Trimestrale di informazione e critica d'arte

 

2017

 

 

 Basquiat, LVII Biennale, Sonego/Filieri, O. Pinarello, F. Rosselli, E. Zucchini

 

 
2010   2011   2012   2013   2014   2015   2016  2018
 
home

 

 

     
 

 

BIENNALE INTERNAZIONALE D'ARTE DI VENEZIA 2017

VIVA ARTE VIVA

 

Venezia, Sedi varie

13 maggio - 26 novembre 2017

 

«VIVA ARTE VIVA è così un'esclamazione, un'espressione della passione per l'arte e per la figura dell'artista. VIVA ARTE VIVA è una Biennale con gli artisti, degli artisti e per gli artisti, sulle forme che essi propongono, gli interrogativi che pongono, le pratiche che sviluppano, i modi di vivere che scelgono.» Con queste parole Christine Macel, presenta la sua Biennale.»

L'edizione del 2017 ospita 120 artisti (85 le presenze nazionali) e ben 103 non avevano mai partecipato alla rassegna veneziana. Molti sono i giovani invitati sul palcoscenico della contemporaneità e ciò evidenzia un'azione al presente e un'attenzione alla parte attiva nel divenire del tempo.

Una Biennale allargata a un numero sempre maggiore di Stati e rispondente alle parole del Presidente Baratta: «Siamo soliti definire La Biennale come luogo di ricerca. Siamo soliti ripetere che qualunque sia il tema o l'impostazione della Mostra, La Biennale si deve qualificare come luogo che ha come metodo, e quasi come ragion d'essere, il libero dialogo tra gli artisti e tra questi e il pubblico. Le Biennali degli ultimi anni hanno tutte confermato questo spirito.»

Idea certamente condivisibile, poiché si considera l'arte non solo come un linguaggio, ma, soprattutto in questa occasione, come espressione di uno stato esistenziale, se non un'indagine di tipo estetico-sociologica vera e propria. Un esempio di questa trasformazione potrebbero essere le opere di Raymond Hains (1925-2005), esposte nel padiglione centrale ai giardini. Dagli storici decollage alla realizzazione di nuovi manifesti, con i quali l'artista propone luoghi comuni e collettivi, mediante l'interazione e le analogie di parole, nomi e immagini, linguaggi espressivi diversi. Si viene creando così una visione alternativa all'immagine di un artista semplicemente osservatore e casuale "raccoglitore" di sensazioni o di emozioni, per trasformarlo in ideatore e produttore di un sistema di comunicazione collettivo e sociale.

È un'esposizione che poco si sofferma sui linguaggi, poiché vengono privilegiati i contenuti, nella fattispecie l'essere, il suo aspetto espressivo-creativo come fenomeno sociale e percettivo. La finalità è dunque la partecipazione diretta dello spettatore, il suo coinvolgimento, le sue simultanee espressioni come vivo momento di complicità. Un percorso scandito dalla curiosità del pubblico che è chiamato a partecipare attivamente. "Se non vuoi essere ripreso, evita di entrare in questo padiglione" un monito al visitatore; che può così scegliere di essere coinvolto nell'azione artistica, come può incontrare i protagonisti partecipando volontariamente alle serate conviviali, durante le quali può liberare ogni forma di curiosità.

Christine Macel, abbandonando un po' l'idea di una Biennale come tributo agli artisti, propone un viaggio dentro l'arte come coinvolgimento quotidiano e luogo dove l'artista si fa interprete di un tempo simultaneamente condiviso tra ideazione e percezione. Un viaggio dentro i sentimenti dell'essere umano, suddivisi in tanti spazi appositamente allestiti: Padiglione delle Gioie e delle Paure dove si evoca, tra emozioni e sentimenti, il rapporto del soggetto con la sua propria esistenza; il Padiglione dello Spazio Comune in cui opere si interrogano sul modo di costruire una comunità che va oltre l'individualismo e gli interessi specifici; il Padiglione della Terra luogo di incontro delle utopie e dei sogni intorno all'ambiente, al pianeta o al mondo animale; il Padiglione delle Tradizioni, da quelle respinte dalla trionfale modernità laica settecentesca, a quelle che si ripresentano oggi nelle loro peggiori versioni, tra fondamentalismi e conservatorismi; nel Padiglione degli Sciamani, gli artisti, che secondo il termine Duchampiano, diventano anche missionari, in quanto animati da una visione interiore; con le opere del Padiglione Dionisiaco si celebra il corpo femminile e la sua sessualità, la vita e il piacere, con gioia e senso dell'humor; Padiglione dei Colori: i colori (che non esistono in sé, ma sono il risultato di un processo del cervello e dell’occhio) decodificano la realtà diventando fonte di un'emozione particolarmente soggettiva come espressione fenomenologica dell'arte; nel Padiglione del Tempo e dell'Infinito si evidenzia il tempo, come flusso, come continuità incessante di mutazioni e transitorietà. In questa sezione sono presenti opere degli anni '70, le cui performance concettuali si mischiano a una riflessione sul tempo lungo.

A rappresentare gli anni sessanta e settanta, troviamo anche Giorgio Griffa e Riccardo Guarnieri, esponenti della Pittura Analitica, attivi protagonisti di un'esperienza che viene, in questa edizione, giustamente considerata sotto l'aspetto teorico e storico, prodromi di un dialogo con la contemporaneità intesa come espressione dell'attualità.

