Bimensile di Informazione e critica d'arte

 

2010

 

Cecchini, Ciussi, Colò, Candeloro, Costantini, De Luca, Dadamaino, Golberg, Gamba, Giacobbe, Licata, Patelli, Pope, Sonego, E del Bianco e del Rosso

 

 
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novembre - dicembre 2010

 

 

 

Luca Giacobbe

Galleria Scoglio di Quarto, Milano

 

"Partito da una pittura di memoria espressionista legata alla centralità della figura come nucleo di germinazione del segno, Giacobbe ha assottigliato questo riferimento fino a concepire la superficie come spazio risonanze cromatiche della forma." Queste riflessioni – che Claudio Cerritelli ha espresso ancora nel 2000, riguardo a una personale di Luca Giacobbe riportata anche nella recente monografia dallo stesso curata – si propongono come incipit per comprendere la pittura dell'artista fiorentino.

Certamente non ci sembra essere una pittura semplice, pulita o ancora indirizzata alla definizione di una forma che in qualche modo possa essere considerata un aspetto identificativo dell'artista. Per questo Giorgio Bonomi ebbe modo di esprimersi con queste parole: "Il colore pur abbarbicato con spessore e matericità alla tela stimola con la sua discrezione una sensazione di non definitezza, di indeterminatezza, come la vita . […] è qualche cosa di più di un fondale, è la costruzione di uno spazio[…] con linee che entrano e/o escono senza che se ne sappia la destinazione".

Di fronte ad una qualsiasi riflessione personalizzante la pittura di Giacobbe, conviene non considerare la pittura in generale come una mera e isolata azione del fare. Ciò relegherebbe l'atto artistico a un momento esclusivamente liberatorio, dove il gesto, la materia, l’intensità dell’atto, lo spessore del colore ecc. si trovano ad essere elementi rappresentativi di un’emotività o di uno stato esistenziale complesso. Ma, e se questo lo riferiamo con esclusività alla pittura di Giacobbe, ci pare, ancora meno sostenibile ogni lettura che tenda a consolidare un'idea di una pittura nella quale prevalga l’aspetto progettuale e quello razionale. In questo modo si dà alla pittura, nella sua più ampia accezione di pittura aniconica, l'ingrato compito di diventare un atto sconfinante nel concettualismo, dando così maggior importanza al substrato teorico e relegando la pittura a un puro esercizio di affinamento del linguaggio.

Per Giacobbe la pittura appare essere una sorta di comunione di segni che trovano identità nel gesto immediato, nella materia, nel colore grasso come lo è quello a olio, o ancora nelle pennellate interrotte, o durevoli quanto il colore che sopportano comunque, intense e determinate tanto da lasciare in trasparenza quel campo pittorico che fa da substrato e da elemento cromatico portante. Nelle opere di Giacobbe prevale, come elemento determinate, un'idea di forma che non origina da un gioco di linee prospettiche o ancora da elementi chiaroscurali capaci di dare volume e spessore alle forme.

Giacobbe, prima di pittore si diploma scultore presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze e questa ci pare una ragione per la quale nelle sue opere si legge la presenza di una forma alla continua ricerca di una sua specifica voluminosità, e che l'artista tende a realizzare non mediante una composizione prospettica, ma attraverso una sovrapposizione materica e cromatica. Le forme che l'artista fiorentino ci propone evidenziano l'identità materica di una scultura. Sono, infatti, forme che risentono di una propria autonomia poiché richiamano la presenza di uno spessore mediante la matericità del colore; un'azione dunque che induce il pensiero a individuare nell'irregolarità perimetrale, negli illusori fori, nei lati frastagliati, tutto ciò che può farci pensare e immaginare materie altre dalla pittura come il ferro, il legno, il cartone, ecc.

Ciò che caratterizza l'opera di Giacobbe è dunque aver proposto una sintesi tra i due linguaggi, se da un lato la pittura non ci sembra essere un'esclusività del suo fare, dall'altro la forma proprio per questa sua origine tridimensionale non sempre ci appare integrata o conseguente l'atto pittorico; anzi il suo essere eseguita sopra una superficie già dipinta (a volte con il colore di fondo non completamente asciutto), ci induce a pensare che il dialogo avviene tra l'azione pittorica e l'idea di una forma tridimensionale solamente teorica. E la sintesi che ci propone apre nuovi scenari e indica nuove letture e interpretazioni del suo lavoro, fino a mettere in evidenza "il processo permutativo tra un colore e l'altro. […] esso indica l'azione tra i colori stessi, considerati come strumenti di connubio […] scambio d'intensità che presuppone una coincidenza di fondo dei loro piani di riferimento, il sopra e il sotto, i margini e il centro, la fissicità frontale e il leggero squilibrio dei segni." Cerritelli 2010.

 

 

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Novembre dicembre 2010

 

 

Michele De Luca

 

altre realtà

 

Altre Realtà: opera poetica di Michele De Luca (QUASAR editore, 2008) che raccoglie un corposo numero di poesie dal 1982 al 2007 ed è accompagnata da dodici disegni dell'autore. La raccolta è introdotta da una dotta riflessione letteraria di Stefano Giovanardi.

Il libro è anche un pretesto per parlare degli innumerevoli impegni espositivi dell'artista ligure-romano e per indagare, seppure in modo superficiale, la sua forma espressiva principale: la pittura. Le poesie, per certi versi, si configurano come guida del suo fare e del suo concepire l'arte soprattutto nella complessità dei linguaggi che la costituiscono.

In questa stagione De Luca è presente in diverse iniziative culturali. Lo troviamo, infatti, alla rassegna Notti al Castello e dintorni, a La Spezia e a Bosa (Oristano) in Sardegna alla settima edizione di BOS’ART 2010. È stato invitato, con una mostra personale, al Museo Casa De Riu, Centro Studi Lucio Colletti, intitolato al filosofo e pensatore italiano: qui si tiene il Festival multimediale di filosofia, scienza, letteratura, arte, musica, teatro e cinema. L'invito ci sembra un valido riconoscimento a un artista che si avvale del lirismo della parola e della liricità del segno, del colore e della luce.

"L’artista ligure Michele De Luca, dagli ultimi anni ’80 si è affermato, operando a Roma, fra le forze più autentiche della nuova generazione artistica italiana, impegnato in una dimensione propositiva caratterizzata da una straordinaria densità di motivazione esistenziale" con queste parole E. Crispolti accompagna Ordine delle apparenze titolo della sua esposizione in Sardegna. Infatti, nelle sue opere si alternano spazi umbratili dai quali fuoriescono sprazzi di luce, momenti che ci sembrano determinare uno spazio pittorico etereo, elaborato mediante fugaci quanto decise pennellate di colore che, gradualmente, danno consistenza e matericità sia al colore che a quell'immaginario, quanto irreale, spazio prospettico. Ed è l'illusorietà dello spazio dipinto che porta lo spettatore a perdersi nell'infinito della luce e della finzione percettiva. La luce sprigionata dalla composizione pittorica si trasforma gradualmente in una progressiva dissolvenza che si offre allo spettatore come un'illusoria spazialità che induce il pensiero a individuare, proprio in quella fittizia profondità, un immaginario infinito.

Le sue forme si mostrano come l'espressione di un fuoco interiore che, attraverso un segno chiaro, preciso, energico, si manifesta sulla superficie come a oltrepassare lo stato potenziale per materializzarsi in quello del fare. E questo suo essere un'espressività di un atto pittorico lo induce a proporre una visione delle opere estranea ad altre significanze o ad alternative letture; e fa in modo che l'opera si mostri come cosa in sé, come già ha sottolineato A. Imponente che a riguardo scrive: "Alla fenomenologia del puro evento fisico, di un happening di soli oggetti da contemplare, icone di una cultura tecnologica, si contrappone, nelle opere di Michele De Luca, un imprescindibile legame con la gestualità e manualità tradizionale del fare arte e una tensione emotiva dell’autore percepibile come intuizione di trascendenza."

