Galleria Plurima/Turchetto Milano.
Rodolfo Aricò La fisicità del colore
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E per principio l'equilibrio. Scriveva Filiberto Menna, ancora nel 1977 a proposito delle opere di Aricò che "la semplificazione purista e la rigidità di questi schemi e figure, ritrovano, in un colore ambiguamente diviso tra freddezza artificiale e fluidità sensoriale, un preciso aggancio mondano". Una citazione questa che appare ancora corrispondente alle ultime opere dell'artista milanese. L'equilibrio, quale stato di quiete di due o più elementi sollecitati da forze uguali e contrarie, permette dunque di muoversi con più componenti espressive anche contrarie tra di loro, purché le loro qualità non interferiscano, alterandone il senso originario. Si lascia così ad un evidente dualismo la possibilità di una lettura problematica, spesso giustificata dalla logica di una situazione artistica ben definita, nella quale vi è complementarietà tra i due termini tra loro antitetici. Ragione-sensualità, geometria-gesto, presenza-assenza sono i termini antitetici che definiscono il dualismo nelle opere di Aricò. Una qualità dunque che non annulla il suo contrario, anzi piuttosto riesce a convivere e completarsi l'una con l'altra. L'autore attraverso il colore - primo elemento specifico del fare pittura - mette in luce la pura fisicità della pittorica, con sfumature e gradienze cromatiche ma anche con gli effetti del contrasto e della trasparenza. E in questo mettere e poi togliere per rimettere ancora si va evidenziando la funzione complementare di una forma che segue un percorso ben diverso da quello della classica superficie bidimensionale. Non è una forma, per quanto imprecisa e strana, così immediata come appare ad un primo e superficiale sguardo, ma è data da una dinamica di tipo geometrico, in quanto la parte limite del quadro - i bordi - rincorrono le estremità delle linee tracciate sulla superficie. E' una superficie che però non risente dell'assioma di Fontana e cioè che oltre la superficie non è possibile andare, in quanto Aricò, se in primo tempo agisce in fase di co-struzione con sovrapposizioni cartacee o strati di colore, immediatamente dopo ne provoca la dissoluzione in quanto piano assoluto, entrandovi o attraversandola nel suo spesso-re, alla ricerca del corpo dalle molteplici qualità. E ogni operazione vale per quanto di essa rimane nell'opera indipendentemente dalla presenza dell'altra, o di altre.
"Quando dipingo non mi pongo il problema se sono o no nell'avanguardia. Mi lascio allo scorrere del tempo, all'immersione nella mia soggettività, al fluire della tecnica provvisoria che in quella determinata circostanza sembra possedere un interesse, un qualche motivo di possibilità metamorfica di trasformazione della muta materia, di quell'impercettibile possibilità di rendere vivo ciò che resta solo inspiegabile e misterioso." Aricò in questa citazione, pubblicata in occasione di una personale alla galleria Plurima di Udine, si pone quasi al di fuori di una possibile problematica relativa alla definizione del proprio essere pittore, rivendicando così una posizione artistica ed estetica, che sta fuori di un percorso storico massificato. Lo dice con la coscienza dell'artista militante, poiché il suo lavoro attraversa, con autonomia e a pieno titolo, gli ultimi trent'anni della storia dell'astrattismo. E, questo suo appartenere ad una storia, gli permette di collocarsi in una posizione di superamento delle facili tendenze o definizioni di tipo postmoderno, anzi lo include in una sorta di "modernismo" , se per questo si intende mantenere un costante riferimento "a quella somma complessa di teorie e di opere dell'avanguardia non figurativa cui bisogna costantemente confrontarsi" (C. Cerritelli). E' dunque un riappropriarsi di un concetto di avanguardia nel senso evoluzionistico. Ciò naturalmente non può rappresentare un ritorno al moderno inteso come epoca di esaltazione dei valori del nuovo, dell'originalità o ancora dell'immediato, quanto piuttosto un'idea di progresso e di dialogo costante con esperienze precedenti. La posizione di Aricò in questo caso è certamente una posizione critico/analitica, in quanto il ruolo dell'artista è senz'altro quello di considerare la creatività come un atto in costante verifica con le esperienze del passato, in modo tale da rivela re, il questo percorso, l'evoluzione della storia. Citare la storia dell'arte nel fare nuovamente arte, pone la pittura a contatto con la sua storia, ma, contemporaneamente, ne esclude la pretesa che ogni nuovo prodotto debba essere rivisto, o rinnovato, o ancora reinterpretato con il filtro della storia. Questa non può essere maestra di evoluzionismi, né può essere configurata come strumento di lettura del presente o, peggio ancora del futuro. La storia è, per definizione, sempre in evoluzione. Aricò, come pittore, può dunque rivendicare un percorso che va verso l'infinito di ogni teoria moderna, che per altro non può che manifestarsi in un continuo ammodernamento privo di stili vecchi e fin troppo usati. E questo suo percorso lo possiamo leggere con una certa naturalezza, con una precisa predisposizione logica ed una produzione artistica che non sembra abbandonare una via tracciata molti anni or sono. Un percorso dunque in grado di dimostrare come l'evoluzione della pittura raccolga, piano piano e con una forte carica soggettiva (la stessa che poi distingue un artista da un semplice pittore) contraddistinta da piccoli elementi capaci però di dare all'opera la definizione di opera d'arte. Le recenti composizioni, sia in carta che su tela, dell'artista milanese, portano a riflettere sugli aspetti più vicini dell'evoluzione di un singolare modernismo, e questo perché l'evoluzione - che appare certamente lenta se cercata con insistenza nelle sue opere - è sicura e precisa nella solidità intellettuale. La storia di Aricò pittore conduce a tracciare quella linea razionale e progettuale che sta a monte dell'operare dell'artista. Un percorso dunque che non sfugge a solide e precise categorie - comunque riferibili ad un singolo artista - ma anche le stesse esperienze concorrono alla formazione di un'idea di modernità che fa della pittura uno dei capisaldi della ricerca analitica e le stesse muovono verso l'affermazione di un linguaggio espressivo sempre in fase di verifica e di sistemazione formale. Non è un caso che lo stesso artista si ponga la necessità di valutare il proprio lavoro sotto un aspetto puramente teorico e questo perché ogni indicazione di lettura porta a individuare due momenti specifici della pittura dell'artista milanese, e, a proposito, nel 1977 Filiberto Menna scriveva di lui "la semplificazione purista e la rigidità di questi schemi e figure, ritrovano, in un colore