Un viaggio in cui il protagonista è lo spettatore, inserito, suo malgrado, in un'immediata quanto estranea, spiazzante e interrogativa, temporalità; un'iperistantaneità coinvolgente o una refrattaria partecipazione? (che sia proprio questo il doppio senso di viva arte viva: viva in quanto attuale e pulsante e viva tra passato e futuro?).

Poco passato (ma efficace) e molto presente; molteplicità di forme espressive, un gran numero di giovani (come nel caso degli italiani Roberto Cuoghi, Adelita Husni-Bey e Giorgio Andreotta Calò), tutto ciò da programmazione: «È cresciuto in questi anni il nostro interesse per i "curricula" degli artisti; il disporre di un importante archivio ci sollecita in questa direzione.» (Baratta)

È anche la Biennale dei libri; molti quelli presentati anche ironicamente come a costruire un giudizio contenutistico a posteriori, guidato da un dialettico confronto tra memoria e attualità. Libri bruciati, incollati, tagliati imbullonati, sezionati, strappati, colorati, rovesciati. Instancabile dialogo tra presente e passato, tra memoria e futuro. Libri: ironici interlocutori tra le metafore dei titoli e il loro ri-presentarsi.

Questo dunque lo scopo di «VIVA ARTE VIVA», curata da Christine Macel, chief curator del Center Pompidou (quarta donna chiamata per la direzione artistica nei 122 anni di storia di questa manifestazione, dopo Maria de Coral con Rosa Martinez, e Bice Curiger). Dunque viva per la presenza attiva e materiale degli artisti. Una novità se pensiamo alle passate edizioni, in cui erano esposte opere intrise di riflessioni su ideologie, nuove tecnologie e derive provocatorie (sebbene quest'ultime non manchino anche in questa edizione).

Una Mostra ispirata all'umanesimo, dice Christine Macel. Un umanesimo – termine ahimè improprio, poiché espressione già di un tempo storico e felice per l'arte italiana – che guarda all'attualità dell'essere umano, ai suoi rapporti sociali e delle società di cui sono protagonisti, attenta al dialogo con il passato e curiosa per il divenire; dove, e questo sembra essere la qualità di questa Biennale, non la trasmissione delle sensazioni, non la narrazione delle emozioni, non una ricerca spasmodica della novità linguistica, quanto la ri-presentazione, in veste artistica, di una realtà nella quale umanità e arte, sentimento e linguaggio espressivo si trovano a vivere un momento comune che vale quanto una performance d'arte. È proprio il rapporto tra lo spettatore e l'opera d'arte a essere divulgata in altre situazione esistenziali attraverso le registrazioni e trasmissione in diretta.

E buon ruolo hanno i linguaggi e gli stili che, non debordando nella ricerca dell'esclusività o della novità, propongono più una sintesi dei linguaggi dell'arte che uno sperimentalismo espressivo o un nuovo azzardo (ma non sarebbe stato un peccato qualche prova linguistica più audace o innovativa). Ma è attraverso il consolidamento dei linguaggi, la loro completa assunzione da parte degli spettatori che si può raccogliere l'attenzione necessaria perché ne scaturisca un dialogo diretto, che poi altro non è che la stessa funzione dell'arte.

Tutto l'umano è coinvolto nel fare, nel vivere, nel rifiutare, nel meravigliarsi perché questo ci sembra essere il senso di Viva Arte Viva.

 

vai elenco

 

 


 

 

 

 

Giappone -Turned Upside Down, It's a Forest

Alicja Kwade, WeltenLinie

GERMANY - Anne Imhof

Raymond Hains - Various works,

1964-2001 Mixed materials

Legare collegare, Un filo di Maria Lai Real

 

 

 

 

 

EMILIANO ZUCCHINI

 

 

VUOTO E IMMAGINE

 

 

Valmore Studio d'Arte - Vicenza

 

 

 

In occasione degli Studi Festival 2017 di Milano c'è stato un importante il confronto tra Carlo Bernardini e Emiliano Zucchini. I due artisti hanno più volte collaborato e spesso si sono confrontati in un dialogo complesso tra realtà e virtualità, tra percezione fisica e percezione concettuale. Termine comune: il vuoto, l'assenza, il nulla.

Carlo Bernardini, autore di installazioni ambientali, fa uso di fibre ottiche con le quali crea forme e architetture geometriche di luce, dando così una diversa dimensione e struttura allo spazio: lo scopo è spiazzare lo spettatore. Ogni luogo diventa altro e la realtà appare diversa. Pieni e vuoti, buio e luce sono volumi che si perdono nella nuova realtà.

Non di volumi, non di luoghi si occupano le opere di Zucchini, benché si interroghino sull'essere e non essere, sul pieno e vuoto. L'artista però non offre spazi in cui introdurre lo spettatore, anzi lo coinvolge nella sua ricerca, nella sua riflessione concettuale. Non quindi una ricostruzione reale ma un messaggio che invita l'osservatore a interpretare e a concettualizzare il mondo circostante. Sicuro della certezza che è impossibile riprodurre il vuoto o il nulla senza la materia, l'artista si avvale del pattern che nella computer grafica e nel web "rappresenta" il vuoto. Un gergo digitale per indicare che la superficie che si vede in realtà non esiste.