Dunque un fare che non appare disinteressato alla composizione poetica come rileva bene Giovanardi nella prefazione del libro: "la poesia di De Luca può essere letta come una poetica esplicita della sua pittura" lettura che per altro lo stesso De Luca riafferma in una sua poesia: "spazio su spazio/ luce su luce/ fibra che irrompe/nel giardino dilatato."

Una focalizzazione sul fare pittura e sull'espressività della luce. Pittura e luce caratterizzano l'atto pittorico dell'artista presente anche a San Nicola ad Anacapri con la mostra Insula lucis. Crispolti, che ha curato l'evento nell’ambito del Premio Oriente 2010, sottolinea: "Così che in effetti i nuovi suoi dipinti si propongono come delle porte, delle soglie di luce, quasi delle finestre sulla luce, nell’induzione emotivo-immaginativa appunto a un confronto cosmico, emblematicamente rivelatorio (coscienziale?). Eventi entro i quali si manifesta, di volta in volta diversamente, la presenza di forme in evanescenza, di apparizioni di probabilità strutturale spaziale, emergenti dunque da una specie di impercettibilità nebulosa."

 

 

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Novembre dicembre 2010

 

 

 

Paolo Patelli

Galleria PLURIMA, Udine

 

La storica galleria Plurima di Valentino Turchetto ha ospitato gli ultimi lavori di Paolo Patelli. Per l'artista si tratta di un appuntamento ormai fisso. Infatti, questo positivo rapporto è iniziato ancora quando questa aveva sede in vicolo Pulisi dove è transitato tutto il percorso creativo dell'artista veneziano. Un percorso pittorico ricco di analisi e di riflessione sulla pittura, iniziato negli anni sessanta e che lo ha visto invitato nel 1973, a quella significativa mostra Fare Pittura, curata da Vittorio Fagone presso il museo Civico di Bassano del Grappa assieme a Battaglia, Griffa, Guarneri, Matino, Olivieri, Vago e Verna.

Due lauree in materie scientifiche e una formazione culturale di tipo anglo sassone. Una profonda amicizia con il pittore americano Michael Goldberg (allievo di Hans Hofmann) e attraverso il quale, e in diverse fasi, ha potuto confrontarsi con la ricerca astratto-espressionista sviluppata dalla scuola di New York a partire dal secondo dopoguerra. (Patelli e del '34)

In Italia ha vissuto le esperienze più significative della pittura analitica, ovvero di quella concezione estetica che intendeva lasciare all'atto pittorico e al fare pittura il ruolo di protagonista. Nulla deve interferire nell'opera se non la pittura in quanto tale. Non riferimenti alla realtà materiale, né simbologie, né immagini o forme che in qualche modo possano rimandare alla raffigurazione della realtà. Una fare dunque che si sviluppa nella riflessione sugli elementi linguistici che compongono il linguaggio della pittura, come il colore, la superficie, la materia, il segno, il gesto, ecc.

Le opere di Patelli si esplicano in spazi pittorici diversamente strutturati e conformati con improvvise aperture; opere collocate a parete, altre disposte orizzontalmente a pavimento. Come per altro differente ci appare l'approccio col fare pittura. Infatti, se da un lato Patelli predilige dipingere su una superficie orizzontale mediante la quale riafferma il suo più intenso rapporto materico con il colore, lasciando a questo la libertà di spandersi sul piano, dall'altra la posizione verticale induce a un rapporto più mediato e controllato con il colore, ma più attento ad accogliere l'ampiezza dell'azione pittorica per dare, nel rapporto uno a uno, maggior ritmicità al segno. Una serie di azioni pittoriche immediatamente percepibili come caotiche e istantanee perché dettate da una libera e spontanea gestualità creativa e che, pur preferendo l'impulsività manuale del fare, spesso sono l'espressione velata di una razionale ricerca di equilibri compositivi, di bilanciamenti cromatici e di ritmi gestuali. È la registrazione di un atto puramente pittorico, quasi liberatorio, a volte mediato dagli strumenti della pittura (come il pennello o la spatola) o direttamente determinate dall'estensione e dalla pressione che la mano libera esercita a contatto con il piano, con i colori e con la materia. Elementi linguistici questi che gradualmente definiscono la superficie quale luogo della pittura.

Ne esce la vera immagine del fare pittura di Patelli: una ricerca, mai sopita, verso una liricità cromatica nella quale il movimento e la pausa gestuale si alternano e dove il gesto e la matericità del colore determinano trasparenze e sovrapposizioni mediante le quali la luce – che poi appare essere il vero obiettivo della ricerca dell'artista – si manifesta con vibrazioni diversificate e modificazioni cromatiche. In un piano pittorico nel quale la certezza dell'effetto creativo non si manifesta sempre nella stessa direzione; anzi ci sembra che il fare di Patelli possa maggiormente intensificare la fase della percezione e della lettura degli spazi cromatici che mai inducono a una sorta di autocelebrazione, né definiscono una pittura caratterizzata dalla certezza dell'effetto.

Per le opere di Patelli si può parlare di gusto pittorico e anche di eleganza gestuale. Termini questi che ci potrebbero indurre a una lettura esclusivamente di tipo estetico (cosa che sarebbe del tutto riduttiva quando si parla delle opere dell'artista veneziano), ma che, nel complesso delle sue composizioni, contribuiscono a dare una giusta dimensione dell'aspetto esteriore del comporre, del fare cioè materialmente pittura.

La solarità di alcuni colori, la cupezza di altri, l'accostamento di segni opachi con altri che irradiano quasi autonomamente la luce, la presenza (se non la prevalenza) di colori freddi che dialogano con ampie campiture bianche (altre volte invece immersi in intensi gialli e rossi) creano un senso di attesa, di sospensione, anche di ansia, che pian piano conducono lo spettatore a indagare l'opera. Questa proposta di lettura porta a inebriarsi delle mutazioni cromatiche e del vortice della luce che ri-disegna l'andamento compositivo offrendo così sempre nuove riflessioni e originali intuizioni interpretative.

 

 

 

 

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patelli 

 

 

 

Settembre ottobre 2010

 

 

 

Michael Goldberg

 

Galleria Plurima – Udine

 

 Michael Goldberg paracadutista dell'esercito americano nel 1944. Scese dal cielo e con lui, assieme al boogie boogie, alle Lucky Strike e alle stecche di cioccolato, le prime esperienze dell'espressionismo astratto. Fu allievo di Hans Hoffmann il quale, assieme a Pollock, Motherwell, Rothko, de Kooning e a Kline, formò un solido gruppo cui Goldberg fece riferimento. Quell'importante espressione dell'arte americana che, pur non avendo i consensi della critica in patria, seppe suscitare una seria attenzione in Europa. I giovani artisti dettero vita alla cosiddetta New York School; lavoravano, vivevano ed esponevano assieme come un vero movimento artistico. All’interno di questa realtà Goldberg trovò una sua precisa collocazione, anche se la sua attività artistica superò le esperienze dell’espressionismo astratto vissute in giovinezza in quella realtà americana che, in qualche modo, seppe approfondire e dare specificità estetica alle esperienze europee e ad alcuni artisti che dal 1933 (con le prime leggi razziali in Germania) scelsero gli Usa come nuova residenza.

Durante il suo servizio militare italiano raccolse le forti emozioni della pittura senese, tanto che negli anni seguenti alternava lunghi soggiorni nella piccola località di Spannocchia, vicino a Siena, con altrettanti a New York dove lavorava nello studio del Bowery, che fu di Rothko.