ambiguamente diviso tra freddezza artificiale e fluidità sensoriale, un preciso aggancio mondano". Appare dunque lecita la possibilità di una interpretazione in chiave problematica, spesso giustificata da una situazione artistica ben definita, nella quale ogni proposta di lettura si muove tra termini tra loro antitetici, come ragione-sensualità, geometria-gesto, presenza-assenza. Una qualità dunque che non annulla il suo contrario, anzi entrambi riescono a convivere e completarsi l'uno con l'altro. L'autore attraverso il colore mette in luce la pura fisicità dell'atto pittorico, con sfumature e gradienze cromatiche e con gli effetti del contrasto e della trasparenza. La ricerca poi muove verso la realizzazione di una forma che opportunamente segue un percorso ben diverso da quello della classica superficie bidimensionale. Non è una forma, per quanto imprecisa e strana, così immediata come appare ad un primo e irriflessivo sguardo, ma è data da una dina mica di tipo geometrico, in quanto il perimetro rincorre le estremità delle linee, spesso appena percettibili, tracciate sulla superficie; e contemporaneamente la forma così intesa, si propone, contravvenendo all'assioma di Fontana, di occupare discretamente lo spazio circostante. In questo sempre incompleto dialogo tra un interno (opera) ed un esterno (spazio) si vanno precisando i motivi di demarcazione tra la superficie, energicamente delimitata da forti variazioni tonali attraverso una pittura che mira al cangiantismo dei colori ricchi di improvvisi lampeggia menti cromatici e, dall'altra, da una ipotesi di forma. E quest'ultima propone un movimento dinamico, che non è mai chiuso dal perimetro o ancora evidenzia una forma spesso in disequilibrio, poiché privo di linee di riferimento con lo spazio esterno. Gli effetti sulla simultaneità tra interno ed esterno, ed il loro costante confronto, sono il risultato di un medesimo pro cesso creativo che si regge sull'inscindibilità del pensare e del fare al fine di rendere vivo ciò che resta solo inspiegabile e misterioso. Il pensare la propria esperienza come modello da superare e non da imitare, per Aricò significa uscire da una limitazione creativa e ripetitiva proposta dalle concezioni estetiche del postmoderno, attraverso il recupero di una continuità di un operare autonomo fuori da ogni moda, e in tal modo si viene sottolineando la presenza marcatamente soggettiva dell'artista e della lucidità del suo atto pittorico. In Aricò non si dà dunque una pittura come gesto, come necessità espressiva immediata, ma come sviluppo di un'idea dell'astrattismo, che non sembra uscire da un logico processo evolutivo, anzi si mostra coerente ai principi di una concezione intimistica della pittura. La palese antinomia tra interno ed esterno separa distintamente i componenti linguistici dell'arte astratta, se infatti all'interno trovano posto gli elementi che concorrono a definire la superficie, nell'esterno si riscontrano quelli che definiscono la forma; e ancora nel primo vi si leggono comportamenti che mirano ad interpretare il colore, l'equilibrio, dall'altro il disequilibrio rappresenta un momento di riflessione, come un risultato di un disegno, di un'intenzione razionale nella quale la progettualità, propria della geometria, trova la sua più ampia definizione di forma, come risultanza di un'astrazione lirica, nella quale si privilegia un processo di attenuazione delle motivazioni sensoriali, ma anche di quelle più specificamente emozionali, comunque come conseguenza di un agire più analitico e strutturale.
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Galleria Plurima - Udine
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Dopo Fontana la pittura è andata man mano
privilegiando lo spazio, ed è lo stesso spazio ad impegnare ed
interessare la pittura di Gianni Asdrubali, certamente in un modo e con
strumenti alquanto diversi. Non e più un gesto positivo che segna il
superamento materiale del limite proposto dalla te-la di un quadro,
quanto la presenza dinamica di un segno che induce ad una personale
interpretazione della superficie, nell'estenuante ricerca di un'armonia
spaziale ricca di luce e di leggerezza gestuale.
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del gioco e della fantasia Studio Delise - Portogruaro
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Galleria Exit -
Gorizia |
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ovvero della poesia della pittura
Sumithra - Ravenna Galleria Delise Portogruaro Galleria Grigoletti - Pordenone
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"Dipingere è sempre così vago" disse una volta Vincenzo Cecchini a proposito della pittura. Ma la sua pittura è proprio così, vaga, eterea, fatta di sogni e di riflessione sul colore e sulla luce, ma sempre momento ludico, piacevole, perfino interiore e l'azione è intensa, passionale come spetta alla sua personalità d'artista. E la necessità d'esternare questo suo carattere fa sì che la pittura diventi un fatto legato alla quotidianità, è quasi un mestiere per lui dipingere. E proprio attraverso questo suo fare nasce una riflessione quasi empirica sui materiali, sui componenti della pittura. Primo fra tutti il colore, usato spesso con gradazioni chiare, dall’eterea consistenza, quasi un velo calato sulla superficie. I suoi colori non sono propriamente dei colori comuni, sono delle invenzioni dei risultati alchemici realizzati con vecchie ricette. I pigmenti, le colle sono infatti prodotti direttamente dal l'artista. È proprio da questo momento che nasce il quadro. Un frutto della sua attività e del l'immediato rapporto con i materiali, con i quali vive un'intensa relazione d'interscambio. Dunque una pittura che si consuma nel divenire, fino a diventare tutt’uno con la superficie e col corpo del quadro. Solo in apparenza il colore gioca con elementi formali o prospettici dovuti essenzialmente alle trasparenze, alle sovrapposizione di colore, o ancora al maggior o minor spessore dei pigmenti. La sua pittura non ricalca le vecchie teorie del monocromo come cancellazione, né come ripensamento di un agire, ma riaffermare il grado zero della pittura, il grado cioè dal quale tutto è possibile. Le recenti tele propongono il colore come elemento autonomo, che ha consistenza fisica e significanza semantica indipendentemente da ogni altra realtà con la quale l’opera entra in contatto. Il colore è sempre etereo, pronto a cangiamenti repentini, come necessaria conseguenza di un fatto emotivo e coinvolgente. Nella pittura di Cecchini approdano infine anche diverse componenti umane, forse malinconiche, forse gioiose, ma comunque nascenti da un rapporto gelosamente personale e diretto con il colore e con una tela che disegna la storia del divenire dinamico di una personalità artistica.
