Bimensile di Informazione e critica d'arte

2011

 

 

Carmassi, Cappelletti, Chinese, Di Cocco, D'Oora, Finzi, Garbellotto, Gottlieb, Giacobbe, Viallat

 

 
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settembre - ottobre 2011

 

Fernando Garbellotto

 

Galleria Anti di Mestre

Biennale di Venezia - Padiglione Italia

Palazzo Fortuny - FRA, Edge Of Becoming

 

Garbellotto ci ha abituati, nel corso di questi ultimi due decenni, ad affrontare linguaggi e forme espressive diverse; dai frattali di fine anni ottanta alle attuali reti, dalla pittura come composizione formale al video come linguaggio esplicativo di un concetto, dalla ricerca di una forma caotica alla ric-composizione, attraverso la strutturazione delle reti, di nuove forme frattali, dalla manualità dell'atto pittorico alla riproduzione fotografica di un avvenimento. Un excursus ampio e variegato che fa dialogare la forma con una certa idea di pittura e mette in luce nuove riflessioni sulla forma, sullo spazio e sul tempo, in quanto divenire del pensiero.

Una ricerca cui, come dice l'autore, "… sono arrivato per istinto anche se ora capisco che gli allestimenti aggrovigliati di corpi frattali che realizzavo in precedenza erano in realtà delle grandi reti e i corpi stessi ne rappresentavano i nodi."

Fernando Garbellotto - presente con una personale alla galleria Anti di Mestre ma anche al Padiglione Italia della Biennale veneziana e a Palazzo Fortuny con la mostra FRA, edge of becoming – chiarisce, sotto l'aspetto evolutivo, i termini della sua ricerca. Non si tratta di una riflessione sulla pittura, sebbene questa occupi un ruolo importante (quello che spetta alla fantasia e alla creatività), né si può dire che le sue reti siano solo delle installazioni, né le sue opere, per l'ampio e variegato significato presente, possono essere ascritte all'arte concettuale. Le opere di Garbellotto, giusto per operare una sintesi, sono tutto questo, ma non solo. I suoi ultimi lavori sono il risultato di una riflessione che alterna fasi proprie della progettualità (che l'artista fa scaturire da teorie scientifiche) con quelle del fare, di dare cioè identità materiale al suo pensiero (l'arte). Nessuno di questi due aspetti si può definire come decisivo, poiché dalla riflessione sull'idea immediatamente ne segue la sua formalizzazione e da questa scaturiscono nuove considerazioni. Così l'aspetto fenomenologico dell'opera non ne privilegia alcuno, né tantomeno fa che uno dei due si qualifichi come determinante per la definizione dell'opera.

È una riflessione, la mia, che vuole evidenziare come in Garbellotto non vi sia una logica in evoluzione, ma un seguire inesorabilmente il divenire delle cose. Infatti, come non vi è una "logica" prevedibile nel divenire della geometria frattale, così nelle forme proposteci dall'artista non c'è un procedere razionale aprioristico. Lo conferma l'autore: "Ho cercato la massima semplicità della struttura e ho trovato la massima complessità dello schema: biforcazioni, interazioni, legami, disgregazioni…".

Il lavoro dell'artista non va dunque nella direzione della semplificazione del contenuto, anzi lascia al momento fenomenologico ogni commento o riflessione interpretativa. Le sue opere ci chiamano, ci cercano perché la simbologia di cui sono intrise induce più a una riflessione teoretica che a una considerazione linguistico–formale. Per queste ragioni intendo pensare che le reti non siano così logico­-razionali come ci appaiono, poiché la rete genera un sistema dove le proprietà del tutto superano la somma delle proprietà delle singole parti. Come i nodi che, pur essendo l'espressione di un procedere meccanico (originano quadrati regolari), alimentano, attraverso un precedente atto pittorico, l'idea di una casualità compositiva. Della pittura preesistente sono rimaste solo delle sottili strisce dipinte non più caratterizzate da un linguaggio autonomo ma divenute traccia indefinibile in una progressione geometrica frattale.

E così la rete diventa l'intermediario del dialogo tra l'uomo e lo spazio; la rete segna un limite ma solo per introdurre lo spettatore all'immaginazione. Se Fontana con i suoi tagli voleva indagare lo spazio oltre a quello chiuso della superficie, per Garbellotto la rete rappresenta il confine dello spazio dell'esistenza, ma dal quale si configura il cominciamento di un'idea di infinito, simile al risultato dell'immaginazione creativa di popperiana memoria.

Potremmo allora mai pensare che il nostro limite (che è la rete nella quale siamo destinati a vivere) sia proprio lo spazio chiuso dal quale possiamo solamente immaginarci l'oltre?

E al di là di quel limite cosa la nostra fantasia lascia vagheggiare? Se non fauni, boschi, veneri, suoni, canti e musiche? Nulla possiamo raffigurarci di trascendentale se non ciò che la nostra conoscenza ci permette di materializzare. E Garbellotto ci stimola a riflessioni non fornendoci delle forme significanti, né dandoci un'interpretazione dell'essere, ma facendoci partecipare ai dialoghi tra i linguaggi dell'arte e gli eventuali significati che la nostra curiosità è in grado di formulare o di estrapolare.

C'è quindi nell'artista veneto la certezza che le sue opere siano sempre un atto finale, ma non l'ultimo, di un dialogo a più voci per far in modo che "… la nostra etica si determini e si sviluppi per il combinato effetto di scienza, filosofia e arte, derivando essa sia dalla conoscenza scientifica, razionale, sia dalla conoscenza psicologica e sentimentale. Leggendo la storia del pensiero, risulta indissolubile il legame tra scienza, arte e speculazione filosofica. L'una si nutre dell'altra: l'arte e la filosofia fondano le loro radici sia su quanto la scienza ha scoperto, mentre la scienza affida per lo più alla filosofia e all'arte il compito di tracciare il campo d'indagine su cui lavorare."

 

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settembre - ottobre 2011

 

Luca Giacobbe

 

Fragili normalità cromatiche

Galleria Liba - Pontedera

 

Presso la Galleria Liba di Pontedera, sono esposte le recenti opere di Luca Giacobbe. Pittore e scultore che ha fatto della pittura, nel senso più proprio del termine "pittare", la sua forma privilegiata (benché non unica) di espressione. E sebbene, in un primo apparire, ci può sembrare il risultato di un fare immediato (data l'evidente gestualità) e di un gesto anche liberatorio, la sua è una pittura che segue logiche e procedimenti realizzativi ben precisi. Giacobbe non si lascia travolgere né dall'improvvisazione né dalla casualità. Infatti, la sua pittura, di tipo astratto–formalistica, come l'ha definita Giorgio Bonomi nel catalogo che accompagna la mostra, pur celando un percorso riflessivo e per certi versi programmatico, non è priva di quella liricità che delega al colore e al segno l'esternazione di una personale emotività; un'idea di pittura tutta interiore, a volte romantica (nel senso classico del termine), a volte rigorosa e intuitiva.