Certamente più comprensibile e più evidente e anche più completa, sotto l'aspetto evolutivo, si manifesta la ricerca che Zucchini ha allestito presso lo Studio Valmore di Vicenza.

In questa esposizione sono infatti presenti diverse opere che delineano il cammino dell'artista e che introducono alla sua proposta "virtuale" della realtà.

Tutto inizia con le fotografie il cui soggetto sono le antenne. Già con quest'azione l'artista preferisce spostare la sua attenzione non verso l'oggetto reale, ma all'ombra disegnata dalla luce. La scelta non ci pare casuale, poiché Zucchini gioca sulla mutevolezza e sull'incertezza dell'ombra, sulla sua irregolarità, sul suo non essere sempre uguale, sul non essere neanche materia. L'ombra, in quanto immateriale, diventa dunque una rappresentazione e una testimonianza della materia; similmente alle onde che si propagano nell'etere e che l'artista concretizza nelle riproduzioni del segnale televisivo. E sono figure confuse, riverberate, sfuocate, scomposte, indecifrabili. Come tutte le onde, sonore o visive, hanno bisogno di un decoder.

Anche la percezione umana della realtà deve essere decodificata e riconoscibile. La riflessione dell'artista si evidenzia proprio nella convenzionalità dei linguaggi e quindi della comunicazione, che deve subire lo stesso processo di trasformazione delle onde visive: diventare immagini comprensibili; è necessario riferirsi al senso percettivo dello spettatore o servirsi di una convezione linguistica che individui nell'immagine un mondo che esiste in un altro spazio. Sfiora la significativa affermazione di Luigi Meneghello secondo cui: «Quando spariscono le parole, spariscono anche le cose che queste rappresentano». Come a dir che solo le parole rappresentano la realtà, e rendono possibile la fantasia.

Zucchini elabora la sua ricerca nella consapevolezza che tantissimi artisti prima di lui si sono cimentati nel raffigurare il vuoto, l'assenza o il nulla; ma anche con la disillusione che nell'arte il vuoto si può percepire solo attraverso la mancanza di una parte della materia stessa (Henry Moore docet). Si apre dunque la convinzione, in Zucchini, che il vuoto non può che essere un'idea, un concetto e che può essere elaborato individualmente e dunque riconosciuto solo convenzionalmente (come lo sono la parola e il suono).

La novità proposta dall'artista romano sta dunque nell'utilizzare la grafica digitale per concettualizzare l'assenza della materia o la presenza del nulla: una scacchiera bianca e grigia che identifica il vuoto intorno alla figura. Un messaggio, un'informazione, anche antiestetica (da qui la sua efficacia comunicativa), piatta senza alcun rimando a cui fa da contorno. Con la convinzione che tale elemento raffigurativo è di per sé significante (l'assenza della materia) Zucchini rappresenta, sulla superficie, il vuoto, ma per far ciò c'è bisogno della materia o di una forma che faccia da contrappeso.

A corollario di questa interpretazione le ultime opere vanno verso la virtualità quasi assoluta dello spazio solo utilizzando la tecnologia dello smartphone. Elaborando dei codici mediante lo schermo del telefono, lo spettatore viene immerso in una realtà possibile, mettendo dunque in atto il concetto secondo il quale solo attraverso un processo razionale è "possibile vedere" il nulla o percepire il vuoto (la matematica pare ci sia riuscita con i numeri relativi negativi).

 

 

vai elenco

 

 


 

 

 

 

 

Void, 2017

stampa su FOREX sagomato

Veduta della mostra

presso Valmore Studio d’arte, 2017

Void B, 2016

acrilico su stampa su FOREX

Void, 2017,

stampa su FOREX sagomato, installazione realizzata in occasione di Studi Festival, Milano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FOSCA ROSSELLI

 

 

ANCORA ROSSO!

 

Studio Paolo Barozzi - Venezia

 

 

 

Se ci chiedessero: "Che cosa significano le parole -rosso, blu, nero, bianco?" potremmo di certo indicare immediatamente certe cose che hanno quei colori, ma la nostra capacità di spiegare i significati di queste parole non va più oltre!

 

L. Wittgenstein, Osservazione sui colori

 

  

 Parlare delle opere di Fosca Rosselli, significa parlare anche della pittura e non solo dell'aspetto individualistico, di ciò che caratterizza una singola persona o del suo diretto rapporto con la pittura, ma più in generale della pittura in quanto linguaggio dell’arte.

Una pittura dunque, quella di Rosselli, che ripercorre alcuni degli elementi linguistici che hanno da sempre caratterizzato le esperienze dell'astrattismo, a partire dal secondo dopoguerra, quando, abbandonate le esperienze realiste e propagandistiche del ventennio, la pittura ha aperto a nuove esperienze – diversamente legate alle avanguardie storiche – che sono maturate negli Stati Uniti, dopo che molti dei protagonisti europei, negli anni trenta, sono stati costretti a emigrare.