Queste personali esperienze trasformarono la sua pittura in una ricerca nella propria memoria, del suo essere artista in costante confronto con il passato. È così che intese raccogliere nella memoria collettiva, l'intimità più riservata dello spettatore, perché Goldberg intendeva "scrutare lo spettatore" e "tirar fuori il suo subconscio”. Il suo gesto pittorico perciò diventò particolarmente impulsivo, e, nello stesso tempo, creatore soprattutto quando sfiorava l'interpretazione di una particolarità cromatica o di un'atmosfera fisica o climatica, alla ricerca del tessuto coloristico di un certo ambiente. Le sue opere si identificarono con il colore, ricco solo di se stesso, librato sulla superficie attraverso intense pennellate, quelle stesse che hanno caratterizzato il periodo degli anni sessanta, quando le sue opere erano distanti da ogni allusione di tipo paesaggistico e perciò maggiormente sorrette ed esaltate dalla potenza del gesto. Un momento espressivo che Walter Guadagnini volle avvicinare alla forza cromatica di un De Kooning.

Un'attenzione alla pittura italiana Goldberg la riservò al ciclo che, negli anni ottanta novanta, dedicò al Beccafumi. In questo percorso creativo seppe dirigere la sua matrice squisitamente americana verso un cromatismo più soffice e più scuro, utilizzando materie dense e forti stese con un gesto preciso, sicuro e determinato che disegna un movimento circolatorio spesso interrotto da bande cromatiche orizzontali che tanto ricordano muri del duomo di Siena, ricreando così quel cromatismo chiaroscurale, fatto di lampi rossi, gialli, celesti, marroni e verdi come le colline senesi.

  Una necessaria operazione di analisi a ritroso che Goldberg già sottolineò in un’intervista rilasciata a Lucio Pozzi nel 1987 dove infatti si legge “uno si sente sempre più sospinto indietro verso la storia, verso cioè gli interi mille anni del mondo visuale occidentale europeo”. È una lettura nella quale si mescolano diverse realtà particolari, come le semplici percezioni, che comunque concorrono a definire l'esperienza pittorica come un’interpretazione della personale sensibilità al colore e delle caratteristiche tattili di una gestualità a volte rabbiosa, come un sogno irrequieto, sempre però in sintonia e in stretto contatto con una razionale costruzione di un'espressione comunque limitata alla singola opera, perché, come ci lasciò scritto: "si è tentati di credere che la pittura possa parlare di assoluti. Ma ho seri dubbi. Solo aspetti, frammenti o, meglio ancora, brevi bagliori di questi assoluti."

Goldberg ha smesso di dipingere alla fine di dicembre del 2007 ed era nato nello stesso mese del 1924.

 

 

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Settembre ottobre 2010

 

 

Vincenzo Cecchini

 

ovvero delle affinità elettive in pittura

 

 "Io mi lascio andare nella pittura, perché dipingere è sempre così vago. Anche la co­struzione di un quadro dipende da tanti fattori: dalla struttura dal materiale, dal colore ecc."

La prima riflessione, a guardare gli ultimi quasi monocromi di Cecchini, si sofferma sul termine vago – che lo stesso artista usa – di leopardiana memoria. Vaghe stelle dell'Orsa. Un'ida di pittura che, pur nella certezza del suo esistere (possono essere vaghe le stelle che guidano il navigante?), si mostra appunto eterea, ma anche bella, indefinita e desiderabile come lo è l'idea di vaghezza in Leopardi.

Dunque una pittura che trae origine dal lungo processo del fare e del pensare che Cecchini manifesta con una personale intensità espressiva sia attraverso un progressivo processo evolutivo sia quale momento ludico, piacevole ma non estraneo a un'impostazione razionale e programmata. Una pittura che si esplica attraverso un gesto formalmente contenuto, che si pone come finalità il raccogliere e materializzare la musicalità del colore e il ritmo del movimento all'interno di un apparente ed illusorio monocromatismo vibrante dalle molteplici velature.

Però in Cecchini non esiste un'idea di pittura estranea all'azione, al contatto diretto con lo spazio pittorico e con quel movimento in divenire che cadenza l'intensità materica del colore. Del resto è lui stesso a dire che "la mia fisicità e la fisicità del mate­riale devono proprio conoscersi. Io devo conoscere la materia e lei deve conoscere me. Io non faccio della pittura se mi sento limitato o se il materiale violenta me".

Vincenzo Cecchini è pittore, artista e giocatore accorto, è un buon co­noscitore del mondo dell'arte e sa an­che che l’arte non appartiene solo a chi la fa. Sa che l'arte è comunicazione e che la pittura non ha limiti prestabiliti. L’orizzonte dell’arte, la cui dimensione è variabile, ci offre un panorama vario e sempre più impreciso, sempre più complesso perché anche la pittura è sempre in divenire: in essa nulla è statico nulla è definitivo. Non è possibile replicare due volte lo stesso progetto, soprattutto per chi ritiene che pitturare sia un'espressione intima dettata da personali visioni della luce, della vibrazione della materia e della variabilità del segno. Per queste ragioni i suoi quasi monocromi non sono ascrivibili ad azioni di cancellazione, né essere considerati come ri­pensamenti di un agire, meno ancora sono la riproposizione del grado zero della pittura, il grado dal quale tutto è possibile.

Cecchini opera su uno spazio bidimensionale sul quale va approfondendo i temi sull'essenza della luce, attraverso una medi­tazione artistica ancora ricca di componenti umane, a volte malinconiche altre gioiose, ma comunque nascenti da un rapporto gelosamente personale e diretto con il colore e con una materia che disegna il movimento cromatico e dinamico, esprimendo così una sua personalità artistica sempre in continua evolu­zione. Le sue riflessioni esprimono la necessità che si apra un'intesa tra le opere stesse, che pensiero e fare possano creare quelle condizioni perché il dialogo avvenga fra le diverse coppie linguistiche che compongono il suo fare.

La sua espressività non appare estranea a un personale linguaggio che gli permette di dare vita, all'interno di uno spazio pittorico sempre vivace e apparentemente contenuto, a originali modulazioni sonore della luce e a dinamicità del segno mediante un colore chiaro, etereo. L'abilità è dunque trasformare il colore in un suono interiore attraverso il ritmo che il gesto pittorico, quale descrizione intima, gli consente. Ne viene così a definire gli estremi temporali e dialettici di un dialogo tra luce, colore, spazio e materia, alla ricerca di quelle Affinità Elettive, che, secondo la legge di Bergman, esistono in natura e che permettono a due elementi, fino allora congiunti, di dissociarsi per poi congiungersi ad altri due, formando altre due coppie per reciproca attrazione.

Certo nella personalità dell'artista appare predominante l'impulsività di un fare impaziente, desideroso di cogliere l’attimo, l'immediatezza, un atto quasi frenato da un atteggiamento riflessivo e attento alle conseguenze che il suo fare pittura potrà determinare nell'aspetto fenomenologico dell'opera stessa. Le sue pitture ci propongono così una lettura che separa l'i­dea di superficie, in quanto substrato, dal piano colorato, palcoscenico percettivo appartenente all'effetto visivo della luce; risultato determinato dalle molteplici vibrazioni cromatiche ottenute attraverso ponderate velature che il colore a olio, proprio per la sua fisicità, rende meno trasparente ma nel contempo in grado di dare spessore cromatico. Non si assiste a una separazione netta dei due elementi, superficie e colore, quanto a un'ulteriore operazione di riflessione sull'impossibilità, da parte del colore, di assumere completamente la consistenza di un vero e proprio corpo cromatico, di essere cioè elemento solitario in grado di proporsi autonomamente per dare maggior consistenza alla portata emotiva e coinvolgente del dialogo colore-luce.