Potremmo dire che il suo operare lascia trasparire un duplice approccio col linguaggio pittorico. Se da un lato la sua pittura si contraddistingue per un preciso momento teorico, frutto di programmazione e di un lavoro mentale tutto interiore e individuale, dall’altro, nella fase materiale e temporale dell'agire, l'artista viene materializzando l'esigenza di esprimersi mediante un fare puramente pratico–sperimentale, una sorta di "esercizio pittorico" ad libitum, che, attraverso una lieve quanto minimale evoluzione, mette continuamente in discussione (e questo anche per verificarne la validità espressiva) gli elementi linguistici che caratterizzano e definiscono la sua pittura e più in generale alcuni aspetti dell'astrattismo pittorico contemporaneo verso cui l'artista indirizza la sua attenzione.

Per cui colore, forma e materia divengono gli elementi linguistici che alternativamente costituiscono la struttura compositiva del suo lavoro. Il suo procedere, quindi, nuove alla ricerca di un equilibrio – a volte temporaneo, altre definitivo – tra gli stessi componenti. Non quindi un'omogeneità nella sua ricerca ma una graduale temporalità attraverso la quale fa via via dialogare la materia con il colore, il colore con la forma, la forma con la materia ecc., intervallando i diversi contrappesi che le sue composizioni suggeriscono. E da questo suo procedere l'artista fiorentino viene evidenziando una ricerca che si focalizza dapprima su forme immaginarie (mai geometricamente definite), e poi ragiona sulla loro posizione all'interno dello spazio pittorico. Le forme esprimono una propria autonomia e identità nel loro continuo dialogare con il colore anche attraverso delle irregolarità perimetrali o negli illusori fori o nei lati frastagliati che lasciano immaginare materie altre da quelle illusorie della pittura. Così la progettualità, che sta all'origine del suo fare, lascia gradualmente, spazio a una gestualità che non giustificata dal suo immediato materializzarsi, ma segue un percorso quasi già definito da ideali equilibri compositivi.

Attraverso i variegati rapporti cromatici (che comunque giocano sui variegati effetti della luce) tra primo e secondo piano prospettico si vengono a definire i diversi assetti compositivi; e così l'idea di forma che Giacobbe viene evidenziando non origina né da un gioco di linee prospettiche né ancora da elementi chiaroscurali. La figura che ne esce ci appare instabile e alla continua ricerca di un volume che l'artista tende a realizzare attraverso diverse sovrapposizioni di colori dalla corposa matericità. Risultano, infatti, evidenti diversi contrappesi che si instaurano nel dialogo tra il colore e i perimetri della figura, ma anche tra i falsi piani che questi occupano proprio nell'avvicendarsi nelle ampie campiture colorate. Appare così evidente che l'attenzione di Giacobbe si sposta, una volta individuata la forma, nella strutturazione del cromatismo di fondo, necessario per dare un ruolo primario alla figura che campeggia, da protagonista, nelle sue opere.

Ciò che caratterizza l'opera di Giacobbe è la proposta di una sintesi tra i due linguaggi, se da un lato la pittura non ci sembra essere un'esclusività del suo fare, dall'altro la forma proprio per questa sua origine tridimensionale non sempre ci appare come pura conseguenza del solo atto pittorico, ma piuttosto la materializzazione di un progetto compositivo. Mentre il dinamismo compositivo, sempre presente nelle opere di Giacobbe, riesce a esprimere, come già s'è detto, una personale liricità e proporre una riflessione sui linguaggi della pittura astratta. E questi ci porta a condividere quanto lo stesso Bonomi scrive: "Al di là delle differenze, e sono tante, i quadri di Giacobbe mi ricordano soprattutto un grande pittore italiano, Osvaldo Licini, come aveva già osservato Claudio Cerritelli, non tanto per affinità formali e materiali quanto per affinità elettive, cioè per una forte consonanza di sensibilità, per la forza lirica delle loro creazioni, per la lievità del discorso."

 

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giugno - luglio 2011

Claude Viallat

 

Galleria Plurima – Udine

 

La Galleria Plurima di Udine ha appena proposto un'interessante mostra dell'artista francese Claude Viallat. Cresciuto alla cosiddetta École de Nice, Viallat, nel corso della sua formazione, ha esperito linguaggi pittorici che andavano verso l’interpretazione di nuove teorie artistiche, ispirate dalle analisi e dalle prospettive dello strutturalismo. Ciò lo ha  tenuto parzialmente estraneo al cosiddetto formalismo americano, cercando nel contempo di superare i confini della pittura tradizionale francese. In realtà, Viallat e i suoi compagni di ricerca, non erano soli. Prima di loro pittori americani come Morris Louis, Kennet Noland, Robert Ryman, avevano fatto ricorso alla tecnica della tintura, lavorando sull’impregnazione cromatica della tela e della materia, in una prospettiva progressista. Anche in Germania (Gaul, Girke) e in Italia (Griffa, Olivieri, Morales, Gastini) operazioni simili si andavano rafforzando. Queste nuove sperimentazioni muovevano verso l’annullamento di una consolidata e ostentata superiorità di un passato artistico, ormai divenuto una pagina della storia dell’arte. Si andava allora profilando un nuovo razionalismo, una concezione modernistica, una sorta di nuova tabula rasa, il cui obiettivo non era tanto il desiderio di ritorno alle origini della pittura, quanto una riflessione sull’identità della pittura stessa, e sui suoi elementi linguistici, come il colore, la materia, la superficie, la ripetizione, ecc. Una pittura che ha trovato la propria origine e il proprio percorso fuori da situazioni mistiche, simboliche, o ancora rappresentative, ma anche estranea a facili sociologismi e lontana da schemi di conoscenza già definiti.