Dell'evoluzione del linguaggio espressivo della pittura dunque l'artista ne è consapevole, come appare cosciente che le esperienze cui fa riferimento sono parche di elementi espressivi, ma ricche di riflessioni sul linguaggio o complesse nella loro sintassi compositiva. L'artista ha certamente guardato con l'attenzione e la curiosità di chi ha la percezione che la pittura astratta non è un semplice linguaggio (spesso troppo analitico) a sé stante, ma un insieme di componenti variegate e che rispondono all'individualità espressiva del singolo, e di questo ne manifesta le tensioni, le complessità percettive, nonché diventa interprete di un equilibrio estetico o di una diversificata impostazione formale. Ed è dunque su queste convinzioni che spazio e tempo non sono due aspetti descrittivi, ma momenti che scandiscono il divenire della pittura.

Rosselli è inoltre consapevole che la pittura astratta non può che evolvere all'interno della personalità individuale e che ogni sua manifestazione è soggetta a un'evoluzione dialettica che alterna, a ogni espressione intimistica, una riflessione che si affida a fattori essenzialmente razionali, la cui finalità è dare oggettività all'azione pittorica stessa.

È dunque con questa visione che proporremo una lettura delle opere dell'artista, considerando inoltre le varie elaborazioni – quasi seriali – che viene realizzando; si tratta, in questo caso, di sperimentare un percorso artistico in evoluzione, una serie conseguente di elaborazioni e ri-elaborazioni che nella ripetitività raggiunge l'identità ultima: "Quando cioè nulla manca sulla superficie" (Robert Ryman, L'opera è un Unfinished Painting, 1965).

Nel percorso dell'artista emergono due aspetti che stimolano la lettura: l'interpretazione della luce e del conseguente utilizzo del colore, filtrato dagli aspetti individualisti del segno, del gesto e dell'intensità del movimento.

Dunque non propriamente una lettura che rincorre le potenzialità della pittura come linguaggio ma come espressione di una percezione della realtà e dell'essere artista in questa realtà.

La capacità di creare spazi cromatici insistendo sulla sequenza e rinunciando dunque alla singolarità del dipinto, fa della pittura l'arte dell'esternalizzazione delle sensazioni. Al centro dunque l'identità creativa dell'artista; come una rivelazione che non è riconducibile alla realtà, ma a questa perviene dopo che si sveste di quell'individualità che è propria del singolo. Così dunque la pittura si trasforma in viaggio che muove dal un mondo personale interiore e fantastico, per aprirsi a ogni possibilità, disponibile a perseguire tutti i sentieri epifanici che la pittura rende possibili.

Così il pensiero, l'idea, il linguaggio si trasformano, attraverso l'azione del fare, in un oggetto percettivo. E solo in questo momento si apre allo spettatore quel mondo che Rosselli aveva immaginato, aveva inteso interpretare attraverso un'azione pittorica.

Il suo essere anche fotografa, il suo assumersi il ruolo di chi raccoglie nella realtà l'emozione, di saper distinguere quanto l'apparire abbia la necessità di essere un momento da tramandare, da conservare, poiché proprio in quell'istante (che è molto distante dalla sequenza operativa del fare pittura) scatta la percezione "emozionale". Sono dunque due momenti creativi distinti che convivono nell'artista: uno immediato, l'altro invece progressivo e in itinere. Come dire che in Rosselli convivono due realtà: quella contemplativa della fotografia (benché in molte sue opere la fotografia si trasforma in immagine da rompere o sberciate, per svelare l'altro, ciò che sta nascosto) e quello progettuale e fattuale della pittura.

Il fare di Rosselli si mantiene così in una realtà compositiva tutta tesa alla formalizzazione di uno spazio pittorico dalle vibranti emanazioni. Il colore rinasce ad ogni pennellata, a ogni velatura, a ogni sovrapposizione materica. Le ampie campiture cromatiche, nell'alternanza della materia e del suo spessore esprimono una diversificata intensità gestuale e delimitano il fare pittura come movimento determinato dall'azione materiale su di una superficie esclusivamente bidimensionale. Ciò permette allo spettatore di inserirsi in un campo percettivo caratterizzato da variegate alternative. In questo modo la pittura ripropone i suoi interrogativi, negando continuamente l'idea che essa possa sfiorire, perdersi in altri linguaggi dell'arte. La valutazione, che scaturisce dal guardare la pittura, ridà vita alla pittura stessa.

I pochi e immutabili elementi linguistici, di cui l'artista si serve, sono sufficienti a creare emozioni e riflessioni, poiché infinito è il colore e altrettanti sono le variabili del suo rapporto con la luce e con il monocromatismo. Non si tratta, per Rosselli, di pensare il monocromo come cancellazione, né come ripensamento di un agire, quanto piuttosto di riaffermare il grado zero della pittura, il grado dal quale tutto è possibile. In questo modo le sue opere propongono una lettura che separa l'idea di superficie, in quanto substrato, dal piano colorato. Non è una separazione netta dei due aspetti linguistici, colore e superficie, quanto un'ulteriore operazione di riflessione sulle potenzialità espressive della luce mediante un solo colore; ma anche sull'impossibilità da parte del colore di assumere completamente la consistenza di un corpo cromatico in grado di proporsi autonomamente, senza ulteriori componenti linguistiche che tendono a limitare la portata emotiva e coinvolgente del colore.