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Artestudio Clocchiati - Udine |
La vita, a volte, sa regalare ad un artista la discrezione del conoscere. e ciò, almeno per Aldo Coló e un grande pregio. E se questa discrezione sa trasformarsi in un momento creativo, ecco che la creatività diventa parte integrante e determinante dell'operare di un artista fino a definirne la personalità e la creatività. Chi ha avuto modo di parlare con Coló ha scoperto che non appartiene alla schiera dei pittori puri. È un poeta-intellettuale d'altri tempi, a dirla con parole povere é un pensatore della pittura. E come tale ha saputo arricchire la sua pittura non di certezze, ma di quei dubbi, di quelle riflessioni che sanno coniugare gli avvenimenti dell'arte passata con le esperienze più intime che segnano la vita d'artista di un uomo. Il carattere schivo di Coló ci impone di guardare i suoi lavori con una certa autonomia percettiva, con un pensare le cose nell'immediato vedere le cose. E lui stesso sa che così si devono guardare le sue opere, perché solo in questo modo lo spettatore é costretto a cercare la conoscenza, la sapienza che l'artista manifesta nel raccogliere le esperienze che il linguaggio dell'arte sa fornire anche a chi non vive a stretto contato con il cosiddetto "mondo dell'arte". Ma il lettore attento sa anche cogliere e leggere autonomamente - perché le opere parlano da sole - il piacere di guardare l'arte. Sarebbe dunque banale cercare nelle opere dell'artista friulano una singolare paternità, poiché nelle sue opere si intravedono le esperienze più significative, più importanti, quelle che hanno segnato la storia dell'astrattismo, ma anche la storia del colore e della forma. Vi é nell'artista anche la coscienza che la storia, e con essa anche la storia della pittura, sia un sistema della comunicazione tra un io-singolo e tanti altri con i quali é possibile condividere le molteplici conoscenze del sapere. E queste conoscenze Coló le ha sapute "pensare" prima di interpretarle, come colui che prepara l'opera prima di realizzarla, anteponendo la riflessione ad ogni azione, ad ogni precostituita forma espressiva. Nelle sue opere dunque non vi si intravede una ricerca di originalità, ma la certezza che l'arte non deve uscire da un'idea di continuità. Da quella continuità si delinea il suo singolare ed individuale percorso pittorico che parte dal cubismo, per sfiorare, ma solo in parte, l'informale. La sua pittura ha di certo osservato l'opacità cromatica delle nature morte di Morandi, come ha fatto uso della geometria euclidea, accettando quell'idea di forma pura che vive nella certezza della sua misurabilità matematica. La stessa geometria che però sa anche trasformarsi in un "segno" di per sé significante e comunicativo, come un autoritratto che va quotidianamente a mutare con il divenire delle cose cercando però di cogliere contemporaneamente l'essenza del presente. I più intimi tasselli vengono così gradualmente uniti come a sommare una ad una le esperienze della pittura con quelle della vita.
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le visioni della luce |
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Studio
Delise |
Tano Festa - artista recentemente
scomparso - è stato un esponente della scuola romana di Piazza del
Popolo e importante rappresentante della Pop-Art italiana. A lui la
prossima edizione della Biennale di Venezia dedicherà una retrospettiva, assieme al fratello Lo Savio (il pittore come lui stesso
definiva), e che vede esposte le opere che hanno segnato un'epoca:
quella degli anni sessanta.
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Fernardo Garbellotto La forma frattale
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Nel più recente impegno artistico di Garbellotto, il colore assume un
ruolo di contorno alla composizione formale, in quanto la ricerca
dell'artista si muove, in modo analitico, nella dimensione della
geometria frattale, definita anche l'architettura del caos, ovvero
l'ordine della casualità apparente. La forma, oggetto di analisi,
mostra un aspetto diversificato e autonomo, dove la casualità o se
vogliamo l'irrazionalità, gioca da protagonista, mettendo in evidenza
come uno degli aspetti più interessanti della dinamica non lineare sia
una scoperta dei sistemi deterministici apparentemente semplici, ma che
preludono ad effetti molto complicati ed imprevedibili, come dei modelli
matematici dai processi di autoregolamentazione che caratterizzano i
sistemi dell'equilibrio.
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Così Parlò Cézanne Studio Tommaseo -Trieste
Studio Leonardi Genova
galleria Plurima Udine |
Con questa mostra, presso la galleria Tommaseo di Trieste, Guido Sartorelli riprende, dopo Monet e Mondrian, la sua personale lettura delle città europee. Attraverso l’occhio meccanico della macchina fotografica, ma seguendo, contemporaneamente, il filtro delle esperienze di altri artisti si . Il tema sono e restano comunque le città, in questa mostra la città si trasforma nel luogo pittorico di Cézanne: la Montagna di Sainte–Victoire. Un luogo che viene sezionato e poi ricomposto nei suoi reperti, alla ricerca delle innumerevoli combinazioni che rendono l’opera di Sartorelli così mutevole e cangiante proprio nella sua più articolata dinamicità compositiva. Questo ciclo intende ricomporre, come in un’astratta visione quei particolari che hanno per certi versi segnato l’opera di Cézanne. Proprio la scomposizione del paesaggio nelle sue diverse visioni, sulle variazioni cromatiche e sulle diversificazioni tonali della luce, l’artista francese aveva così cominciato a dar forma al cubismo e a sottolineare gli elementi linguistici propri dell’astrattismo. Sartorelli ha voluto replicare (il titolo Così parlò Cézanne, ci sembra eloquente e sufficiente a dare una dimensione teorica a tutto il lavoro) a questa ricerca proponendoci dapprima le scomposizioni dell’immagine nel suo insieme. Di questo ne ha ricercato alcuni elementi minimi ma nello stesso tempo specifici, isolati e ricomposti nel sistema linguistico che da alcuni anni caratterizza l’opera dell’artista. Se a un lato dunque viene a realizzare un composizione che predilige una divisione formale basata sulla diversa intensità della luce, dall’altro gli aspetti formali dell’oggetto o del particolare reale si insinuano, ripetendosi fin quasi all’infinito, originando così quella ripetitività che in ultima analisi può considerarsi come l’esaurimento di un linguaggio, il cui scopo finale è quello di creare un sistema di comunicazione inesauribile.