Un approccio decisamente razionale e riflessivo, tanto da fargli dire che: Pensare la pittura oggi impone di pensare la pittura nel tempo e il tempo nella pittura che la produce e la motiva. Non dunque, come potrebbe apparire una pittura d'istinto, immediata e rispondente alle esigenze di un'esternazione del proprio stato d'animo; né una forma espressiva che relega in secondo piano ogni forma di progettualità o di programmazione all'interno di una concezione artistica in cui le condizioni storiche di produzione sembrano considerare l'opera come espressione di un processo razionale autonomo, libero da identificazioni o da particolari significanze, che non fossero quelle puramente fenomenologiche. L'artista francese intende operare un'analisi sistematica degli elementi linguistici che costituiscono l'opera. Egli propone un confronto fra modernità artistica e la primitività del fare, al fine di frugare nella pittura e riconoscere a questa un suo stato di oggetto puro e autonomo, lo stesso oggetto che si pone dinanzi allo sguardo dello spettatore.

Nella sua ricerca, l’artista francese è riuscito a coniugare i due momenti specifici e distintivi della pittura, il fare materialmente la pittura e nello stesso tempo proporre una riflessione sul linguaggio pittorico; in sintesi avanza l'idea di una pittura come immagine del dipingere. E nel rapporto dialettico fra colore e superficie si origina, provocatoriamente, la riproposizione metodica di una forma primitiva, quando indefinita, semplice, elementare, priva di ogni identificazione organica o libera da ogni paternità geometrica; mentre attraverso la sua ripetizione l'artista concettualizza una modularità compositiva e formale, in una dinamica espressiva come una successione temporale, dove ogni componente linguistica vive di una sua identità.

Una forma dai cromatismi matissiani, ma immutabile anche in relazione ai diversi supporti sui quali viene dipinta. O in positivo (come presenza della pittura) o in negativo (assenza della pittura) l'elementare forma (quale espressione di un movimento segnico) è sempre uguale a se stessa, proiettata infinitamente nello spazio e nel tempo, fino a diventare il suo contrassegno.

Il sistema linguistico di Viallat non mostra dunque segni di esaurimento, anzi va confermando la forza espressiva del colore, del segno, del gesto, e nello stesso tempo nega – proprio attraverso l'infinita ripetizione della sua forma - la staticità e temporalità della pittura. Così nel divenire del processo artistico si realizza un intenso rapporto tra spazio e tempo, tra superficie e colore, dove la centralità viene soppressa e dove il cromatismo della superficie crea delle apparenti profondità nel dinamico rapporto di pieno/vuoto.

La pittura di Viallat, non è altro che il visibile, l'osservabile, il luogo nel quale gli elementi espressivi dell'arte contemporanea si mescolano con quelli dell'arte primordiale appartenenti al grado zero del tempo dell'arte, dove la forma precederebbe la pittura e dove la pittura corrisponderebbe a un dispositivo sommario di costruzione di una forma.

Le riflessioni cui ci conduce l'opera pittorica di Viallat, mettono in discussione un'idea di arte come un'attività trasformatrice, tale da permettere all'uomo di erigersi a protagonista di un gioco dialettico mediante il quale il sapere e l'esperienza denunciano le delusioni della storia, dello storicismo e di tutte le ideologie realistico–progressiste, spesso simulate nella capacità della pittura di smuovere il fondo sensuale dell'uomo. Le opere di Viallat, proprio per il loro linguaggio analitico, ci propongono una serie di considerazioni su concezioni artistiche che stanno alla base del dibattito intorno allo stato attuale dell’arte, e di cui bisognerà chiedersi se, in un periodo così complesso e articolato dell’arte contemporanea, i cui linguaggi si contaminano fino alla vertigine o si identificano in un eccesso sperimentale, esiste ancora una specificità della pittura, oppure se è sufficiente relegare ogni espressività artistica a puro "atto" della comunicazione.

 

 

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giugno - luglio 2011

 

Luciano Chinese

 

Casa dei Carraresi

Treviso

 

Nelle sale della Casa dei Carraresi, a Treviso, sono state esposte alcune opere di Luciano Chinese, artista friulano ma veneto di formazione. Ha, infatti, operato diversi anni a Venezia, anche come gallerista (cosa che continua a fare a Udine). Da giovane è venuto a contatto con gli ultimi echi dello Spazialismo che nella città lagunare, presso la galleria del Cavallino, ha trovato le condizioni per approfondire i linguaggi dell'arte contemporanea. Ed è uno degli esponenti della critica veneziana protagonista da diversi anni, Toni Toniato che così descrive l'opera dell'artista: "Gli elementi basici del repertorio linguistico di Chinese risultano quindi sussunti da queste varie fonti le quali lo hanno sostanzialmente ispirato a portare avanti una concezione dell'astrazione insieme geometrica e lirica, di rigore costruttivo – in un certo senso cartesiano – e di espressività libera, disciplinata soltanto da un rapinoso estro fantastico, aprendo così la propria visione pittorica verso esaltanti cromie, verso ritmi lineari vorticosi che scorrono con l'impeto d'incontenibili flussi energetici sui riquadri delle superfici". Una spiegazione acuta per definire le figure che Chinese descrive sospese in uno spazio incorporeo, privo di riferimenti realistici, e che si snodano in uno stato di apparente instabilità, come vivessero in una realtà spaziale. Le forme ci appaiono indefinite spesso caratterizzate da elementi assemblati che, per la loro dimensione e sistemazione sulla superficie, denotano attenzione alle composizioni minimaliste. Le opere di Chinese sentono comunque dell'atmosfera spazialista, tanto che le sue forme, libere su di uno spazio etereo e privo di riferimenti naturalistici, si snodano in uno stato di apparente disequilibrio, come vivessero in una realtà frutto di una personale visione dell'infinito. Figure indefinite su uno sfondo statico come illusorie sculture.

Non mancano, in diverse opere, elementi estranei alla pittura portatori di interiori riflessioni o come risultato di un pensiero che guarda al passato e alle esperienze giovanili. Così i cocci di vetro o di specchio diventano una testimonianza dell'attenzione per una particolare luce: quella riflessa, quella che si sviluppa dai mosaici bizantini della basilica di San Marco che l'artista ha conosciuto in gioventù come studente all'Accademia di Belle Arti di Venezia o quella diffusa dai vetri colorati degli artigiani di Murano.