I rossi di Rosselli non si limitano dunque al solo aspetto scenografico, o a un semplice contenitore dello spazio percettivo, sono invece un costante riferimento alle variazioni tonali che un colore riesce a stimolare individualmente in ogni singolo spettatore. Non dunque un colore assoluto (né tantomeno un colore che rincorre simbolismi o significati intrinseci) ma un fare pittura che, nell'espletare le potenzialità del rapporto colore/luce, rende, ancora una volta, protagonista la possibilità; e la pittura esiste perché in essa, ogni volta, si materializza questa "possibilità".

 

 

vai elenco

 


 

 

 

 

 

 

 

F1 14, 2016

foto lacerate

 

 

 

 

F1 14, 2016

foto lacerate

 

 

Fosca Rosselli con Paolo Barozzi

 

 

 

 

JEAN-MICHEL BASQUIAT

 

 

 

New York City - Opere dalla Collezione Mugrabi

 

Loggia del Bramante  - ROMA

 

 

«Io non penso all'arte quando lavoro. Io tento di pensare alla vita.» Questo disse Jean-Michel Basquiat, "artista maledetto" appartenente alla categoria degli ventottenni (da Jenis Joplin a Jimi Hendrix, Jin Morrison, Brian Jones – tutti con la J) morti prematuramente all'apice della creatività. C'è però un altro grande artista che accomuna, nel suo fuggire dal tetto materno, il giovane Basquiat: il poeta di Charleville, Arthur Rimbaud, che nei suoi versi descriveva il suo andare per il mondo: «I pugni nelle tasche rotte, me ne andavo/ con il mio pastrano diventato ideale;/ sotto il cielo andavo, o Musa, a te solidale;/ oh! là là! quanti splendidi amori sognavo!» (A. Rimbaud, Ma Bohème, in Opere complete, 1992.)

È un paragone che ruota attorno a quel desiderio giovanile che chiede di vivere intensamente e in tempi brevi, velocemente, bruciando il tempo, perché raccontare e vivere sembra debbano correre in un solo binario, paralleli come il pensiero e l'arte che assurgono a faro delle proprie scelte, e non solo artistiche.

«Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi.» (Rimbaud, Lettera a Paul Demeny, 15 maggio 1871).

E dunque gli ingredienti ci sono tutti per guardare alle opere di Basquiat fuori da quel percorso dell'arte con cui, in diversi modi, è stato descritto. Uomo alla ricerca della notorietà, artista affascinato dallo sfavillio di quella New York ormai manifesto del riflusso e del disimpegno sociale, della stravaganza ostentata, dell'apparire, del luccichio del denaro e della felicità ad ogni costo che il jet set proiettava.

Basquiat è stato suonatore di sax, e, imitando il rauco suono dello strumento, ha cavalcato le note e i riff dei grandi musicisti jazz come Charlie Parker e John Coltrane. Similmente a loro ha intonato i rumori di una società che ha in sé solo sprazzi di umanità, come i bagliori improvvisi di luce che riportano alla mente i trilli visionari, ma di sfavillante sonorità, di Miles Davis. Suoni acuti, brevi come i luccichii delle stroboscopiche dello Studio54.

E queste immagini, visive e sonore, si andavano però gradualmente spegnendosi nella miseria delle periferie, nelle forti denunce di chi, rimasto a piedi, invidiava la locomotiva del benessere che se ne allontanava. Ne rimanevano razzismo e isolamento che il giovane Basquiat descriveva – come una sorta di atto scaramantico – sui muri o sulle tele, con l'urgenza del segno, l'immediatezza del gesto, la sonorità del colore, con l'insopprimibile necessità di disegnare e di essere artista. E i muri di New York sono stati, all'inizio della sua carriera, le tele su cui ha inciso i tratti distintivi e indelebili della sua arte, sintetizzando astrattismo, figurativismo e neoespressionismo. Un'intensa e vibrante pittura, talvolta viscerale, materica e tribale, sedotta da una scrittura rivelatrice quanto irreale e incauta. Basquiat ha usato e trasformato le parole in segni grafici e significanti, come versi che risuonavano al ritmo del suo ritmo musicale interiore.

E le pareti dei palazzi – sapientemente scelte in prossimità delle gallerie più rinomate – si sono trasformate, per lui e per altri artisti, in pagine bianche sulle quali denunciare il malessere di una società, dove il personalismo e l'individualismo si stavano ormai radicando in contrasto con il conseguente disagio esclusivamente personale di una generazione di giovani. E il disagio personale ed etnico di Basquiat emergeva dalle frettolose immagini primitive, dalle parole che contenevano (e ancora esprimono) il senso di un'insofferenza collettiva (figure surreali, scritte e messaggi ambigui e liberatori molto simili a quelli che decoravano i cessi della Grande Mela).

E tutto questo è presente nella mostra che è stata inaugurata il 24 marzo – e che durerà fino al 2 luglio – presso il Chiostro del Bramante a Roma, dove si possono osservare circa un centinaio, tra serigrafie, ceramiche, disegni e acrilici, tutte opere realizzate negli ultimi sette anni della sua vita. Questa mostra, con la curatela di Gianni Mercurio in collaborazione con Mirella Panepinto, fa seguito al LOVE. L'arte contemporanea incontra l'amore, continuando così il viaggio all'interno della street art e del suo impatto sulla società.