Queste nuove esperienze possono essere considerate – alla luce dell’intero percorso artistico del pittore - come la continuazione di una ponderata, quanto sperimentale ricerca sul corpo e sulla materia e privilegiando ogni costruzione nella quale il colore assume identità espressiva indipendentemente da ogni altro elemento col quale va a dialogare.

 

 

 

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Maggio -Giugno 2010

 

Alessandro Gamba

 

Galleria Liba - Pontedera

 

 

 Più volte un concetto espresso da Wittgenstein, secondo il quale le immagini non sono una copia di un fatto, ma sono esse stesse un fatto, è stato citato sia per quanto riguarda alcune riflessioni sulla pittura aniconica, sia – e in modo più dettagliato – per le opere di Alessandro Gamba (lo ha fatto Accame).  E credo questo per evidenziare e sottolineare ulteriormente l'aspetto fenomenologico dell'opera dell'artista, in quanto ciò che lo stesso pittore ci mostra altro non può che essere il suo fare pittura. Sarebbe quindi improduttivo cercare un significato altro da ciò che si manifesta al nostro sguardo. E questa nostra affermazione ci appare confortata anche dalle parole di Crispolti che sottolinea come "Gamba lavora su una codificazione fluida di segni, direi quasi privi di materia pittorica, o quantomeno di rilevanza materica: operando da una quindicina di anni in regime fondamentalmente di monocromia. La codificazione per Gamba risulta chiaramente di parametro psicologico, proprio in ragione della capacità del segno di simbolizzare stati di memoria forse più o almeno prima collettiva che individuale del segno che si costituisce per movenze d’analogia immaginativa, non senza un'originaria ascendenza in codificazioni povere d'una cultura agraria, di memoria antropologica". Infatti, il suo linguaggio espressivo si mostra caratterizzato da due momenti cronologicamente determinati: il segno–linea e la superficie. Una linea che va a dare consistenza a una forma nella quale elementi verticali dialogano con altri che sinuosamente circoscrivono l'immagine nella sua completezza. Non si tratta certo di una linea definita e ben caratterizzata, ma di una linea che si palesa in diversi modi. Alcune volte è in trasparenza, altre, invece, come un deciso inserimento a posteriori su uno spazio appositamente lasciato libero da una minuziosa pittura che si distende in ampie campiture. L'artista propone così un ambiguo percorso riflessivo, ampio, sinuoso ma comunque imprevedibile, che va a posarsi sopra un lirico e vago movimento pittorico squisitamente monocromatico. È un dualismo che vive nella dinamica unione di due forme espressive non sempre in sintonia e che, alternandosi, rimandano a una diversa lettura dell'opera. Ed è su questi presupposti che la fase percettiva contribuisce definitivamente alla definizione della superficie, sulla quale il colore, nelle varie e molteplici sequenze, delimita gli intervalli di un’alternanza di tenui cromatismi e di veloci punti di luce. Si completa così quel percorso del fare, nel quale emerge la personalità dell’artista.

In questa pittura fatta di ritmi, di sospensioni e di tenui attese Gamba immedesima la propria esistenza; in un fare pittura dove la gestualità, seppur indirizzata e accompagnata anche nelle direzioni più ampie e articolate del gesto, ricerca una propria dimensione nei frenetici segni, nelle frastagliate direzioni, nelle lievi gradienze cromatiche della superficie. Scaturiscono così le innumerevoli potenzialità espressivo-percettivo, che sono proprie del colore, della sua lucentezza o dell’opacità, o ancora della sua trasparenza.

Gamba viene così alternando delle variazioni cromatiche che danno maggior imprecisione e instabilità alla linea; nel contempo però questo suo fare rende ancora più intrigante la ricerca sulla superficie e sulla luce. Quell' incertezza percettiva che ne scaturisce non ci permette di soffermare le nostre osservazioni sul monocromo nel senso proprio del termine. Non si tratta, infatti, né di una negazione della pittura quale stato ultimo e definitivo del fare, né come di pura superficie. Per quanto riguarda Gamba dobbiamo rilevare che le sue superfici colorate sono ricche di trasparenze, di isolate apparizioni cromatiche e di altre tracce di colore che nelle varie stesure si vengono alternativamente a evidenziare. Per questo siamo propensi a pensare che l’azione del dipingere sia vissuta come un momento ludico, piacevole; un gesto che parte dall’interno, con l’intenzione di raccogliere e materializzare la musicalità del colore e il ritmo del movimento; ma quel che rimane è un continuo dialogo tra il segno in divenire alla ricerca di un effetto ultimo.

 

 

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Maggio -Giugno 2010

 

Nelio Sonego

 

Velan centro d'arte contemporanea - Torino

 

Si è appena conclusa, con il patrocinio della Regione Piemonte, una mostra personale di Nelio Sonego presso lo spazio Velan di Torino.

Rettangolareverticale è il titolo che l'artista ha voluto dare a questa sua ultima esposizione che rappresenta una sorta di sintesi del lavoro svolto tra il 2003 e il 2005. Come sempre si tratta di un titolo che accompagna il suo percorso creativo e contemporaneamente diventa anche momento esplicativo del suo lavoro. Infatti, molte delle sue opere sono scandite cronologicamente da intitolazioni del tipo: arcoangoli, tromboloidedisquarciato, orizzontaleverticale ecc.; sono degli ossimori, degli anacoluti, accumulazioni, delle figure retoriche insomma.

Ma questi titoli non ci danno la chiave di lettura, se non un'ulteriore indicazione che sottolinea l’impianto compositivo della pittura, rigorosamente astratta, che Sonego persegue fin dai suoi primordi, quando, ancora studente all'Accademia di Belle Arti di Venezia, seguiva gli insegnamenti del suo maestro, Vedova, che, mostrando e riflettendo sulla Conversione di Saulo di Caravaggio, esplorava la forza del segno, l'intensità della luce e l’effetto del colore.

E sono proprio il segno, la luce e il colore, che caratterizzano la ricerca pittorica dell'artista. Una lunga esplorazione che inizia negli anni settanta quando con linee sottili e acromatiche delimitava geometricamente la superficie, creando così degli spazi diversi – forse anche imprecisi – che dialogavano tra loro. Fu la volta poi dei rettangoli illusoriamente sovrapposti tracciati con dei pastelli. A questi seguì una lunga riflessione sui triangoli colorati diversamente impaginati sulla carta. È certamente questo il periodo che maggiormente ha caratterizzato il lavoro dell'artista veneto, e non solamente per le immagini che il suo segno andava definendo, ma anche per i continui confronti dialettici con l'amico Mario Nigro.

La certezza di una ormai solida impaginazione gli permetterà di razionalizzare ulteriormente il suo lavoro e di privilegiare un esercizio pittorico col quale misura lo stretto rapporto esistente tra gesto, segno e colore. Elementi linguistici che gradualmente Sonego saprà poi far vivere in simbiosi sulla superficie. E proprio grazie a questa sua capacità di eliminare il primato dell'uno sull'altro che riuscirà a definire completamente la sua pittura e a determinare il suo essere pittore. Perché Sonego, sebbene il suo lavoro sia a volte limitato alla semplice azione di tracciare un rettangolo o parte di esso sulla superficie, è particolarmente attento alla presenza del colore (ma anche dell'essenzialità del bianco e del nero) e agli effetti che questo permette.

Significativo ci appare il confronto tra queste opere e il ciclo degli arcoangoli, quando tracciava dei segni sulla superficie che duravano quanto la presenza del colore nel pennello. E questo deve aver rappresentato un limite, se poi le scelte hanno privilegiato la bomboletta spray.