Fare i conti con il passato. Pare essere questo un atto estetico frequente per molti artisti. Abbiamo recentemente assistito ad operazioni culturali o pseudo tali che fondavano la loro estetica su "citazioni" o su "omaggi" a protagonisti del passato. La citazione di Monet propostaci da Guido Sartorelli non pare però rientrare nei due casi menzionati. La sua é una rilettura del tutto personale di un "metodo" per leggere la luce, e, nello steso tempo, ripresentare una sua alquanto singolare riflessione sulla frammentazione dell'immagine. Le ricerche, proposte dall'artista veneziano, ripercorrono, solo parzialmente e per brevi tratti, le esperienze del Monet nelle sue “Cattedrali” di Rouen. Ma quello che interessa Sartorelli non é il colore, non la gradazione cromatica della luce, ma solo la mutevolezza della percezione dell'oggetto-frammento nelle diverse ore della giornata. E come Monet si appostava davanti alla cattedrale e registrava il trascorrere del tempo, e quindi lo spostarsi della luce sulla superficie della cattedrale, anche Sartorelli, con la macchina fotografica, ha raccolto le diverse fasi, le diverse intensità, le molteplici variazioni tonali della luce riflessa da un frammento della cattedrale. L'atto seguente - ma questo può accadere dovunque - é la composizione a collage dei frammenti. La ripetizione all'infinito di un frammento non dà all'immagine un significato particolare, ma crea un momento di sospensione teso alla riflessione sul frammento come espressione di un'idea del tutto. Ma la ricerca proposta da Sartorelli si spoglia ulteriormente di quell'immediatezza che é stata per tanto tempo l'elemento distintivo dell'impressionismo. Il mediatore dell'operare é la xerocopia. Le immagini vengono ripetutamente riprodotte fino all'infinito, fino ad esaurire l'esponezialitá dell'atto del ripetersi, fino alla ricomposizione dei frammenti, come elementi semiologici, in un'unica immagine capace di riproporre una rilettura della luce. E come le “Cattedrali” di Monet, anche i frammenti di Sartorelli si ricompongono nell'azione del trascorrere del tempo segnato dalla mutazione della luce. Il mezzo meccanico - la macchina fotografica - non esaurisce completamene la sua azione di riproduzione della realtà. Interviene attivamente un'altra macchina – il riproduttore xerografico - con il compito di trasformare l’intensità della "sua" luce. I frammenti della cattedrale sono così riprodotti secondo lucentezze diverse, secondo delle gradazioni che non appartengono alla natura, ma sono il prodotto dell’artificiosità della macchina. La mutevolezza della luce si trasforma dunque in contrasto o in luminosità. L'effetto che alla fine si ottiene altera lo spessore fintantoché la materia assume volumi irreali. Le piattezze si fanno varco sulla superficie fino ad annullare l'idea di forma che alberga nella nostra memoria. I corpi della cattedrale, secondo diverse intensità, prendono o perdono spessore, dando cosi alla figura un'irreale materialità, capace però di immergerci in astrazioni immaginifiche, se non addirittura surreali, cariche di quelle sensazioni che solo la mediazione della macchina può dare allo spettatore.
Sembra difficile paragonare l’attività di Sartorelli, fotografo, a quella di Piet Mondrian, pittore. Eppure ci sono degli elementi che fanno sì che le opere di Sartorelli siano una conseguenza dell’impostazione espressiva dell’artista olandese. Nella famosa Facciata di chiesa del 1914, Mondrian mette in evidenza alcuni aspetti costitutivi e significativi (se non altro per riconoscerne la fonte) di uno spazio ricomposto nella forma esclusivamente bidimensionale. E sono proprio queste due linee essenziali, l’orizzontale e verticale che interessano all’artista veneziano. Città e architettura, un binomio inscindibile nel quale però si possono raccogliere elementi minimi di un particolare interesse e importanza compositiva. Sartorelli infatti ha sempre mostrato attenzione per questi due aspetti fisici del luogo, inteso come spazio vivibile, ma anche come risultato del divenire delle civiltà. E non è un caso se Fagone, nella presentazione della mostra, cita i principi dell’identificazione dello spazio di Braudel: “il valore più certo che noi riconosciamo alla città è quello di essere segno, insieme di segni, immagine”. Credo che siano questi i tre componenti linguistici (immagine, segno, forma) a contribuire alla definizione del lavoro di Sartorelli. Le sue opere infatti sono composte da frammenti di fotografia, riprodotti in xerografia, che serialmente riproducono degli elementi distintivi delle città visitate, vissute e fotografate. Da Mondrian l’artista copia la composizione e la sistemazione dei frammenti; una orizzontalità e verticalità che alludono alla pianta della città: Barcellona, Torino, Trieste, New York, Ferrara sono città le cui strade sono perpendicolari. Le loro piante richiamano, concettualmente, da sole Mondrian, a Sartorelli non rimane che raccogliere ed inserire negli spazi i frammenti distintivi della città, ed è nel saper cogliere questa similitudine che sta la capacità creativa dell’artista. E questo scomporre la città nelle sue componenti spaziali e architettoniche, nel distinguere l’intervento umano da quello puramente naturale, mette Sartorelli nelle condizioni di ricreare un luogo ed un ambiente che pur non trascendendo dalla sua storia, diventa un fatto indipendente e fantastico, carico di tutte le problematiche che caratterizzano ogni composizione artistica.