Ricordi che Chinese riassume nelle qualità materiali del vetro, attraverso il quale riscopre le vibrazioni cromatiche e le rifrazioni della luce. Effetti che egli ricrea sulla superficie attraverso un colorismo mediato dal ritmo e dallo spessore della pennellata, come viva testimonianza del fare pittura. Un processo dialettico di contrapposizione con le trasparenze del vetro ma in sintonia con le tracce di colore che vanno a contornare la forma. Si viene così a definire un'idea di superficie altra dalla bidimensionalità della superficie pittorica, un'idea di spazio assoluto, incommensurabile, dal quale origina la fonte luminosa che attraversa l'opera. Fasci di luce traversali che si alterano in diverse intensità fino a dare identità al silenzio che traspare dalle composizioni. Varie forme si propongono così come risultato di intimi quanto personali ragionamenti sulla pittura. Un epifanismo cromatico, come una condizione illusionistica della superficie quale minima parte di un universo incommensurabile. Chinese ci offre dunque un'idea di spazio non limitata dalla nostra particolare percezione ma che si espande al di fuori dei limiti perimetrali del quadro. Una consistenza volumetrica che si avvicina a una plasticità segnica in cui la forma solo apparentemente diventa elemento compositivo individuabile in un'atmosfera in cui il ritmo segnico richiama al materialismo dei post informali. Ecco quindi l'artista orchestrare segni, colori, forme, architetture siderali, sequenze cromatiche di poliforme materia, come testimonianza di un'avventura immaginativa dominata da stati d'animo e da umori segreti, da emozioni profonde come a rilevare che "nello svolgimento progressivo dell'opera di Chinese, conta soprattutto indicare l'effettiva gittata delle qualità propriamente espressive della sua ricerca … e di una consapevolezza critica dei valori della modernità" (Toniato).

 

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giugno - luglio 2011

 

Mauro Cappelletti

 

MONOCROMOPLURITONO

Studio 53 arte - Rovereto – Trento

 

Ci pare che sia proprio il titolo – di vago quanto intenso sapore futurista, d'altronde sono appena finite le celebrazioni del centenario del Futurismo - della mostra presso la galleria Studio 53 di Mauro Cappelletti a offrirci una serie di indicazioni per poter leggere le sue opere: Monocromopluritono. Sono diversi anni che Cappelletti dedica la sua ricerca al colore, nell'intento di raccogliere tutti gli effetti che questo può oggettivamente produrre o soggettivamente stimolare.

L'artista, infatti, ci dà un preciso segno di continuità rispetto al suo lungo percorso creativo e nel corso del quale ha proposto una pittura che, tra tutti gli elementi linguistici che la compongono, ha privilegiato il colore. Riflessioni come questa: "la superficie e il colore che, nella maggior parte dei casi, erano presentati nella loro accezione più fredda, che non lasciava spazio a nessuna emotività: una pittura quindi volutamente frutto di un calcolo, di un progetto, di una lucida volontà" ci avviano verso una lettura attenta e chiarificatrice di questa sua riduzione linguistica. Se prima la sua pittura si esplicava tra superficie e colore ora è quest'ultimo a focalizzare il suo fare. E si tratta di un colore che non ha spessore, che non si identifica in un segno e nemmeno si presenta come una sorta di corpo cromatico. Del suo lavoro – e credo di non sbagliare – si dovrebbe parlare di superficie colorata; superficie non più intesa quale luogo della pittura ma come sintesi dei due elementi. Per questo non si può pensare a una pittura limitata al gesto (che qui ci sembrerebbe ingombrante) né di un colore in quanto materia. È evidente che dalle sue opere, risalenti ancora al periodo dell'astrazione oggettiva (periodo nel quale l'identità del fare – proprio perché volutamente oggettiva – escludeva ogni espressione di tipo intimista o emotivo), molte esperienze sono state consumate – anche quelle proprie dei gruppi – per arrivare a un'azione di fusione tra colore e superficie. E fra tante specificità e caratteristiche del colore Cappelletti ne ha esaltata una che è quella della luce originata dalle diverse tonalità proprie di ogni singolo colore. E ci suggerisce una lettura di questo tipo con le due ultime parole che compongono il titolo di questa mostra: pluritono. Un suggerimento che sottolinea una parziale negazione del colore, poiché non si sofferma ormai più sul cromatismo in quanto tale, né propone un ulteriore dialogo tra i colori, ma il suo interesse riguarda la diversa intensità della luce e le vibrazioni, dai variegati tonalismi, che si palesano tra presenza e assenza del colore.

"Dopo tanta pittura aperta alle più accese scansioni cromatiche scandite sul bianco della tela, mi ritrovo nei molti toni del monocromo, nel monocromopluritono". Motivazione sufficiente per concentrare la ricerca su una nuova definizione di luce. Una luce vaga e nello stesso tempo espansa, impercettibile ma unica protagonista del processo percettivo. Ancora una volta l'artista riafferma la mancanza di altre interferenze o di ulteriori concettualità cui rimandare il pensiero o stimolare la riflessione dello spettatore. Luce in quanto tale e luce solamente.

E per affermare il ruolo di protagonista della luce anche la superficie deve rinunciare al ruolo di substrato, di luogo della pittura. E la scelta operata dall'artista è andata su un unico elemento che potesse diventare colore senza essere supporto: la carta. Egli, per diversi anni, ha usato la tela, un materiale adatto ad accogliere il colore pur mantenendo, contemporaneamente, discrezione e impersonalità; ma sempre superficie. Cappelletti ha ritenuto necessario che la superficie abdicasse al suo ruolo di substrato e che diventasse complice attivo; che contribuisse a creare e a esternare le migliaia di tonalità che ogni colore è in grado si stimolare. E la carta "mai sazia di colore, si nutre a ogni assorbenza per poi restituirne i toni asciutti. Un solo colore, pronto ad accogliere il mio segnare, un colore che nel silenzio cerca la mutazione del mio spazio, un solo colore che si alimenta di tutti gli altri per affermare, da solo, la sua energia; un solo colore che tiene tutto sotto controllo. Pigmenti fluidi come il fluire del tempo, trasparenti come la pittura, che rifiuta il corpo per farsi meglio trapassare dallo sguardo." (Cappelletti)

 

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aprile maggio 2011

 

 

Ennio Finzi

 

Dal nero al non colore - opere 1950-2010

Villa Contarini – Piazzola sul Brenta

 

"Il colore è quel suono che rincorro affannosamente. È la ragione prima del mio fare, l'ebbrezza, la follia, la catarsi. Il colore è il mio verbo, la ragione prima e forse unica di ogni possibile significato dell'essere: esso risponde in nome dell'oscurità della luce, al tutto del nulla", così lo stesso Finzi che aggiunge: "Per me il nero è un colore estremamente allegro. Vaglielo a far capire al prossimo che il nero ti dà felicità, ti dà distensione".

La mostra – curata da Marangon e Beraldo e patrocinata dalla Regione Veneto - raccoglie più di un centinaio di opere che attraversano completamente il lungo periodo di attività dell'artista veneziano. Non si tratta però di una antologica ma il risultato di una lunga ricerca, quasi un quotidiano dialogo tra la pittura e le grandi potenzialità espressive del nero. Un filo rosso ci induce a guardare al lavoro di Finzi come una ricerca atemporale sulle interpretazioni che l'artista ha voluto dare al nero in quel suo sottile stato di non colore.