 Vi era la necessità di raccogliere il concetto dell'infinitezza del segno e che il segno non venisse casualmente interrotto. L'idea che sostiene l'operare di Sonego non può essere quella di una pittura chiusa e delimitata, ma espressione e reale testimonianza di un atto infinito, che solo momentaneamente si mostra e si rappresenta nell'immediato atto del suo farsi, del suo ripetersi, del suo sovrapporsi con luci e colori diversi. Rettangolareverticale è la posizione delle sue opere e la forma creata delle linee mediante un movimento di colori, di segni e di linee che potremmo ancora osservare - trasformate però in neon - nella prossima esposizione FIAT LUX sempre al Velan di Torino.

 

 

 

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Maggio -Giugno 2010

 

 

Carlo Ciussi

 

Castello di Pergine – Trento

 

La svolta di Carlo Ciussi come pittore avvenne nel 1964, quando venne invitato, su segnalazione di Afro, alla Biennale d'arte di Venezia. Per un pittore friulano, negli anni cinquanta, dipingere significava essere attento alla realtà, agli avvenimenti che accadevano intorno. E la figurazione doveva essere rigorosa, piena di significato e intensa come lo è la terra friulana. Una terra che sa dare ma sa anche togliere. Erano quegli gli anni del neorealismo, della supremazia della figura e dove erano predominanti le riflessioni sociali di Pierpaolo Pasolini, anima poetica di quelle genti e del loro carattere chiuso. Come quelle terre che si chiusero per il grande poeta di Casarsa, e a malapena rimanevano aperte per l'astrattista Afro che solo di sfuggita passava per la sua Udine. Quegli anni sessanta rappresentarono per Ciussi anche l'abbandono del figurativo e aprirono alla ricerca dell'arte astratto informale. Furono quelle le prime esperienze che portarono l'artista a confrontarsi con il colore, la materia, il gesto, la composizione geometrica e, sebbene non ancora percepibile, la progettualità.

Ed è proprio questo secondo aspetto che entra prepotentemente nel lavoro dell'artista friulano: la consapevolezza che le forme possono essere inventate e realizzate secondo un equilibrio che deriva da una personale impostazione delle forme stesse e da una concezione estetica derivante da un lungo percorso di riflessione sul proprio lavoro. Infatti, se dovessimo analizzare il lungo percorso della vita artistica di Ciussi, dovremmo soffermarci su temi specifici. Potremmo riflettere delle stesure cromatiche geometriche degli anni settanta, delle curve sinuose e sovra ponenti degli anni ottanta, dei vettori caotici ricchi di interventi informali sempre minimali nel loro realizzarsi che hanno contraddistinto gli anni novanta, come delle nuove geometrie dei primi anni del duemila. Come per altro potremmo rilevare l'alternarsi dell'ordine più assoluto (chiuso nella semplice bidimensionalità della superficie), come nelle stesure materiche del colore, come dell'agglomerarsi di cromatici segni sparsi sul piano pittorico. Sono esperienze che l'artista ha saputo elaborare nel corso della sua ricerca che mai è stata statica o ancorata a un solo obiettivo. L'artista ha invece indirizzato il suo fare alla ricerca di un linguaggio sempre mutevole e articolato ma mai in contraddizione con il suo passato artistico. Un linguaggio forse settoriale per il suo ripetersi fino all'esaurimento della sua più viva espressività, comunque sempre complesso ma mai espressione di una propria autoreferenzialità, anzi sempre come modulo espressivo in evoluzione. Tutti i cicli richiamano, progressivamente, se stessi in una più generale ottica di personale interpretazione delle forme sia in pittura che in scultura.

L'opportunità di leggere e di considerare quest'omogeneo percorso espressivo di Carlo Ciussi ci è data dalla mostra che si tiene al Castello di Pergine curata da Franco Battacchi e coadiuvata da una interessante pubblicazione con testi del curatore e del filosofo Massimo Donà.

È un'occasione per osservare i diversi periodi creativi di Ciussi in un ambiente complesso e di non facile allestimento, poiché il dialogo con le architetture dell'antico (più attente ad un atteggiamento di chiusura difensiva che alla realizzazione di spazi aperti che permettono una più idonea percezione dell'arte) non sempre trovano un'unità percettiva, però sono in grado di ampliare l'importanza espressiva di un'opera se questa ha effettivamente una portata estetica.

Il percorso artistico, che Carlo Ciussi ci offre in questa esposizione, tiene ben presente l'evoluzione e il mo­vimento nello spazio dei segni che riproponendo nuove tensioni, percorrono, con diverse direzioni, la superficie. Viene così definendo un'apparente caotica dinamicità che si impossessa dello spazio, ma che non pare limitarsi solamente a quello bidimensionale del quadro, anzi l'a­zione pittorica di Ciussi tende ad offrire una tensione che oltrepassa ogni limitazione per addentrarsi in una realtà più ampia e difficilmente definibile e limitabile. L'appa­rente scompiglio creato dai segni sulla superficie è, in effetti, il risultato della ricerca di un ordine che trae dalla geometria l'ispirazione e la primaria definizione per il prose­guimento del disegno compositivo iniziale e che lentamente, attraverso sovrapposizioni e scansi chiaroscurali, conduce all'opera finita.

E una più adeguata percezione viene data dalla presenza di un considerevole numero di sculture allestite nei punti più attraenti del parco e in costante confronto con l'architettura e il paesaggio circostante. E alcune sculture ci ricordano quelle presenti alla Biennale di Venezia del 1986  che si stagliavano sulle luccicanti e libere acque della laguna, mentre queste si confrontano con gli spazi chiusi delle montagne.

Le opere tridimensionali si propongono come una sintesi delle ricerca formale dell'artista, nella quale il senso del divenire e del definirsi del linguaggio espressivo si manifesta in una successione temporale nella quale sono le forme dal lui realizzate che scandiscono un'alternanza e una ritmicità formale. Ma vi è anche un'altra idea di tempo che cui Accame si riferisce e che "è invece il tempo nella sua qualità di senso originario dal quale derivano tutti gli altri sensi, un vissuto intenso che in Ciussi  diviene emozione e necessità di agire".

 

 

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marzo- aprile 2010

 

 

Sonia Costantini 

 

Armonie per accordo - Palazzo Te – Mantova

 

A Mantova il Centro Internazionale d'Arte e di Cultura di Palazzo Te, custode del famoso ciclo di affreschi di Giulio Romano e tempio del manierismo, ha organizzato una mostra personale di Sonia Costantini (per la curatela di Federico Sardella), aprendo così quegli spazi ricchi di tradizioni e di storia all'arte Contemporanea. Un nuovo atteggiamento che individua nella contemporaneità l'interesse per lo studio e la conoscenza dell'arte (ahimè in un periodo come questo, in cui dalle nostre scuole viene bandito lo studio della storia dell'arte, contravvenendo ancora una volta alla Costituzione, in particolare all'articolo 9 che vuole si tuteli "il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione", sì! ma con quali conoscenze?) e con la finalità di creare un positivo dialogo tra le diverse espressioni artistiche che calcano ora il palcoscenico della ricerca e della creatività di questi primi decenni del secolo e, cosa di non poco conto, a cent'anni dall'esperienza del Futurismo e delle prime avanguardie storiche.

