte italiana, non possiamo pensarlo come una figura marginale della pittura. Tale visione verrebbe immediatamente smentita da alcune tematiche e forme espressive da lui trattate contemporaneamente ad altri artisti. Le sue pitture esposte nella retrospettiva allestita presso la sala consigliare del Comune di santo Stefano di Cadore, dove era nato nel 1920 (-1994), non ci sembrano estranee alle sperimentazioni del secondo dopoguerra; in particolare l'artista si è reso sensibile ai principi estetici e politici contenuti nel manifesto programmatico del realismo, Oltre Guernica, del 1946, il cui intendo era valorizzare le opere di Picasso che allora rappresentava un punto di ripartenza per l'arte dopo la catastrofe della II Guerra Mondiale. L'artista spagnolo era diventato, col suo girovagare per l'Europa, simbolo di un'arte priva di confini nazionali e condizionamenti politici. Opere dell'artista veneto, come la Capra, Maternitè dramatique e l'Uomo disteso, ne sono una precisa interpretazione. In questi lavori è evidente quell'idea di neo-cubismo mescolato con qualche espressività di stampo neo-realista, presente allora nella terra friulana di Pasolini, Zigaina, Pizzinato, De Rocco, ecc.

La sua lunga permanenza in Belgio (Liegi e Bruxelles) gli ha permesso di guardare con una certa curiosità all'arte americana, soprattutto ai pittori newyorkesi, gli esponenti del cosiddetto "espressionismo astratto". Nei dipinti di quel periodo si avverte una profonda attenzione alla luce, alla dinamica dei colori e al movimento del segno. Protagonista di queste pitture diventa il dialogo tra luce e colore. Casanova interpreta il paesaggio attraverso i colori e la luce cangiante della natura. Una gestualità onirica e fantastica, paragonabile al naturalismo espressivo di Afro. L'artista viene così evidenziando, attraverso il gesto, la materia e il colore, la fenomenologia della natura, la sua mutevolezza nel corso della giornata: è il caso di Atmosphere de banlieu de Paris.

 I frequenti ritorni a Venezia, soprattutto nei primi anni sessanta, sono l'occasione per conoscere i protagonisti del movimento Spazialista. Nella Venezia della galleria del Cavallino hanno operato i più importanti artisti di quel periodo, da Fontana a Guidi, da Deluigi a Bacci, Morandis e Tancredi (suo conterraneo e di pochi anni più giovane). Le pitture di quegli anni sono caratterizzate da un'atmosfera quasi surreale, resa tale attraverso un deciso movimento cromatico e da velate vibrazioni tonali su una corposa materia spesso lavorata a mani nude. Composizioni che richiamano le nebulose, l'infinito, la profondità di un universo reso ancor più distante dall'immaginazione che solo la creatività dell'arte può materializzare. Il paesaggio, caratterizzato da repentini fulgori di luce vibrata dalla chiara roccia delle montagne e subito sedata dall'incombente ombra del tramonto, si trasforma, attraverso la pittura, in paesaggio fantasioso, ovattato da solitarie nostalgie.

La sua è una pittura difficilmente ascrivibile a un gruppo o a un movimento, perché non pedissequa nel seguirne i principi e le finalità, né rivoluzionaria nell'applicare i cambiamenti che il mondo dell'arte gli ha proposto nel corso della sua attività; la notevole quantità di opere è frutto di un "esercizio della pittura" che, proprio nel suo ripetersi, si materializza come sintesi di una personale idea e ricerca espressiva, sempre però proposta in modo dialettico con la storia dell'arte.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Gino Casanova, Paesaggio,

tecnica mista su tavola

 

 

 

 

 

 

Gino Casanova, Paesaggio,

tecnica mista su tavola

 

 

 

 

 

 

 

Alan Jones

 

 

Sognare di Nuovo,

 

 

monografia dell'artista Luciano Chinese.

 

 

 

"Una cosa sappiamo di Sicuro, che ogni artista ha bisogno di entrare nella città più grande che può trovare." Sono queste le parole usate da Alan Jones per introdurre le nuove opere di Lucino Chinese. La presentazione del libro si è tenuta al Centro Culturale Candiani di Mestre e ha preceduto, di un giorno, la mostra personale che Chinese ha allestito presso i Magazzini del Sale a Venezia. La presentazione, coordinata dall'artista e nostro collaboratore, Ottavio Pinarello, ha avuto anche la presenza del libraio della Mondadori Franco Caramanti. Ha aperto il critico e profondo conoscitore della PopArt, l'americano Alan Jones, con una serie di riflessioni sull'arte contemporanea, sostenendo il suo essere comunque espressione di un modernismo ancora lontano dall'essere superato da aleatori, quanto ingiustificati, postmodernismi. Affermazione controcorrente da lui però ben sostenuta.

Ciò che unisce i due, il critico e l'artista, è la figura del poeta Ezra Pound, conosciuto da entrambi a Venezia e da entrambi diversamente frequentato. La poesia diventa così il filo conduttore dello scritto che accompagna la monografia sugli ultimi lavori di Chinese. Ricordi ed esperienze dell'artista si intrecciano con le analisi storico-espressive del critico d'arte, il dialogo come metodo per ricostruire il percorso creativo che ha portato al titolo del libro: Sognare di Nuovo.

Determinanti, per Jones, sono state le esperienze, anche umane, dell'artista poiché costituiscono l'impalcatura per una lettura storico–intimistica delle ultime opere e per giungere ad una sintesi dialettica che fa di Chinese un "artista al presente".

Materia - vetro - trasparenza - colore - luce, sembrano essere questi i sostantivi che descrivono, specificandole anche, le ultime opere di Chinese, ancor di più se stimolate dalla frase del critico americano: "I quadri di Chinese sono delle icone in movimento concettuale".

Ecco quindi la consapevolezza dell'artista nel saper cogliere la specificità del vetro: l'essere cioè un elemento che, nello stesso tempo, permette alla vista di oltrepassare la barriera della materia e contemporaneamente consente anche alla luce di attraversala e di illuminare uno spazio interno. Questo è il rapporto che l'artista ha con lo spazio (NuovoSpazio è il nome della galleria che conduce da decenni a Venezia e a Udine), reso ben chiaro da una sua metafora: "Cambia il sentimento dello spazio, dallo spazio esterno delle piramidi che rappresentano uno spazio infinito […] e uno spazio interno alle piramidi invece ridottissimo, perché le celle nelle piramidi sono piccole celle connesse per cunicoli".

Spazio interno e spazio esterno; spazio chiuso e spazio aperto. Queste le realtà che viviamo, che consumiamo ogni girono, questo il diverso rapporto che abbiamo con la realtà. Uno stato interiore ben espresso dall'artista che ci chiarisce anche i suoi rapporti con alcuni artisti dello Spazialismo (Lucio Fontana) o altri legati al secondo Futurismo (Tullio Crali). Spazio assoluto e libero movimento nello spazio dunque, come espressione di uno stato d'animo (quello che l'artista definisce serenità e tranquillità) evidenziato dalle variegate colorazioni della luce. I diversi cromatismi sono la testimonianza delle sensazioni personali: ecco quindi apparire negli ultimi lavori il Sognare di Nuovo: essere proiettati oltre lo spazio chiuso della realtà e vivere, contemporaneamente, quell'infinito che affascina ogni desiderio e dove i sogni originano e vanno a finire.

 

 

 

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