Le opere fanno parte della Mugrabi Collection di New York, una delle raccolte di arte contemporanea più famose e ricche al mondo, di proprietà del collezionista israeliano Jose Mugrabi.

L'esposizione rappresenta quella che potremmo definire una sorta di svolta dell'operare dell'artista. L'incontro (finalmente) con Warhol, viene qui rappresentato da opere "a sei mani". È il periodo del suo ingresso trionfale nel mondo dell'arte, che poi coincide con i primi abbandoni a una più ricca apertura alle novità artistiche.

Sono opere particolarmente interessanti, poiché, pur continuando l'intimo rapporto con il linguaggio dell'arte e le rappresentazioni intimistiche e visionarie, esprimono una pittura frenetica dalle composizioni spesso a scatti temporali. Vi si avverte anche una sorta di razionalismo compositivo, che doveva rispondere alle esigenze di un mercato dell'arte frenetico che anteponeva alla creatività la necessità di "comprare prima che il valore aumentasse". Anche l'arte pareva seguisse l'euforia delle borse, degli investimenti e dei guadagni veloci e facili che hanno caratterizzato il cosiddetto riflusso di quegli anni.

Questo ritmo ha stritolato il giovane che, nell'impossibilità di mantenere la velocità di quella società, ha liberato gli stimoli primordiali della sua creatività, lasciando così una pittura attenta alle più disparate fonti, e che si trasformasse in una proposta per un linguaggio artistico originale e incisivo tale da diventare una critica durissima alle strutture del potere e al razzismo.

 

vai elenco

 

 


 

 

Jean-Michel Basquiat  -  foto di Lizzie Himmel

 

Jean-Michel Basquiat e Andy Warhol

Dog, 1984, Acrilico, inchiostro

serigrafico, pastello a olio e olio su tela cm 202,9x269,6 Mugrabi Collection

 

 

Three Delegates, 1982, Acrilico, pastello a olio e collage su tela cm 152,4x152,4 Mugrabi collection

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NELIO SONEGO

ALFONSO FILIERI

 

 

LA TEMPESTA E L’ISOLA DEGLI INCANTESIMI

 

 

 

La tempesta e l'isola degli incantesimi: Omaggio a Shakespeare. È il titolo della mostra alla Fondazione Primoli e al museo Mario Praz e che vede come protagonisti Alfonso Filieri e Nelio Sonego. Due artisti che da moltissimi anni espongono spesso in coppia in tutta Europa. Oltre alla loro esperienza artistica esiste anche una collaborazione editoriale (con il marchio l'Orolontano) per la realizzazione/pubblicazione di libri d'artista; ormai non si contano le pubblicazioni assieme o singolarmente, o ancora con altri artisti. L'altro aspetto che li lega da decenni è un'interrotta ricerca sulle possibilità espressive della carta. Infatti, le opere esposte in questa mostra sono in o su carta; opere a muro e naturalmente i libri d'artista, in particolare questi ultimi per "richiamare l'interesse e la passione per i libri che hanno avuto" i due studiosi cui sono intitolate la Fondazione (Giuseppe Primoli) e il Museo (Mario Praz).

Sebbene geograficamente lontani, Filieri di Roma e Sonego di Venezia, i due artisti, singolarmente con le loro esperienze, riflettono sulle qualità della materia carta. Filieri lavora essenzialmente con la carta in quanto materia nei vari aspetti della malleabilità, della forma e dell'assorbimento del colore, mentre Sonego la utilizza come un efficace supporto alla pittura dalle innumerevoli caratteristiche e dalle variegate luminosità. Se dunque da un lato di assiste a riflessioni espressive sulla forma e sulla struttura della carta, dall'altro la stessa si manifesta semplicemente come corollario all'azione pittorica.

  La Tempesta (soprattutto per chi ragiona di teatro) ha diversamente ispirato i nostri due artisti, poiché in appendice agli eventi del dramma shakespeariano ci si confronta con la "materia" aleatoria, mutabile nella sostanza, indefinibile e priva di forme ma capace di assumerle tutte: l'acqua. Il dramma, infatti, narra di alcuni personaggi che a bordo di una nave naufragano dopo una terribile tempesta. Il poeta racconta che Prospero, anche grazie ai suoi libri, riuscirà a sopravvivere naturalmente tra le mille difficoltà, inganni e invenzioni esistenziali del genio inglese. E di questo dramma sono proprio i libri e l'atmosfera della tempesta a legare la ricerca di Filieri e di Sonego con il grande poeta inglese.

Il tributo degli artisti non si limita però esclusivamente alla materia, alla carta trasformata in libro, ma anche i cromatismi che l'acqua manifesta nel suo mutare in burrasca, quando lampi di luce separano a tratti le buie nuvole, e dove le nere stratificazioni della notte si aprono per lasciare spazio a improvvisi lampi di luce che, squarciando il cielo, tratteggiano arabeschi dalle inusuali forme. Così colori e segni ripetono i cromatismi e i movimenti ispirati dall'immaginazione e dall'esperienza degli artisti, mediate però dallo spirito narrativo e drammatico di Shakespeare. Ancora una volta si vede, nelle opere di Filieri e di Sonego la contraddizione tra chiaro e scuro, tra lievità del tratto pittorico e la consistenza della materia, tra presente e memoria (che sia ancora il fascino giorgionesco della tempesta che aleggia nella mente degli artisti?).