L'esposizione inizia dalle opere degli anni cinquanta e si chiude con gli ultimi monocromi materici. Il denominatore comune è il nero; il nero, nella sua dimensione infinita, è un non colore, è forse più un luogo nel quale vengono assorbiti la luce e il calore. È un non colore che toglie lucentezza e ingloba in sé tutti i colori, un non colore che fagocita tutto lo spazio. Proprio per queste sue caratteristiche tende a diventare la metafora del vuoto, del nulla e, come tale, del possibile. È l'idea di uno spazio infinito nel quale tutto si perde e tutto si annulla. Ma è proprio dal nulla che le passioni dell'uomo trovano un riverbero; come dal silenzio escono le note musicali, le parole, i suoni o ancora i rumori.

Una lunga riflessione sul nero che fa da corollario a un'interessante quanto recentissima pubblicazione monografica sull'artista dal titolo Fenomenologie del colore (Matteo ed. 2009) scritto da Toni Toniato, il quale sofferma il suo ragionamento proprio sulla policromaticità delle opere di Finzi. Un parallelismo che apre diverse considerazioni sull'utilizzo e sulla funzionalità del colore secondo l'artista. Scrive, infatti, Toniato: "Finzi ha cercato soprattutto di immaginare e raffigurare un colore innaturale, soltanto mentalmente esistente, o meglio, perché ha concepito una nuova morfologia del colore, una sua diversa energetica spaziale" alla ricerca "di un'iperbolica Dynamis timbrica" che ci riporta al "clamoroso ciclo, per esempio, su Scale cromatiche e su Spazialità timbrica". Il riferimento, qui propostoci da Toniato, è anche una delle tante chiavi di lettura di questa mostra.

Una mostra da ascoltare! ci suggerisce Ennio Finzi (Venezia, 1931) che ha da sempre fatto dialogare due passioni la pittura e la musica, ma è quest'ultima la guida affettiva ed emotiva che ha accompagnato sia il suo fare pittura sia il suo modo di far dialogare i colori sulla superficie. Nel suo ordine cromatico-compositivo è sempre bel visibile un imprevedibile atto pittorico, un'espressione fortemente individuale che va a interrompere quell'apparente armonia cromatica. Un segno, un tratto, una macchia di colore, una gocciolatura, alternativamente, scardinano la certezza percettiva. Scrive Marangon, nel catalogo che accompagna la mostra: "Dall'uniformità all'emergenza segnica, dal lucido all'opaco, dalla più assoluta oscurità alle sue innumerevoli modalità di reagire alla luce sempre diversamente filtrata, catturata, intensificata, modulata, talora ricorrendo persino all'inserimento di pungenti frammenti vetrosi, il nero diventa una sconfinata tastiera sulla quale avanzare sempre nuove ipotesi di superamento degli stessi confini del visibile." Come un'infinita ricerca aprioristica tra calcolo e intuizione, ma anche fra l'esigenza di un equilibrio dei procedimenti razionali e le percezioni quotidiane spesso suggerite da stati d'animo e da emozioni esistenziali nate da uno stato contemplativo del mondo e della sua una natura esteriore.

Alcune opere sono dominate da illusori squarci sulla superficie dai quali appare, con frequenze cromatiche diverse, una "straordinaria orchestrazione di insoliti registri cromatici, di alterne cadenze metriche e ritmiche, di dissonanti rapporti timbrici" espressi da un colore in grado di esternare un'intensa energia compositiva, all'interno di un campo pittorico dalla piatta bidimensionalità. E questo potrebbe diventare una sorta di limite, date le giovanili frequentazioni con il movimento spazialista dominato dall'esuberante personalità di Fontana (che Finzi non ha mai smesso di stimare) e della sua ricerca di andare oltre, oltrepassare i limiti dello spazio pittorico.

Il colore, segue così toni o timbri particolari; a volte seguendo l'intensità di un atto gestuale, altre invece alternando possibili configurazioni geometriche o dalle particolari forme, arrivando ad assecondare istantanee e improvvise accensioni della luce, quasi come delle interruzioni temporali, ma dal ritmo definito, che alternano lampi di luce e diversi timbri di colore, con altre di pausa e di assenza tonale.

Il colorismo presente nelle opere di Finzi fugge da ogni riferimento a tonalità naturalistiche, per aprire una ricerca che privilegia un colorismo estraneo a formule preconcette e fuori dai vincoli delle forme strutturanti della geometria lasciando alla temporalità del gesto il compito di definire i movimento e l'intensità cromatica per arrivare alla ricerca delle "risonanze interiori, che sono la vita dei colori" (Kandinskij).

Queste esperienze e la sua storia d'artista si possono cogliere direttamente dalla sua voce in un video opportunamente realizzato per l'occasione. E sono le sue parole e le sue espressioni a suggerirci di guardare la mostra non con gli occhi, ma attraverso i suoni. I colori fanno così emergere momenti di luce dalle dissonanze cromatiche come espressione di un timbro che dà colore al suono e ne scandisce il ritmo; suono e colore fanno così da contrappunto alle campiture cromatiche dalle quali affiorano movimenti materici dalle diverse lucentezze. Dall'opaco emergono tracce di un nero lucido, come a trafiggere la materia stessa, originando alterni spazi e illusorie profondità che riportano alle giovanili esperienze spazialistiche e a una personale pittura quale "attività all'insegna di un'inconfondibile coerenza formale pur nella varietà delle diverse offerte." (Toniato). Estrinsecare e oggettivare l'intero processo della realtà che si compie nell'esperienza individuale in cui la superficie diventa così il luogo dell'esperienza del dipingere. Non un'idea programmatica del fare pittura, quanto piuttosto una pittura in divenire che rende personale il lavoro di Finzi, quasi come una composizione jazz dove alla ritmica del contrabbasso si alternano squilli dissonanti dei fiati nel rauco suono dell'ancia del sassofono, e, in un accelerato ritmo, irrompono macchie di colore come un acuto della tromba di Miles o uno spaesato acuto di violino.

 

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aprile maggio 2011

 

 

Siberiana di Cocco

 

galleria Zamenhof - Milano

 

C'è dell'ironia che accompagna il lavoro Di Siberiana di Cocco. Un'ironia naturalmente sottesa che sostiene il procedere creativo e che si palesa nella fase percettiva. Un'ironia percepibile nella duplice sfaccettatura del procedere; se da un lato la composizione, nella sua formale costruzione e negli elementi che la compongono, si rimanda lo spettatore al passato e ai diversi percorsi dell'arte d'avanguardia, dall'altro l'artista viene materializzando un linguaggio personale e autonomo che caratterizza l'evoluzione espressiva del suo fare.