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La galleria d'Arte Contemporanea di Portogruaro |
La galleria d’Arte Contemporanea di Portogruaro ha origini nell’immediato dopoguerra grazie all’interesse di alcuni cittadini, tra i quali un amico di molti giovani artisti di allora, Sinclair Ravazzolo. Il suo interesse per la pittura – oltreché personale - ha avuto un intento divulgativo con lo scopo di mettere in evidenza come, in quegli anni difficili, la pittura e l’arte tutta avesse trovato nuove ispirazioni e nuove motivazioni per rinnovarsi. Nel vicino Friuli, grazie alla forte personalità poetica di Pasolini, di Bartolini, ha trovato origine e concretezza, non solo letteraria, il “realismo friulano”. In pittura, De Rocco, Zigaina ed altri hanno approfondito i temi realistici e popolari. Anche a Portogruaro sono quindi giunti gli echi di questo movimento. Gli artisti, che man mano venivano ospitati nel suggestivo spazio ricavato in due molini duecenteschi, hanno via via trovato consenso anche a livello nazionale. Ciò, nel tempo, ha permesso che la Galleria trovasse una sua dimensione ed una sua notorietà, tanto che nel 1956 nacque ufficialmente come Galleria Comunale d’Arte Contemporanea. Ma l’impegno non si è limitato solamente alla semplice esposizione di personali o collettive di artisti, tra i quali vale la pena citare: De Pisis, Carena, Guttuso, Saetti, Guidi, Afro, Vedova, Springolo ecc. Per avvicinare i giovani al mondo dell’arte, vennero istituite prima l’ex tempore di pittura – allora di moda, almeno fino agli anni settanta – poi la Biennale d’arte Grafica del Triveneto. Questa manifestazione durò quasi un decennio, e vide la partecipazione di tutti i più importanti artisti italiani e della vicina Jugoslavia; a queste esposizioni parteciparono Semeghini, Van Rossen, Zwiers, Jakac, Sassu, Carà, Tramontin e molti altri. La giuria allora era formata dai nomi più importanti della critica veneziana come Perocco, Comisso, Benetton, Manzano, Delogu, Pascutto ecc. Poi come tutte le cose anche la Galleria ebbe un momento di oblio che coincise con il decadimento strutturale della sede espositiva. Dopo più di un decennio di lavori, nel 1993 la galleria, grazie alla tenace volontà del giovane Andrea Martella, Assessore alla cultura, la Galleria ebbe un suo statuto e un suo direttore nella persona di Giancarlo Pauletto. Sotto la sua direzione lo spazio espositivo divenne ambito da molti artisti. Furono realizzate circa trenta mostre, tra le quali ricordiamo una molto singolare sui disegni di Pier Paolo Pasolini, la ricostruzione del Realismo Friulano, Zigaina, De rocco, Culos, ecc. Ma anche di Piero d’Orazio e il cinquantenario - l’unico – di Forma1. Non va certo dimenticata anche la partecipazione di molti giovani che operano nel campo della pura pittura; significativa è stata la mostra Fermare lo sguardo curata da Cerritelli, con Negri, Costantini, Cascio, ed altri. Dopo quattro anni, periodo nel quale si è indagato nel mondo dell’arte veneto-friulana, con la mia direzione, si è intrapresa un via più ampia, ricercando, nella stessa storia della galleria, un percorso che ricostruisse le più complesse vicende del mondo dell’arte non solo legate al Triveneto – come nel caso di Brand, Zotti, Sonego, del Giudice, Sgubin Sartorelli, Finzi, Viola, Pope, Garbellotto, Tramontin, ecc.- ma che indagasse anche nel mondo della pittura nazionale, la romana Eva Fisher. Nel 1998 grande riscontro hanno avuto le mostre sulla geometria (Alviani, Colò, Bottecchia, Ciussi, Pope, Gard, Finzi), gli Spazialisti, con opere di Tancredi, Crippa, Deluigi, Morandis, Scanavino, Bacci, Fontana, Guidi. Si è celebrato il trentennale della morte e, in anticipo, il centenario della nascita di uno dei più grandi artisti italiani: Lucio Fontana. Una trentina di Concetti Spaziali dalla fine degli anni quaranta, all’anno della morte. Ottanta invece sono state le foto della fotografa Tina Modotti. Quest’anno si stanno realizzando alcune manifestazioni di un certo interesse storico. Sono presenti, con personali, alcuni dei più significativi protagonisti dell’arte di questo secondo dopoguerra: Emilio Vedova, Enrico Castellani, Bonalumi, lo scultore Alberto Viani. Ma l’intento programmatico di quest’affascinante e avvincente spazio, pur nella limitatezza del numero delle manifestazioni, ha tutta l’intenzione di essere un luogo all’interno del quale l’arte possa riconoscersi e creare le condizioni affinché vengano registrati gli stimoli e le sensazioni del cambiamento, nonché le diverse direzioni della ricerca artistica, e dare un apprezzabile contributo al dibattito sull’arte contemporanea.
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Accademia Carrara Bergamo |
Un’esauriente mostra dell’attività artistica dei due fratelli Joe e Gianni Colombo è stata presentata alla Galleria d'Arte Moderna di Bergamo. Uno spaccato delle esperienze artistiche di quella Milano degli anni cinquanta e sessanta, quando la ricerca e le proposte artistiche s'aprivano verso dimensioni e forme spesso inimmaginabili e per questo frutto della più fine creatività degli artisti di una generazione che ha di fatto trasformato anche la concezione percettiva dell’arte stessa. Il design di Joe, gode d'ampia valutazione soprattutto nell’ambiente domestico, delle sue utilità. Gli oggetti seguono la fantasia del pensiero e si trasformano anche solo parzialmente nella forma, senza con questo uscire dalle funzioni principali dell’uso e dell’utilità. Non a caso Joe parlava d'attrezzature e non d'arredi. “..Lo spettatore, scorrendo sulla superficie, deve essere costretto a salire e scendere da spessori, ad entrare e uscire da cavità indagando gli aspetti che la luce in naturale variazione determinava nel quadro”. È una citazione chiarificatrice dell’opera di Gianni Colombo, il fratello più giovane, che indagava lo spazio, la motilità, la trasformazione, inserendo l’uomo nello spazio appositamente creato, facendogli così esperire una dimensione fortemente mutevole, e offrendogli sempre un’ampia gamma di percezioni. Sono state infatti ricostruite alcune delle opere recentissime (non abbiamo visto invece quella interessante esposta poco tempo fa alla Rocca Paolina di Perugia) purtroppo alcune sono rimaste solamente dei progetti, forse troppo piccoli per essere fruiti come per altro Gianni Colombo avrebbe voluto. Comunque interessanti e significativi rimangono le riproduzioni relative alle esperienze degli spazi mutevoli e ai problemi psicologici relativi alla percezione. Sono infatti trattati i temi cari a molti artisti negli anni sessanta, quando si venivano sperimentando i principi di non unicità dell’opera, della sua trasformazione da oggetto unico a multiplo industriale. Una ricerca, per quanto originale, di definizione di spazio e di moto, che si rifà alle vecchie teorie futuriste sul movimento e sulla velocità. In molte opere di Colombo il mutamento dello spazio (è il caso degli spazi elastici) è determinato dagli oggetti che entrano nel nostro mondo percettivo al pari di tutti gli elementi che ci circondano. L’opera ha lo scopo di coinvolgere lo spettatore, farlo entrare in questo spazio e farlo agire attraverso interventi individuali a volte passivi, come possono essere i percorsi falsati o altro attivi come invece propongono alcune opere, nelle quali si può intervenire spostando a piacimento le corde elastiche. Queste opere sono indissolubilmente legate all’attività di Colombo alla sua concezione di spazio e di luogo. Opere ideali, moduli che ampliano gli orizzonti della fruizione e mediano il rapporto con l’opera (non erano forse questi i principi ispiratori del gruppo T di Milano?). Teorie e principi che raccolgono l’eredità di Fontana, secondo il quale “La scienza, la nozione del rapido e del mutevole determinano nell’uomo un modo più intenso di percepire il flusso del tempo”.