In molte delle carte di Filieri alternano colori che riprendono quelli del mare in burrasca (come per altro citano i titoli delle sue carte). Verdi, profondi blu, magiche sbrecciature, inattese pieghe della carta a rincorrere le figure frattali di lampi inaspettati echeggianti nel rapido movimento delle onde. Sue le parole: "Tra giallo cedro dal profumo rovente – oro di canti e sempreverde di mare, rossi frutti, acqua dolce d'argento e uccelli a gioire per la bellezza del volo l'eroe malinconico cercava, in sogno perpetuo, la partenza da quella spiaggia grigiopianto".  Queste visioni sono riportate in una carta realizzata dai maestri di Fabriano, utilizzando materie variegate già di per sé ricche di colore e quindi di identità. È certamente questo l'intento dell'artista: essere padre con l'intelletto dei contenuti e madre della materia che via via prende forma. Non dunque solo lo sguardo si posa su quella superficie evocando immagini o percezioni, o ancor ispirazioni dalle parole e dai suoni della poesia di Shakespeare (e fors'anche dalle stesse poesie di Filieri) ma un richiamo a quell'idea di tattilità tante volte evocata dagli artisti. Le carte che Filieri realizza sono distinguibili da particolari caratteristiche come la ruvidezza della superficie come emanazione di un autonomo apparire nel suo naturale essere, o ancora la trasparenza che rende ancor più affascinante le sovrapposizioni cromatiche e velature di luce. E in altre composizioni appare la cera a levigare quella superficie a far scivolare il raggio luminoso, fino a creare illusorie profondità o immateriali orizzonti similmente a quelli poco appariscenti della pittura veneziana del tardo quattrocento o nei cieli del vedutismo di Guardi. E credo che, in questa similitudine tra il colore dell'emozione e quello della percezione, ruoti la ricerca di Filieri. Certo non dimenticando che la carta, similmente all'acqua della tempesta di Shakespeare, raccoglie e scioglie in sé la mutevolezza del loro essere percepiti.

E sulla carta Sonego interviene con i suoi segni; benché ripetuti e mai uguali a sé stessi. Inconfondibili, nel tempo e riprodotti su superfici diverse. Ma anche con tecniche diverse. A volte l'artista si avvale del pennello perché intende esprimere la libertà del movimento, dando origine a un dialogo tra tempo e spazio. Segni carichi di colori che, dopo pochi centimetri e all'esaurirsi del gesto, sfumano lasciando solamente una lieve e minima taccia dialogante con la superficie, mentre le intensità tratto/cromatiche si esauriscono nel divenire della pittura. Tela e carta per Sonego, non sono la stessa cosa, pennello e spray ancor di più distinguono una inconfondibile differenza. La continuità dello spray, contrariamente alla pennellata, nega la temporalità del gesto, poiché distribuisce il colore con uniformità, come a trasformare il gesto in un atto del presente privo di un inizio e di una fine. Eppure ciò che sensibilmente ascoltiamo nelle opere di Sonego è l'energia del colore e della luce che dialoga con il supporto. Le stesse lucentezze cromatiche si alternano sulle campiture lucide della carta cerata. I segni scivolano creando lampi di colore alternate da figure di rettangoli che si intersecano, si sormontano accanto ad altre luminescenze provocate dal contrasto con lo sfondo nero del supporto cartaceo. Come dal buio lame di luce che appaiono a trasformare le illusorie profondità di uno spazio infinito quasi a imitazione delle rinnovabili quanto infinite increspature spugnose e lattiginose delle creste dell'onde. Così i colori, ponendosi in primo piano creano quell'atmosfera scura ovattata e turbolenta più volte declamata nei versi shakespeariani. E tutto questo in quella calma e serenità che da sempre caratterizza l'operare di Sonego. Sempre più il rapporto dialettico tra composizione formale e scomposizione del segno elabora sinteticamente il suo procedere artistico. In poche pitture troviamo assieme le caratteristiche tipologie compositive di Sonego. Ma non si tratta di una somma di forme, quanto una dinamica del procedere creativo, nel quale si avverte quel filo rosso che da sempre sottolinea l'evoluzione compositivo/formale e il susseguirsi delle diverse sovrapposizioni cromatiche che accompagnano il definirsi delle forme pittorico/segniche di Sonego.

 

 

 

 

vai elenco

 


 

 

Nelio Sonego 1247, 2015 acrilico su tela

Nelio Sonego 1636, 2016 29,7x42 cm

Alfonso Filieri Incantesimi di prospero

Alfonso Filieri L’isola degli incantesimi

 

 

 

OTTAVIO PINARELLO

 

RITRATTI

 

Ci sono due opere di Ottavio Pinarello nella collezione della Fondazione Cini a Venezia. Entrambe ritraggono Paolo Barozzi, già amico e assistente personale di Peggy Guggenheim negli anni ‘60, diventato, successivamente, un noto gallerista e promotore d’arte tra Venezia e Milano. Protagonista nella realtà artistica italiana ha esposto alcuni artisti poi divenuti importanti nel panorama internazionale della storia dell’arte contemporanea (da Rotella a Vedova, da Parmeggiani a Dorazio...) e, grazie alla collaborazione con Leo Castelli, è stato uno dei primi a proporre in Italia gli americani della PopArt, come Jasper Johns, Dennis Hoppenheim, Lichtenstein, Rauschenberg, Andy Warhol, e molti altri.