Sonia Costantini, mantovana ma con tantissime esperienze sia in Italia che all'estero (in Germania principalmente), viene proponendo una personale ricerca e riflessione sulla pittura all'interno però di un processo espressivo e compositivo in costante evoluzione. Infatti, il percorso che l'artista ci ha fin qui proposto non può essere annoverato all'interno di uno stile o di un movimento ben definito, mentre il suo approccio alla pittura, il suo fare materialmente pittura, non può non essere inserito in quello più ampio del percorso aniconico che la pittura ha iniziato ancora nell'immediato dopoguerra, quando, usciti da un'arte di stato propagandistico, gli artisti hanno potuto interrogarsi sulla pittura in quanto tale, in quanto strumento espressivo di un proprio modo di esistere e di interpretare il mondo. Potremmo definire la pittura di Costantini come "rigorosa" perché guarda con attenzione alle sperimentazioni e alle problematiche che sono state evidenziate negli anni settanta dagli innumerevoli artisti che, in diversi modi ed esperienze, riconducono al filone della Pittura Analitica o Pittura Pittura. E la sua storia artistica l'ha vista più e più volte dialogare con quei pittori che sono stati protagonisti di quell'esperienza e di quel mondo che a lungo si è interrogato sul sistema pittura in Italia e in Europa.

Costantini, in questo suo ciclo di opere, riprende una serie di ragionamenti sul monocromo non certo prescindendo dalle altre esperienze che fin qui si sono sviluppate, ma proponendo una personalissima sintesi che si manifesta in una profonda riflessione sui presupposti e sui risultati oggettivi del "fare pittura". È vero che la definizione data alla Nuova Pittura da Menna (La linea analitica dell'arte moderna) mette dapprima in evidenza le componenti del fare pittura, come il telaio, la tela, il colore, la materia, ecc., ma poi propone anche una riflessione sul fare, sul procedere materialmente, sulla pratica. Un costante e continuo "esercizio della pittura" che va gradualmente evidenziando un'attenzione alle componenti che caratterizzano il processo pittorico, sia nel momento del fare attivamente pittura, come nell'entrare in contatto diretto con gli elementi che costituiscono la pittura, fino a mantenere un atteggiamento di controllo del processo in divenire dell'opera stessa.

Il confrontarsi prima con le esperienze passate e il "ragionare" sul proprio lavoro crea un organico accostamento con l'evoluzione della pittura proprio per le molte e comuni caratteristiche poetiche presenti in questo tipo di espressività. E se l'approccio alla pittura analitica appare essere principalmente intellettuale, il procedere nel percorso della sua realizzazione invece si manifesta principalmente sotto l'aspetto fisico. Infatti, se da un lato la pittura muove da un'idea, da un progetto pittorico, da una riflessione sul possibile risultato, dall'altro non esiste se non l'atto pittorico in sé, quel fare che, anche a discapito di ogni progettazione o idea, crea i presupposti finali dell'esistenza della pittura in quanto tale. E anche Costantini non fugge a questa regola. I suoi monocromi possono essere progettati, ma non possono anticipare gli effetti. L'esprimersi con un solo "colore" tende alla riduzione degli elementi linguistici (solo colore, materia che compongono la superficie) e questo porta all'azzeramento della pittura. Nello stesso tempo però, tramite il monocromo, l'artista viene proponendo l'assoluto del colore e della luce, e, in questa sua volontà di realizzare una pittura assoluta, evidenzia l'atteggiamento passionale del fare, ma contemporaneamente il suo stesso fare non può che essere razionale poiché è quello l'atto che guida il gesto – seppur minimo – e dà spessore alla materia – per quanto velata possa essere – per governare l'effetto del grado cromatico del monocromo stesso.

E questo perché "il colore dipinto è sostanza, è materia, è un corpo opaco; toccato dalla luce esso si trasforma e si dona alla nostra percezione quale pura vibrazione luminosa […] una luce di natura endogena, racchiusa dentro la pelle del dipinto. Sono parole di Sonia Costantini.

 

 

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gennaio febbraio 2010

 

 

 

 

Riccardo Licata

 

Una vita d'artista 

 

A cura di Michele Beraldo

 

Skira pubblica un interessante volume monografico su Riccardo Licata: Una vita d'artista, a cura di Michele Beraldo.

Un libro, che si legge tutto d'un fiato e si guarda con trasporto. Si guarda perché all'interno sono pubblicate una cinquantina di tavole del maestro, che ripercorrono la sua ampia e variegata produzione. Troviamo, infatti, opere degli anni cinquanta, quando il maestro, nato a Torino nel 1929, ha esordito nel 1951 a Venezia con una mostra alla Bevilacqua la Masa, fino ai giorni nostri. Una raccolta gradevole poiché mette in luce non solo il raffinarsi dei suoi segni e il consolidarsi della composizione come l'affermazione del suo personale ed individuale linguaggio espressivo. Sono anche messe in luce le diverse tecniche che ha usato – rimpiangendo più volte, nello scorrere del testo, la mancanza alla Biennale delle esposizioni che riguardano l'arte applicata – come il mosaico, il vetro, la scultura.

Ma a parer mio, ancor più significativa è la narrazione che Licata dona alla stampa del suo percorso artistico. Abbiamo di fronte ad un uomo – anche nel senso più ampio del termine – che narra la sua esperienza attraverso la quotidianità della sua vita. Viene così evidenziando un senso di ringraziamento per ciò che il mondo dell'arte gli ha riservato. Uomo schivo, almeno da quello che la prosa di Michele Beraldo lascia trasparire, ma non disattento al ciò che accade nel mondo dell'arte sia italiano che in quello veneziano, lasciando però all'esperienza parigina anche la descrizione malinconica di un nomade dell'arte, sempre disposto ad adattarsi alle situazione e rendersi disponibile nel difendere e valorizzare le esperienze artistiche che, a diverse fasi, lo coinvolgono.

Una narrazione in forma di autobiografia che descrive i vari mondi artistici, dalla vivacità veneziana degli anni cinquanta e sessanta, delle Biennali in cui trovava lo spunto per approfondire la sua ricerca pittorica, alle lezioni parigine dove aveva imparato l'incisione a colori e la sua scuola di mosaico che seppe divulgare oltralpe, mescolando le sue esperienze acquisite dalla tradizione ravennate e da quella veneziana.

Nella scorrevole narrazione viene ricostruita la vita in quella Parigi degli anni settanta dove più di un centinaio erano gli artisti italiani che avevano scelto di maturare la propria arte in un contesto internazionalista, ma soprattutto il suo intenso rapporto con Severini che non solo gli fu maestro e predecessore nella cattedra, ma anche l'uomo che seppe dare a Licata gli insegnamenti necessari per stare con prestigio, ma anche con umiltà in un mondo alquanto complesso e fortemente competitivo come lo è quello dell'arte. Il lettore attento non troverà grandi disquisizioni sui linguaggi dell'arte o sulle filosofie artistiche ma sincere letture del proprio essere artista, come del resto lui stesso ricorda: "Questi incontri e questi contatti, sul finire degli anni cinquanta, hanno contribuito all'evoluzione della mia pittura verso un surrealismo astratto e magico, diverso da quello ufficiale, letterario ed estetizzante. Il contenuto, il sentimento e il simbolo venivano tradotti in segno e scrittura, in una forma innovata, evoluta, lacerata e drammatica". È solamente un assaggio, ma sufficiente per stimolarci a conoscere e comprendere il lungo e profondo lavoro artistico del maestro dai "tre cognomi".

 

 

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gennaio febbraio 2010

 

 

E del bianco e del rosso

 

Studio d'arte Delise  – Portogruaro

 

Lo Studio d'arte Delise di Portogruaro, nella sua tradizione espositiva più che ventennale, propone la collettiva d'arte astratta "e del bianco e del rosso". Un titolo che non intende dare indicazioni di lettura della mostra ma esporre il criterio selettivo mediante il quale sono state proposte le opere di  importanti e significativi artisti astratti degli ultimi decenni. Sono, infatti, presenti opere di Bernard Aubertin, Enrico Bertelli, Remo Bianco, Enrico Castellani, Piero Dorazio, Ennio Finzi, Walter Fusi, Angelo Molinari, Mimmo Rotella. Ad accompagnare la mostra un approfondito catalogo di oltre cinquanta pagine.