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galleria META - Nolzano
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E' spesso difficile proporre un dialogo nella pittura, proprio perche essa tende a darsi in quanto opera finita, per cui l'oggetto è l'effetto o la percezione dell'opera. Piuttosto un dialogo in pittura si lascia sentire nel fare, nel creare o nell'indagine sulle forme della pittura. Ruggero Cortese, Bruno Lucca e Franco Ruaro si propongono autono-mamente come sceneggiatori di un dialogo su come può o come potrebbe essere la pittura. Cortese si sofferma su un'interpretazione personale della luce e della sua intensità tonale, e, attraverso trasparenze e velature cromatiche, ricrea un turbinoso movimento dove ogni certezza oggettiva Š capace di divenire possibilità. Lucca propone per protagonista una gestualità quasi formale come essenza dell'energia dell'artista. Egli infatti muove da un'ispirazione di tipo gestuale come inizio per seguire poi il corso del movimento chiaro-scurale della materia. E se attraverso le tonalità cromatiche è possibile creare diversi livelli prospettici, allora Ruaro può utilizzare il colore come fonte illusoria, dove la fantasia può immaginare sé oltre l'apparente certezza di una superficie bidimensionale.
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Galleria Multigraphic - Venezia Studio Delise - Portogruaro |
Le opere pittoriche di Minoli ci promettono una lettura quasi aprioristica, poiché la ricerca, sulla quale si fonda il suo lavoro artistico, ha per oggetto il colore. Ma un colore che si mostra come entità autonoma, indipendente da forme o immagini che potrebbero rimandare alle esperienze collettive o ai variegati cromatismi della natura. Sembra dunque che l’indicazione porti verso un’analisi scientifica della percezione del colore. Il dato logico “X è più chiaro di Y” (Wittgenstein) ci pone di fronte ad una problematica che ha un vago sapore di idea platonica, e cioè di un’idea che se esiste nella mente dell’uomo, esiste anche nella realtà. La ricerca di Minoli, al contrario, è la negazione dell’esistenza di un’idea precisa che precede ogni sperimentabilità individuale. Il colore, che non possiede un’unica definizione ma tutte le possibili - anche che sia più chiaro o più scuro di se stesso - è il primo punto dal quale inizia un’ininterrotta volubillità percettiva. Il dialogo avviene dunque tra spettatore e opera, e vede l’artista trasformarsi in osservatore, pronto a raccogliere le mutevolezze grammaticali e sintattiche del linguaggio della pittura. Le strutturazioni architettoniche e le interazioni cromatiche si fanno protagoniste di una problematicità che si realizza con dinamiche variazioni cromatiche e con vibranti percorsi scanditi da ritmi coloristici spesso ripetitivi fino all’esasperazione. E solo in apparenza la ripetizione si riduca a mero esercizio, lo scopo è la sperimentazione seriale dell’esercizio del dipingere cercando - ma non trovandola mai- la limitazione delle capacità espressive del colore. L’artista è consapevole che l’apparente rigidità dell’opera, la somiglianza con se stessa, la sua variegata composizione nello spazio rigidamente bidimensionale, generano situazioni tali nelle quali il gioco della pittura non è altro che l’affermazione della mutevolezza delle percezioni stesse, e ciò autorizza un intervento individuale che faccia della spazialità del colore, l’elemento fondamentale dell’agire. La mostra, Canzoni Veneziane, vive in un’atmosfera che solo il colore può creare. Vi si leggono ritmi, tonalità, inaspettati acuti o attesi gravi che, pur appartenendo al linguaggio descrittivo della musica, possono invece descrivere il coinvolgimento prepotente dello spettatore, frastornato da sicure incertezze cromatiche o attratto dalle variegate lucentezze che Minoli sa esaltare attraverso campiture monocrome nelle cui profondità aleggia la musicalità e sonorità del colore.
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Galleria Plurima - Udine
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Il colore agisce con le sue
proprietà dinamiche su una superficie
bidimensionale che si regge su di un apparente riposo, ma che dentro al
quale si nasconde un'idea straordinaria d'irrequietezza e di mobilità.
E in quella superficie, divisa in due distinti campi pittorici, si
materializza la ricerca di una dimensione assoluta all'interno della
quale i dati primari - superficie e colore appunto - definiscono quel
tipo di pittura che può essere considerata solo di per sé stessa.
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Sala San Lorenzo - Venezia
Lucilla Catania |
Le onde, non come riferimenti al movimento dell'acqua, ma come
"relazioni, onde di energia fisica e spirituale che attraversano lo
spazio e i linguaggi". Questa è l'originale definizione di Virginia
Baradel, che, insieme a Marta Mazza. Vittoria Surian Nadia Fusini, ha
curato la Mostra Le Onde presso la Sala di San Lorenzo a Venezia.
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Ex Chiesa di San Francesco - Pordenone
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"Osservare senza mai domandarsi che cosa significa".