Già Patarini ha avuto modo di rilevare che le opere di Di Cocco si presentano come "una sintesi felice e originale di contributi diversissimi, attinti dalla più recente tradizione dell’arte contemporanea, e reinterpretati in chiave apparentemente ludica e scanzonata". I suoi riferimenti sono a una certa parte della Pop Art Americana, oppure a una particolare interpretazione della pittura Informale attraverso la manipolazione della materia, evidenziando anche una particolare gestualità in costante dialogo con la duttilità dei diversi elementi materici che costituiscono i suoi lavori. Ed è forse su questo conflitto linguistico che trova fondamento una lettura ironica, giacché conseguente all'anacronistico – di un prima e di un dopo – dialogare tra le due diverse identità. Così dolciumi, caramelle, perle, scarpe, statuette, piume, fil di ferro, ecc., pur essendo elementi di per sé autonomi, assumono, nel processo creativo, un'identità diversa, ma sempre alternativa al ruolo che questi hanno avuto nella vita precedente.

Nelle opere esposte alla galleria Liba di Pontedera e alla galleria Zamenhof, Di Cocco si esprime con un linguaggio personale e maturato negli anni, e ciò è riscontrabile in La corsa, o Soffio o ancora in Pista!!!. Composizioni nelle quali gli oggetti (possono essere delle scarpe, come delle piume o ancora dei fili di ferro, o altro come delle statuette), inseriti nel contesto creativo, vengono a concettualizzare le variabili forme comunicativo–espressive. Così il concetto di tattilità e di contatto diventano sinonimi di possesso e di conoscenza sia diretta che concettuale dei contenuti espressi. Una tattilità che, sebbene non sia sempre direttamente esperita, viene richiamata dalle qualità degli oggetti che compongono l'opera. Ecco quindi i dolciumi – come nel caso dell'opera Liquirizia - che restituiscono l'idea di gusto, o come dei reticolati rafforzano il significato di Cuore d'inverno (benché rosso, è freddo come l'inverno e pieno di spine).

Altri sensi sono stimolati; possiamo citare Suoni o Voci – formate da campanellini e smalti – che, proprio per la loro possibile utilizzabilità, propongono un rapporto immediato e attivo attraverso il quale lo spettatore è chiamato a partecipare a un immaginabile dialogo tra i propri sensi e quelli diversamente richiamati dalle composizioni dell'artista toscana. In opere come Voci (opera sonora si legge nella didascalia) formate da campanelli, s'invita a percorre la superficie con la mano fino alla vibrazione sonora dei campanellini o in Soffio a soffiare sulle piume per farle vibrare.

Le ampie campiture cromatiche non sono il risultato di un esercizio pittorico, ma di un comporre, di un mettere assieme consapevolmente elementi diversi ad altrettanti differenti colori, realizzando così opere astratte, che si rifanno al minimalismo; sono, infatti, composte di elementi di recupero, le cui qualità danno consistenza materica e caratterizzazione cromatica. Con questi elementi Di Cocco realizza delle figure geometriche semplici come quelle presenti in Femminino Sacro o nella più evidente Nuove Architetture, dove plexiglass, granuli di acrilico e resine vanno a dare nuova forma e corpo alla superficie.

Le opere di Di Cocco vivono nella consapevolezza che in fondo l'arte, con elementi e forme autonome, può raccontare realtà differenti, ed evidenziare le diverse intensità del loro esistere; come l'esistere nel mondo chiede di adattare la propria esperienza al divenire della realtà. All'artista è possibile interpretarla con il linguaggio dell'arte e grazie a questo ha la possibilità di commentarla attraverso i sensi e di ipotizzarne ironicamente un diverso esistere.

 

 

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aprile - maggio 2011

 

 

 

Domenico D'Oora

Painting Now - Università Bocconi - Milano

Galerie Appel Frankfurt am Main

 
Nell'ambito di Bocconi Art Gallery BAG - presso il nuovo edificio di via Roentgen, dell'Università Bocconi – sono state esposte alcune opere di Domenico D'Oora. Installazione che segue la mostra Painting Now presso La Galerie Appel Frankfurt am Main e che precede le prossime presso Galerie Lazertis di Zurigo e Arte Silva di Seregno.

In tutte queste iniziative l'artista focalizza la complessità della relazione tra colore e luce e della conseguente interazione in divenire della luce con lo spazio. Un'analisi che guarda alla luce sia come realtà fisica sia nelle sue illimitate possibilità di declinazione attraverso le variegate fasi percettive e di dialogo tra i diversi cromatismi. Una pittura dunque che esprime il suo esistere attraverso la pura fenomenologia di se stessa. Lontani perciò dal concettualizzare qualsiasi elemento che appartiene alla pittura se non il raffermare l'essenzialità dell'azione, del fare e della continuità dell'esercizio pittorico.

D'Oora ci viene così proponendo una riflessione sulla pittura e sul fare materialmente pittura, il che non vuole essere un ritorno o un ripercorrere, con identità e modi differenti, le esperienze espresse della Pittura Analitica o della Pittura-pittura degli anni settanta, ma avanzare una serie di ragionamenti e di riflessioni (anche scrivendoli come s'usava in quegli anni) sulla pittura, attraverso i quali l'artista lombardo intende riaffermare la superiorità dell'atto pittorico nell'evolutivo rapporto tra colore - superficie – spazio. Per questo tipo di impostazione le opere di D'Oora si mostrano essere tra le più significative nell'attuale ricerca astratta in Italia.

Le opere – Ipertrapezoide, (dittici sagomati), Trittici e le Sequences (polittici di monocromi) – presentano una singolare, quanto personale, espressione di un fare pittura, che gli permette di ottenere delle trasparenze e delle velature in grado di realizzare una particolare concentrazione cromatica. D'Oora viene così a stimolare l'attenzione dello spettatore portandolo, piano piano, a indagare la superficie. Un confronto però che non si focalizza immediatamente sull'aspetto cromatico esteriore, ma, come sottolinea l'artista: "È essenziale chiamare in causa un'inscindibile relazione spazio – superficie – colore, ove nessuno degli elementi prevalga e dove l'opera nel suo complesso sia ipotesi coerente di rigore formale – dalle risultanze indotte sempre come aleatorie – in una situazione di sospensione, di confronto con l'assenza." È proprio l'interrogativa visione proposta che fa apparire la superficie in una nuova veste: quella del teatro della luce. Si possono così individuare delle sequenze di colore che si alternano sopra marezzature quasi invisibili o nelle illusorie profondità che danno ritmo alla luce e timbro al colore. Così i gialli si privano di quella totale lucentezza per alternare opacità verticali, il bianco tende a interrompere la rifrazione della sua totalità cromatica per lasciare posto ad alcune inframezzature cromatiche di varia intensità, i rossi alternano la brillantezza con un'opacità dall'illusoria profondità.