Il bianco e il rosso, due colori che, nell'immaginario collettivo, sono carichi di significati simbolici. Potremmo, solo per limitarci al rosso, sintetizzare le varie "significanze del colore" – come sosteneva Kirchner – e che vanno dal dinamismo, al fuoco, dal sangue alla passione e al dominio; dalla vitalità alla fierezza. Scientificamente il rosso è il primo colore dello spettro cromatico come il bianco si può considerare un colore con alta luminosità ma senza tinta, e, poiché contiene tutti i colori dello spettro elettromagnetico, è definito anche colore acromatico.

Si tratta così di caratterizzare l'aspetto creativo degli artisti i quali, proprio nel colore, e alcuni essenzialmente col monocromo, hanno inteso dare una certa espressività al loro linguaggio. Per alcuni, come Aubertin, Castellani e Finzi l'impegno pittorico si snoda essenzialmente sulla superficie, servendosi a volte del puro colore o mediante ampie campiture a gradazioni cromatiche. Gli artisti vanno così riflettendo sia sotto l'aspetto puramente estetico, o ancora vanno proponendo considerazioni analitico–formali, che ci introducono in un campo limitato di riflessione all'interpretazione del solo colore.

Moholy Nagy sosteneva che il colore e la superficie sono i due elementi costitutivi la pittura e su questo principio si sostiene l'idea di pittura di Bertelli, Dorazio, Fusi e Molinari. La superficie non si limita a essere il semplice luogo della pittura, ma si trasforma in un elemento indipendente e in grado di dialogare con il segno ed il gesto, momenti linguistico-espressivi capaci di interpretare autonomamente e individualmente l'energia e la forza della pittura. Gli stessi artisti manifestano altresì una forte attenzione allo spessore e alla materialità del colore spesso espresso proprio dalla forza e dall'ampiezza del segno.

Più legati ad una materia non propriamente pittorica, ma al collage e al decollage, sono le opere di Bianco e di Rotella. Se da un lato i tableau dorè dell'artista milanese indagano sugli effetti della luce nello storico dialogo tutto oriental-bizantino tra l'oro e il rosso, dall'altro vi è la certezza che nel manifesto pubblicitario l'incidenza cromatica evidenzia non solamente l'azione dello strappo, ma determina anche la scelta dell'oggetto descritto nel manifesto.

L'azione concettuale dei due autori sta quindi alla base del loro operare artistico che intendono trovare nell'oggetto il proprio modo di esprimere l'arte, di provare il piacere di dare identità propria alle opere, come nel casi di Remo Bianco,  o di "adoperare" un manifesto così come l'ispirazione ha chiamato Rotella.

 

 

 

 

 

 

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Enrico Castellani

Remo Bianco

 

 

gennaio febbraio 2010

 

 

 

 

 

 

Aldo Colò

 

Stamperia d'arte Albicocco – Udine

 

La stamperia Albicocco di Udine, presenta quest'anno un altro significativo artista friulano: Aldo Colò, classe 1928. Esponente di prestigio di quella ricerca pittorica geometrico-astratta che ha caratterizzato l'arte friulana gli anni '60 e '70. Un periodo rappresentato da artisti come Alviani, Ciussi, i Basaldella, Celiberti e molti altri. Una tradizione che si è evoluta evitando accuratamente di definirsi come astrattismo friulano, cercando così di mantener saldi i rapporti con le realtà artistiche europee e la rigorosità della geometria come progetto del fare e del comporre la forma.

Sarebbe però inutile cercare in Colò una singolare paternità, perché nel suo percorso artistico s’intravedono le esperienze più significative e importanti della storia della pittura; e non solo un'attenzione all'evoluzione del linguaggio astratto, ma personali riflessioni sull'espressività del colore e sulla caratterizzazione della forma. E questo nasce dalla convinzione che la pittura sia una forma di comunicazione tra un io-artista e gli altri, con i quali é necessario condividere le molteplici conoscenze del sapere. Conoscenze che Colò ha saputo "pensare" prima di interpretarle; come colui che prepara l'opera prima di realizzarla, anteponendo la riflessione ad ogni azione, ad ogni precostituita forma espressiva. La pittura di Colò ci appare nel suo rigore compositivo con la consapevolezza che la progettualità non può essere limitata al solo momento che precede il fare, ma deve continuare nell'azione pittorica. Infatti, nelle sue opere non s’intravede una spasmodica ricerca di originalità, ma la certezza che ogni opera d’arte contribuisce a creare una solida idea di continuità analitica, nella quale si delinea il singolare ed individuale percorso pittorico dell'artista.

Ci è difficile immaginare Colò come pittore figurativo, ma è proprio da queste esperienze - chi non ricorda il neorealismo friulano di Pasolini - che origina il suo lavoro. Non si può non pensare all'influenza sulla costruzione della forma generata da postcubismo nell'immediato dopoguerra (periodo di formazione dell'artista), né credere che l'informale astratto non abbia creato dei dubbi e delle riflessioni sull'uso del colore e della materia e perfino del gesto. Come la sua pittura ha di certo osservato l’opacità cromatica delle nature morte di Morandi, ma anche la lucentezza degli azzurri di Vermeer. In diverse opere di Colò campeggia l’idea della forma pura, come l'essere che vive nella certezza della misurabilitá matematica propria della geometria euclidea (sua è una formula per disegnare l'elisse, figura che campeggia in moltissime sue opere); ma è la pittura che gli permette la trasformazione della forma nello spazio, fino a renderla di per sé significante e comunicativa, come un “autoritratto” che va quotidianamente a mutare come mutevoli sono le cose terrene. La pittura unisce i più intimi tasselli fino a sommare, una a una, le esperienze artistiche con quelle dell'essenza del divenire della vita. Per questo in Colò vi è la certezza che i linguaggi dell'arte, ma in particolare quelli della pittura, non creano i medesimi effetti, ma portano inevitabilmente a letture differenti. E solo nelle diverse percezioni è possibile formalizzare le innumerevoli sfumature presenti nelle sue forme (solo apparentemente monocrome) che, nella loro totalità, si evidenziano come una verifica empirica di un’armonia compositiva.

Per queste ragioni le sue opere possono essere considerate come un procedimento continuativo che mantiene l'attenzione sulle forme che si disperdono sulla superficie. Queste possono sembrare sempre le stesse, quasi a seguire un impianto formale di tipo seriale come se l'artista tendesse a sommare una sequenza di atti pittorici per esprimere delle idee sulla pittura ormai in sé definite. Pittura come sintesi, forse la più ampia possibile, tra progettualità ed esecuzione, in grado di valutare i rapporti linguistici - anche se interpretati sotto un profilo individuale ed autonomo - positivamente offerti da una ricerca che muove al futuro, dichiarando contemporaneamente le tensioni più vitali.

La vita, a volte, sa regalare a un artista la discrezione del conoscere, e ciò, almeno per Colò è un gran pregio. E se questa discrezione sa trasformarsi in un momento creativo, allora la creatività diventa parte integrante e decisiva dell'operare dell’artista. Colò è un poeta, un pittore d'altri tempi. È un pensatore della pittura, che, come tale, ha saputo arricchire le sue opere non di certezze, ma di quei dubbi, di quelle digressioni, che sanno coniugare gli avvenimenti dell'arte passata con le situazioni più intime che segnano la vita d'artista e di un uomo.