Così scriveva Bruno
Munari per Maria Teresa Onofri che si presenta con una scelta di opere
che vanno dal '78 al '91. Non si tratta di un'antologica, ma di
un'accurata selezione di opere che interpretano il processo creativo
dell'artista pordenonese.
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Studio
d'Arte Barnabò |
Ontani è senz'altro uno degli artisti il cui operare si rivela
inconfondibile. Dalle fotografie, nelle quali venivano registrati i tableaux vivants, ai pennelli, coi quali andava producendo una sorta di
singolare "primitivismo pittorico" quasi liberatorio, è possibile
leggervi una certa originalità. Anche i vetri, preparati con la
collaborazione delle vetrerie di Seguso, esposti alla galleria Barnabò,
ripercorrono buona parte delle esperienze del passato, consolidandone i
contenuti e le potenzialità espressive.
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... o il colore della materia
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Patrone è un artista del colore, pur non essendo un pittore, cioè colui che adopera gli strumenti propri della pittura, come il pennello, il colore, la tela. Questa definizione ci permette, attraverso l’uso di specifiche categorie, di sintetizzare il suo singolare lavoro che, almeno negli ultimi quindici anni, ha subito solo leggere mutazioni e minimali variazioni. Pare assurdo creare un quadro senza il colore, senza la materia cromatica che copre un’altra materia incolore, e sembra limitativo utilizzare alcuni elementi espressivi della pittura, i quali spesso, da soli, non sono in grado di interpretare una personale o originale idea di pittura. Ma all’interno di una più generale idea di pittura, l’opera di Patrone non è diversa da quella di un altro artista, anche se la sua arte si avvicina molto a quella di un “coloritore”, intento a combinare elementi chimici capaci di operare delle “mutazioni” nella materia. Il suo lavoro non ha per scopo una ricerca sulla luce, non propone alcuna riflessione sulla superficie, nemmeno procede ad una verifica sulla validità di una grammatica o di una sintassi espressiva. Il suo impegno mira piuttosto al cambiamento della sostanza della carta e del colore: al divenire della materia. E questo modo di colorare ha trovato recentemente un confronto di notevole spessore presso la Galleria d’Arte Contemporanea di Udine. Nella cornice di autori di pregevole ed interessante richiamo artistico ed estetico, come Picasso Chagall, De Kooning, Afro, Sironi, De Chirico, Savinio, Patrone si è presentato con opere che superano le tematiche del passato. Non solamente le carte, per altro ormai perfettamente individuabili nelle infinite gradazioni e sfumature cromatiche nella materia cartacea chimicamente trattata, ma un impegno compositivo nuovo, più strettamente legato al tempo e più ricco di riferimenti concettuali. L’analisi degli elementi che compongono la materia, la loro lenta trasformazione nel tempo, il rendere visibile cioè quello che non sempre è immediatamente percettibile, è comunque l’idea di arte che segue il percorso creativo di Patrone. Non si tratta però di un agire che travalica l’esperienza vissuta o l’esperienza quotidiana, anzi questo suo procedere richiede una profonda conoscenza della scienza, del suo metodo, e del suo agire nelle cose. E’ un confrontare ancora una volta due modi di indagare, due modi di conoscere le cose, e, per comprendere il metodo (scientifico?)di ricerca utilizzato dall’artista, viene in aiuto una sua riflessione del ‘91: “Ancora una volta l’arte anticipa la scienza...... Viene confermato anche il concetto del modo come elemento importante dell’operare artistico e dello strumento, scoperto (o recuperato) per rilevare ciò che, altrimenti, non potrebbe apparire” Per chi vive questa separazione tra un agire oggettivo e un pensare soggettivo, la sintesi tra il pensare ed il praticare, tra il teorizzare e il procedere - è il tema trattato da Snow ne Le due Culture - sembra essere un problema, ma comunque non tale da non poter essere conciliabile proprio attraverso il fare, quel fare che non rimanda ad una progettazione, ma semplicemente ad un agire ad un procedere senza una meta che non sia quella della realizzazione di un oggetto artistico. E questo, nonostante Patrone non sia un pittore nel senso proprio del termine, accomuna la sua esperienza a quella dei pittori della Nuova Astrazione o della pittura analitica, senza però tralasciare alcune delle esperienze più significative dell’Arte Povera, ereditando da questa il rispetto per materiali che, pur essendo elementi appartenenti ad un mondo degradabile e infinitamente mutevole, hanno comunque l’impegno di essere frammenti che “sono destinati a unirsi per la costruzione del mondo” L’attività produttiva di Patrone è dunque strettamente legata alla materia, anzi dipende proprio dalla mutevolezza della materia stessa, dalla sua possibilità di divenire altro, dalla sua trasformazione, attraverso la casuale reazione tra componenti chimici. Nelle opere più recenti l’artista riprende il tema dei frammenti già affrontato in passato. Se un tempo i frammenti fluttuavano sul muro e la loro elaborazione dipendeva dallo spazio o seguiva una fantasia creativa, ora attraverso queste recenti installazioni, la parte compositiva, quindi razionale, si mostra come l’effetto principale dell’operare. Nella disposizione nello spazio la carta, i piccoli elementi monocromatici o ancora i nastri colorati, si confrontano con il tempo. I frammenti sono ora proposti in gabbie di ferro o in spirali dalla forma più o meno casuale, in uno stato di disequilibrio, di perenne attesa, un essere in potenza e quindi carico di energia. L’opera di Patrone esce così da uno stato di soggezione, da quello di avere cioè bisogno di un supporto, o di un elemento esterno per poter essere mostrato. I frammenti o le grandi carte, convivono con gli altri elementi linguistici, che, per rimanendo autonomi, si combinano fino a formare un insieme, un’apparente unità che dialetticamente vive di un continuo dialogo con lo spazio, in uno stato atemporale perennemente in attesa di una casuale mutazione.
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La pittura di Gianni Pellegrini muove
dapprima da una perso-nale
riflessione sulla pittura, per estendere poi il campo di ricerca sugli
strumenti e sui linguaggi dell'arte astrat-ta. La forza del gesto o
l'immediatezza dell'atto pittorico, hanno certamente concorso a formare,
almeno nelle opere più recenti, questo suo stile particolare. Il
contatto diretto con le più attuali esperienze artistiche invece ha
promosso una problematica sui tempi e modi di realizzazione dell'opera
stessa, impostando il proprio agire in quell'alternanza di lentezze
riflessive e di veloci gestualità apparentemente ripetitive.