Ulteriori valutazioni meriterebbero i recenti lavori di Domenico D'Oora, in relazione alla loro caratterizzazione formale. Già Angela Madesani rilevava che: "Il suo è un cammino verso l´essenza, che si muove tra pittura e scultura il cui scopo è la testimonianza, in una sorta di rincorsa di un indice che non è impronta del singolo, ma, forse utopico, tentativo di catturare la verità dell'esistenza." Un'affermazione confortata dalla specifica e caratteristica consistenza fisica del colore e delle forme che l'artista dà al supporto pittorico. Non dunque una superficie meramente bidimensionale ma un corpo cromatico che si misura con lo spazio. Un dialogo formale che apre a nuove comparazioni dialettiche attraverso le composizioni in dittico o trittico o tramite sequenze che gli permettono di alternare diverse intensità cromatiche e la conseguente variabilità della luce, dal nero al bianco dal rosso al giallo o al blu.

 

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Gennaio - Febbraio 2011

 

 

 

 

Arturo Carmassi

 

Galleria Liba – Pontedera

 

 

Arturo Carmassi è un artista coerente. Carmassi è un artista complesso e poliedrico. Carmassi è mosso da un fare sempre ricco di novità, di invenzione, di ricerca.

Queste affermazioni, in sintesi, sono state adoperate dai molti critici che si sono cimentati nella lettura delle opere dell'artista toscano. È indubbiamente vero che Carmassi è attratto dalla sperimentazione, dalla ricerca di nuovi linguaggi. E questo lo porta non solo a confrontarsi con altri artisti o movimenti con i quali si possono intravvedere similarità linguistiche. Non sono questi i parametri che attraggono l'artista, è semmai la sua indole che lo pone nelle condizioni di mettersi nuovamente in gioco, di affrontare nuove sfide, di cimentarsi e confrontarsi con l'attualità. E questo credo sia la sua grande qualità. La vitalità delle sue opere è l'espressione della vitalità del suo esistere, che si esprime nel suo essere attore trascinante benché chiuso nella sua splendida casa di Torre di Fucecchio. Mentre la sua energia espressiva lo rende sempre attuale sempre attento alle mutazioni dell'arte, senza mai trasformarsi in un esponente di un'avanguardia improvvisata o di un sostenitore di espressività linguistiche inconcludenti.

Arturo Carmassi ha raggiunto l'età della saggezza dei capelli bianchi. È la saggezza che appartiene agli artisti, consapevoli di avere alle spalle un percorso creativo nato da un fare quotidiano ed ininterrotto come lui stesso confessa: "Giorno dopo giorno, notte dopo notte ho faticato su ogni opera. Non le ho solo dipinte, le ho prima inventate e poi costruite. Ora sono pronte a funzionare, come macchine estetiche", che gli hanno costruito un'identità che non va paragonata a quella di altri. Né può diventare un'espressione temporanea strettamente legata alle novità di effimeri movimenti artistici. Né tanto meno il suo fare arte può essere inteso come una fiamma appartenente al futuribile artistico o a un'innovazione espressiva tout court. La sua storia d'artista si confronta con la storia dell'arte. Per questo il suo sperimentare è in realtà uno sperimentarsi in continuazione. E questo voler incontrare sé stesso nel suo percorso artistico oltrepassa quei confini che delineano l'attualità dell'arte contemporanea.

La mostra che ci  propone Carmassi non è solamente un'indagine sull'attualità, è la sintesi di una ricerca che muove dalla sperimentazione di nuove tecniche espressive, tanto da spiazzare lo spettatore. A volte ci aspettiamo che queste corrispondano a una nostra certezza. Non è sempre così. Va certo dato atto che in lui esistono ancora nuovi sviluppi che originano dalle esperienze artistiche che lo hanno fatto maturare. Come per altro il suo lavoro si è mostrato spesso come il risultato di un profondo dialogo con i contemporanei. Molte sue opere, infatti, sono il risultato di un intenso rapporto dialettico con artisti suoi contemporanei, come lo fu Alfredo Chighine, o con competenti mercanti come Ghiringhelli del Milione. Dunque il suo presentarsi con novità non fa che accentuare il suo essere e la sua identità d'artista.

Potrebbe sembrare, almeno a prima vista, che ci sia un passaggio non propriamente conseguente dalle sue spesse e intense materie cromatiche a questi suoi nuovi quadri-collages. Eppure Carmassi ha già lavorato modellando la carta (mi viene in mente l'aspettando Godot del 2003) e facendo del collage uno strumento privilegiato della sua lunga ricerca; e questo ciclo ci dà la visione di un artista che abbandona – seppur temporaneamente – il pennello, il colore, gli elementi poveri già inseriti sulla superficie, per adoperare le pagine dei fumetti. E non dei fumetti qualsiasi: quelli di Topolino. Interi numeri vengono smembrati e le pagine, sotto le forti mani dell'artista, prendono forma. Quest'elemento viene poi costruito seguendo un percorso dinamico per concorrere a definire un certo colorismo privo di sfumature e netto nei contrasti, poiché il colore dei fumetti è privo di gradazione tonale e ha tratti ben segnati da una decisa linea nera. Ne segue poi la disposizione sulla superficie. Un elemento viene posto accanto a un altro, seguendo la direzione e il movimento di un verso o la definizione di una forma. Carmassi sceglie la predominanza cromatica per dare dinamicità alla superficie e identità al percorso visivo. E ciò che a noi l'artista offre non pare essere solo un collage. Il suo operare si manifesta come l'espressione di un'immediatezza compositiva. Anzi il suo lavoro – che attinge certamente alle forme tridimensionali della costruzione formale propria della manipolazione della materia – è ancor più razionale e determinato. Ecco quindi che questa nuova produzione ci appare spiazzante. E non lo è per il materiale usato (Carmassi ha sempre inserito, nelle sue opere, materiali vari, tra i quali anche la carta), neanche per l'assenza del gesto pittorico, né ancora per la rinuncia ad una materia che, come il colore, registra ogni singolo movimento della mano, o risente dello spessore, dell'elasticità del pennello, o della consistenza della materia; ma per il mezzo usato: le pagine dei fumetti.