 

 

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novembre dicembre  2009

 

Dadamaino -  Candeloro

 

A arte Invernizzi Seragiotto Padova

 

Giustamente Giorgio Verzotti scrive nel catalogo che accompagna la mostra: "Ci sono più di una generazione a dividere Dadamaino da Candeloro, e molte scelte esplicite e ragioni intime; a unirli c'è invece una comune propensione a dubitare del senso comune."

Infatti, la mostra offre due visoni dell'arte contemporanea, se un lato Dadamaino – in particolare quelle del ciclo Sein und Zeit  - origina il suo fare artistico "dall'idea di non sapere niente della vita e di cercare di capire qualcosa, senza velleità di scoprire niente perché è talmente difficile …" dall'altro Candeloro ci offre una serie di opere che tendono a indebolire "il potere semantico delle immagini per poterle interrogare riguardo alla presunta verità."

Seguendo le affermazioni di Dadamaino e del curatore della mostra ci appare chiaro che ciò che fa dialogare i due artisti è proprio l'atteggiamento di ricerca e nel contempo di insicurezza di entrambi davanti alla realtà, al quotidiano, all'esistenza e dunque anche all'essere artisti.

Forse non è un caso che la cosa che li accomuna maggiormente è la trasparenza dei materiali usati; una trasparenza che induce lo spettatore a guardare oltre la superficie a oltrepassare l'immagine per interrogarsi sullo spazio, su ciò che un'altra dimensione (come da sempre ha proposto l'amico di Dadamaino, Fontana) ci suggerisce.

L'idea di spazio che stimola Candeloro è la costruzione di una realtà fittizia, nella quale l'artista inserisce delle immagini, spesso urbane, raccolte nei suoi viaggi e che egli colloca in uno spazio completamente inventato e quindi alterato dalle diverse sovrapposizioni dei plexiglas su cui è stampala l'immagine. I rapporti tra i vari piani vengono manipolati non solo nella costruzione e nella composizione di questi "paesaggi in scatola", ma anche nella loro collocazione nello spazio; non sono posti in una posizione agevole, dunque richiedono un impegno e un disagio perché possano comodamente essere letti. L'artista altera il naturale rapporto tra spettatore e lo spazio, e ciò fa sì che l'opera si faccia immagine di una dimensione altra. Come del resto non esiste nemmeno un solo punto di vista, infatti, la percezione dello spazio raffigurato cambia in continuazione e quindi l'opera non si dà mai nella sua compiutezza, ma propone sempre un mutevole dialogo con lo spettatore. È forse questa una metafora dell'incertezza della realtà?

Come è altrettanto incerta la percezione della realtà nelle opere di Dadamaino. Il suo personale "alfabeto" è costituito da minuscoli e quasi impercettibili tratti. Un alfabeto che si ripete ininterrottamente evitando un itinerario prestabilito, ma seguendo un andamento ondivago, sinuoso che si muove sulla superficie, come una serie ininterrotta di passi di danza. L'artista viene così creando un intricato percorso che mai si ripete e mai appare, allo sguardo del lettore, uguale a se stesso, come mai è identica a se stessa l'incertezza dell'esistere e con essa la percezione della verità.

 E anche per Dadamaino lo spazio diventa il luogo dell’idea, che, nei comportamenti e negli atteggiamenti, si concretizza, acquisendo una materialità percettiva che induce all'individuazione del movimento segnico. E questo è l'altro aspetto della ricerca dell'artista: un'identità in costante movimento che, libera da ogni obbligo, ricerca dialetticamente un'apertura nello spazio infinito; quello stesso spazio che attraverso la trasparenza della superficie vuole raccogliere le emozioni che fluiscono dal macrocosmo al microcosmo della vita.

 

 

 

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dadamaino

 

 

candeloro

 

 

 

novembre-dicembre  2009

 

 

POPE

 

 dal gesto al colore

 

Villa Contarini - Piazzola sul Brenta

 

 

Presso la palladiana (o forse del Longhena o dello Scamozzi) è ospitata la mostra antologica di Pope, promossa ed organizzata dalla regione Veneto e corredata da un ampio catalogo a cura di Marangon. L'esposizione ospita opere della fine degli anni cinquanta, quando Pope era ancora studente; ma il lavoro più interessante dell'artista veneziano comincia dieci anni dopo, quando l'attività espositiva diventa pressoché regolare. Soprattutto quando ha potuto misurarsi con forme espressive sperimentali che hanno caratterizzato quell'interessante periodo che richiedeva agli artisti un approccio diverso: l'arte come occasione per stimolare nello spettatore ogni possibile forma di percezione.

Il lavoro di Pope non poteva pensare a una pittura estranea a questo tipo di esperienze e di possibili percezioni. Un atteggiamento creativo consapevole che la pittura di quegli anni (e dalle varie definizioni: da pittura pittura a nuova pittura, da pittura analitica a pura pittura) non poteva prescindere né da una sperimentazione analitica, né dal pensare e dal fare. Pope propone una pittura in grado di guardare a se stessa e di elaborare una forma linguistica valida non per ciò che può raccontare o descrivere, ma per la potenzialità espressiva degli elementi che la compongono. Un costruire la pittura in forte sintonia con quanto Filiberto Menna ne La linea analitica dell'arte moderna aveva così ben esaminato. E con le indicazioni dell'autorevole critico possiamo soffermare la nostra lettura sia sugli elementi che concorrono alla definizione della pittura come il telaio, la tela, il colore, la materia, che sul procedere materialmente, sulla pratica del fare. Un "esercizio della pittura", quello di Pope, che palesa dapprima l'analisi delle componenti che caratterizzano la pittura in quanto tale, poi registra il processo del fare materialmente pittura.

Il rapporto con questo movimento (che definirei piuttosto un'esperienza multipla di singoli artisti che di volta in volta venivano invitati a rassegne, nelle quali il critico di turno ne esplicava l'aspetto estetico e forniva indicazioni per una lettura individuale) è stato, per ogni pittore, diverso e personale, comunque non pensato in modo aprioristico. Queste conoscenze hanno dato occasione all'artista di sperimentare le potenzialità espressive di questo linguaggio nella convinzione che il risultato del fare non potesse essere stabilito razionalmente, ma venisse considerato come un processo creativo in itinere, un concetto artistico riconoscibile quale risultato ultimo e quale conseguenza di un linguaggio individuale con una sintassi espressiva efficace in grado di ripensare continuamente l'atto pittorico.

Ad accostare il lavoro di Pope alla pittura analitica concorre anche la concezione che l'artista ha della materia, che egli intende come la rilevazione del fare: la materia come testimonianza della pratica pittorica, la materia come identità della superficie, la materia come palcoscenico del colore e della luce. Altri elementi, che hanno caratterizzato le sue opere, sono diventati via via più efficaci, fino a permettergli di approfondire ed elaborare gradualmente la pittura per raggiungere un'identità espressiva individuale, in cui ogni elemento di riflessione è vissuto come parte integrante del proprio lavoro e, soprattutto, del proprio essere pittore e artista attento all'evoluzione del linguaggio della pittura e, più in generale, dell'arte tutta.

Si potrebbe soffermare lo sguardo sul processo creativo seriale (l'esercizio di cui si diceva), poiché non esiste, nell'artista veneziano, la convinzione dell'esistenza di una pittura intesa coma unica, ma di considerare la pittura come complessiva e costantemente in evoluzione; come il formato, che, per Pope, rimane all'interno della geometria del quadrato (non è un caso che alcuni titoli citino Malevič) o l'idea di monocromo inteso come un atto azzerante, o come luogo dello stato assoluto del colore e della luce.

 

 

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