Significativa dunque la collaborazione tra l’artista padovano e il noto gallerista e studioso d’arte, culminata con la biografia dello stesso scritta da Pinarello con il titolo: Paolo Barozzi: una passione per l’arte. Interessantissima la prefazione di Gillo Dorfles.

Questo lavoro comune apre a Pinarello una nuova visione dell’arte, provocando in lui un interesse critico e storico verso l’arte come linguaggio. Ciò però non condiziona il suo fare, ma lo predispone verso un atteggiamento più riflessivo nei contenuti e più attento all’aspetto concettuale, alla significanza e alla percezione. Come del resto anche il suo approccio con il linguaggio dell’arte gli permette di coniugare le esperienze avanguardistiche degli anni sessanta con la sua recente produzione. E non si tratta però di uno sconvolgimento del suo modo di fare arte, ma piuttosto, di una diversa attenzione e valutazione critica dell’identità delle figure/profilo che hanno contraddistinto la sua ricerca fotografico/pittorica.

Pur non abbandonando mai l’aspetto concettuale espresso nei profili stilizzati del volto umano calato in sfondi tra l’astratto e l’informale, ha voluto dar significanza all’aspetto psicologico, palpabile nelle figure/ritratto che realizza. E poiché non si può dare psicologia senza identità, il suo recente operare guarda più all’ambiguità della persona umana. Mescolando l’illusoria realtà della fotografia e l’apparente fantasia della pittura, l’artista crea un’alternanza di ruoli nei quali l’identità del personaggio si manifesta al di fuori di ogni individualismo personalistico, o addirittura di intimismo significativo. Per questo sarebbe riduttivo relegare (nonostante una certa evidenza) l’opera di Pinarello all’interno di una ritrattistica fotografica, poiché ciò che alimenta la curiosità dell’artista non è il personaggio ma la ricerca di una qualsiasi forma di espressione individuabile tra le possibili manifestazioni umane. Ciò che interessa Pinarello non è dunque la tristezza del soggetto quanto la tristezza in sé, non è lo sguardo di tizio, quanto l’intensità degli sguardi possibili. Non è l’identità psicologica dunque del singolo personaggio ritratto, quanto le manifestazioni umane nel loro essere comunque universali. Credo che per comprendere a fondo uno degli aspetti del suo percorso artistico si debba dunque guardare un po’ anche al passato, magari scrutando (forse con superficialità) i personaggi di Antonello da Messina. Similmente (poiché non ci possono essere paragoni possibili) l’artista intende prendere in esame il volto nelle sue diverse sfaccettature, negli sguardi, nei profili, nei sorrisi, nelle tristezze, nelle allegrie come nelle malinconie. Il ritratto diventa dunque un pretesto non il soggetto.

Per ben comprendere questo suo guardare alle caratteristiche espressive dell’uomo, conforta la sua mostra Women Day del 2013, al Museo MD’N, quando l’artista propone dei “particolari ritratti utilizzando la sua specifica tecnica di commistione pittura-fotografia: il ritratto fotografico, trasferito su tela, con l’intervento pittorico di sfondo si carica di profondità e atmosfera peculiari, che portano il soggetto in una dimensione priva di riferimenti spaziali e temporali” ma introducendo il vero oggetto della raffigurazione: la ricerca psicologica delle espressioni umane, attraverso le quali maturano i comportamenti singolari che aprono a dialoghi analogici, in cui uomini e donne esternano il loro atteggiamento nei confronti della realtà.

Lontano da ogni genere realista o da rappresentazioni fine a sé stesse, Pinarello esprimere un momento percettivo (che è poi quello che appartiene all’artista), in cui ogni individuo condivide l’esistenza con gli altri. E sebbene le “pose” possano identificare i suoi lavori con la ritrattistica, egli invece conserva quel suo atteggiamento di costruzione concettuale, attraverso la quale si stacca da un rapporto immediato con il soggetto, per rientrare in una ricerca ti tipo ontologico che riguarda l’uomo. Se un tempo i suoi lavori erano concentrati nella figura dell’imbavagliato (divenuto simbolo di una manifestazione politica che ne ha raccolto il tal modo l’universalità del messaggio), in queste sue nuove opere guarda invece all’aspetto correlativo del personaggio, col quale ogni uomo può riconoscersi nelle emozioni altrui (proprio come nei beffardi sorrisi dei personaggi di Antonello).

 

 

 

vai elenco


 

 

 

 

 

 

 

 

Ottavio Pinarello, Paolo Barozzi, Ritratto 2, 2014

cm 50x50 - Collezione Fondazione Cini (Venezia)

Scatto fotografico  dell’autore impresso su tela, con successivo intervento pittorico  di sfondo

 

 

Ottavio Pinarello, Diego A. Collovini cm 50x50, 2016

Scatto fotografico  dell’autore impresso su tela, con successivo intervento pittorico di sfondo