Ciò che rende problematica la sua modellazione è la ricerca di una dinamicità che sta tra il casuale e la ri-composizione della materia sempre con la certezza di operare all'interno di un'azione estetica e nel voler dare identità a una nuova forma linguistica. È però sempre un fare che guarda alla storia dell'arte e al suo passato, perché Carmassi "si è inventato un linguaggio alla misura delle sue visioni ..." come ha inteso Jean-Marie Drot, il quale, nella prefazione dell'ultimo libro/catalogo del pittore toscano, scrive: "Indietreggiando di qualche passo e voltandomi bruscamente, ho avuto l’impressione che all’interno della tela, tutto cominciasse a muoversi. A stormire. Ad un tratto, ero davanti a quadri-collages che mi suggerivano un ambiente sonoro, esattamente come succede vicino a un ciuffo di lavanda che centinaia di api, calabroni e vespe, agitando le ali, fanno cantare a mezzogiorno."

 

 

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Gennaio - Febbraio 2011

 

 

 

 

 

Adoplh Gottlieb

 

Collezione Peggy Guggenheim - Venezia

 

Luca Massimo Barbero, curando la retrospettiva di Adolph Gottiled (New York, 1903-1974) guarda, ancora una volta, alla tradizione pittorica americana, anzi newyorkese, quella più intensa e vivace del secondo dopoguerra statunitense. La mostra, infatti, si colloca nell'ambito di una linea d'indagine, perseguita dal museo veneziano in occasione delle personali dedicate a William Baziotes, Jackson Pollock, e Richard Pousette-Dart; in particolare su quell'emblematica generazione d'artisti d'oltreoceano il cui linguaggio nasce e matura proprio negli anni in cui Peggy Guggenheim apre a New York la sua galleria Art of This Century.

La mostra è organizzata in collaborazione con la Fondazione Adolph and Esther Gottlieb, New York, da cui provengono molte opere, e include prestiti da musei quali il Museum Frieder Burda di Baden-Baden, il museo Solomon R. Guggenheim di New York, e il Musée national d'art moderne (Centre Pompidou) di Parigi, oltre all'American Contemporary Art Gallery di Monaco e da diverse collezioni private.

L'esperienza artistica di Adolph Gottlied ha i suoi fondamenti il quell'importante bagaglio culturale che, dopo l'avvento delle dittature, si è trasferito in America assieme a molti protagonisti del mondo artistico europeo. Una ricerca espressiva che affonda le sue radici in quelle avanguardie storiche, tenacemente contrastate dai regimi totalitari europei che consideravano quell'arte come espressione dell'entartete Kunst (arte degenerata).

Adolph Gottlieb non particolarmente noto in Italia ma colonna portante e anticipatore di molti movimenti pittorici sorti negli Stati Uniti. L'artista soggiornò, nei primi anni venti, in Europa nelle più importanti città di allora Parigi, Berlino e Monaco: qui ebbe modo di confrontarsi direttamente con l'arte sperimentale europea. Due anni dopo ritornò in patria carico di novità e di una visone nuova della pittura. Infatti, le opere di quegli anni risentivano della cultura tedesca legata allo studio della psiche e delle forme simboliche che accompagnano le opere di molti Surrealisti. Dieci anni più tardi, quando strinse amicizia con gli artisti provenienti dall'Europa realizzò le prime opere ascrivibili all'espressionismo e all'astrattismo. Saldò la sua amicizia con Rothko con il quale scrisse quell’ormai storica lettera pubblicata sul "The New York Times" del 13 giugno del 1943, considerata la prima formale dichiarazione d’intenti dell’Espressionismo Astratto. Baziotes, Willem de Kooning, Robert Motherwell, Newman, Pollock, Pousette-Dart, Clyfford Still, divennero gli artisti con i quali apri un dialogo costruttivo.

La mostra è stata allestita con l'intento di evidenziare la formazione artistica di Gottlieb. Infatti, il percorso è scandito da un ordine cronologico progressivo che, se da un lato, mette il luce l'evoluzione linguistica dall'altro viene sottolineando gli stimoli culturali dell'epoca che diversamente hanno condizionato le opere dell'artista statunitense. Il curatore ha così evidenziato l'importanza che ha avuto, nelle prime composizioni dell'artista, la nuova scienza della psicanalisi. Soffermandosi in particolare sulle opere che risentono dell'influenza della psicologia junghiana, soprattutto la raffigurazione dei miti e dei simboli. Le opere che sono ascritte alla fase surrealista (essenzialmente ispirate al suo soggiorno nel deserto dell' Arizona), sono contrassegnate sia da un forte colorismo che dalla matericità del colore che dà spessore e intensità alla composizione; in particolare negli elementi simbolisti che concorrono alla definizione dell'opera.

L'esposizione continua fino all’approdo all'espressionismo e all'astrattismo. Un procedere che ha visto il suo linguaggio pittorico progressivamente trasformarsi. Si assiste quindi al graduale abbandono del simbolismo e della rappresentazione della realtà e l'affrancarsi per gradi di un linguaggio astratto privo di simboli storicizzati più vicino a un codice più universale ed essenziale. Le forme, nel corso degli anni, vanno quindi trasformandosi in "forme archetipe" in quelle figure ovoidali sospese nello scenario compositivo del dipinto. I paesaggi sono popolati da figure rudimentali, in cui la rappresentazione si semplifica ulteriormente. L'artista viene, in questo modo, privilegiando il colore, tanto che oggi Gottlieb è considerato uno dei coloristi tecnicamente più dotati del periodo.

La sensazione che l'artista contribuisce a creare è certamente quella di un rapporto profondamente segnato dalla serenità di un fare pittura che si è materializzata attraverso la realizzazione di una campitura compatta e omogenea e in un tavolozza dove sono preminenti i gialli, i blu o i rosa. Materializzando così – soprattutto nei Paesaggi immaginari – quei momenti di introversione come espressione di speranze future e di serenità con uno stato d’animo che lo ha intimamente differenziato da quello più problematico di Rothko.

In mostra sono presenti anche piccole sculture, ideali tridimensionali di quell’immagine cosmica imperante nell’arte di Gottlieb: opere in cartone colorato, studi primigeni di un linguaggio plastico, affiancate, secondo la cronologia, alle tematiche pittoriche che li hanno ispirati.

La mostra è accompagnata da un catalogo illustrato, edito da Giunti, con saggi di Luca Massimo Barbero, Curatore Associato della Collezione Peggy Guggenheim, e Pepe Karmel, Professore Associato e Presidente del Dipartimento di Belle Arti della New York University.

 

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