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Artestudio Milano |
Nella panoramica dell'arte dell'ultimo ventennio Pope, in questo susseguirsi di stili e di mode, ha rispettato e ha perseguito una linea strettamente personale e lineare perché sorretta da una logica in evoluzione. Accanto a questa fredda interpretazione della pittura, vivono le passioni e le incertezze del mondo dell’arte che portano a momenti di profonda riflessione e anche di ripensamento.. Nelle opere di Pope appare, innanzitutto, una certa passione per la pittura come atto immediato ed emotivo. Un momento creativo ricco di una particolare vitalità strettamente legata e connessa al colore, al segno e al gesto: agli elementi linguistici propri e spesso tradizionali della pittura astratta. Un altro momento più riflessivo ed analitico ha invece origini più remote, tanto da renderlo partecipe, seppur marginalmente, alle esperienze della pittura degli anni settanta. È sempre vivo l’interesse verso quei movimenti storici come il costruttivismo di Malevic, ma anche verso l’astrattismo di tipo analitico proprio di Mondrian o di un Kandinskij. La sua è un'investigazione sulla pittura, e ha per scopo l'approfondimento dei temi propri dell'arte astratta, più in particolare del colore, della forma, della materia, e anche della percezione del colore stesso. E questi sono gli elementi che caratterizzano anche quest’ultima fase del percorso artistico di Pope. Nelle “colonne” vi si leggono le pause di una pittura spesso proposta sempre in evoluzione, pronta a riproporsi, a discutere su se stessa, a reinventarsi magari con stili e modi diversi, ma, in queste opere, sono anche evidenziati, e con una certa energia, i momenti di riflessione, di analisi e anche di ripensamento di un certo operare pittorico. In Pope, si va definendo, con una certa frequenza ed energia, anche il piacere per l’atto pittorico, quasi un voler cocciutamente continuare la tradizione del dipingere come puro atto materiale che è ancora saldamente ancorato nella memoria della pittura italiana. Non c'è dubbio che tale abilità influisca in modo deciso sull'aspetto estetico delle sue opere, alternando ora un momento di ricerca e d'analisi, ora quello più espressivo, più intenso e più vivo del fare materialmente pittura. L’accumulazione di tutte le esperienze maturate in questi vent'anni porta Pope verso una seconda proposta di analisi del colore, delle forme, dei segni, delle superficie, comunque sempre visioni originali e personali, che non tralasciano, nel loro mostrarsi, alcuni punti fermi, capaci questi di produrre nuove idee e iniziative, perché “la pittura ha comunque bisogno di stimolazioni dal di fuori, ma ha anche tanto da riflettere su se stessa”. La pittura di Pope si presenta più— come un'operazione razionale che un appariscente movimento pittorico caratterizzato da una fluidità… cromatica sulla superficie. Sul piano rigidamente bidimensionale vengono posti, con la medesima intensità…, ma con una diversa precedenza, materia e colore, creando così la scenografia per un gioco di luce e spessore nell'affermazione delle caratteristiche materiali degli elementi utilizzati. La luminosità… rende palpabile il colore che si mostra con uno spessore, con una materialità… che tende alla costruzione della superficie stessa. Lo spazio diventa un percorso cromatico predeterminato, quasi un prodotto di una fredda progettualità… di origini minimali. La forma dunque si fa presenza assoluta ed immediata, e tale da stabilire una certa priorità… nei ruoli che vanno assumendo i diversi componenti espressivi, propri delle esperienze che hanno caratterizzato la ricerca della pittura negli anni sessanta e settanta. E in questa conseguente evoluzione artistica appare determinante la fase analitica sugli strumenti linguistico-sintattici dell'arte astratta, per cui la lettura si limita al colore, superficie e, di conseguenza, forma. E non è quindi un caso che questi elementi, pur distinguendosi tra loro per definizione e per adoperabilità, tendano a confondersi in quell'offrirsi come unica interpretazione di un medesimo spazio attraverso un sottile gioco dialettico fatto di luce e gestualità, di geometrie e di composizioni spaziali in una polidimensionalità da individuare con lo spirito quando le sensazioni sfuggono ai sensi, poiché‚ lo spazio visivo-percettivo assoluto, si definisce nella dinamica del colore attraverso vibrazioni e trasparenze. La ricerca segnico-materica proposta dalle opere di Pope annulla così ogni limite che lo spazio va proponendo come momento di riflessione sull'interiorità dello spirito e della ragione. Il pittore intende così uscire da quella fase di progettualità con gli strumenti della materialità…, depositando, attraverso l'azione del fare, dei segni come termina-zioni nervose pacate e riflessive su un modo di intendere e comunque di ripensare la pittura.
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galleria Plurima Udine
Studio Leonardi Genova |
Sembra difficile paragonare l’attività di Sartorelli, fotografo, a quella di Piet Mondrian, pittore. Eppure ci sono degli elementi che fanno sì che le opere di Sartorelli siano una conseguenza dell’impostazione espressiva dell’artista olandese. Nella famosa Facciata di chiesa del 1914, Mondrian mette in evidenza alcuni aspetti costitutivi e significativi (se non altro per riconoscerne la fonte) di uno spazio ricomposto nella forma esclusivamente bidimensionale. E sono proprio queste due linee essenziali, l’orizzontale e verticale che interessano all’artista veneziano. Città e architettura, un binomio inscindibile nel quale però si possono raccogliere elementi minimi di un particolare interesse e importanza compositiva. Sartorelli infatti ha sempre mostrato attenzione per questi due aspetti fisici del luogo, inteso come spazio vivibile, ma anche come risultato del divenire delle civiltà. E non è un caso se Fagone, nella presentazione della mostra, cita i principi dell’identificazione dello spazio di Braudel: “il valore più certo che noi riconosciamo alla città è quello di essere segno, insieme di segni, immagine”. Credo che siano questi i tre componenti linguistici (immagine, segno, forma) a contribuire alla definizione del lavoro di Sartorelli. Le sue opere infatti sono composte da frammenti di fotografia, riprodotti in xerografia, che serialmente riproducono degli elementi distintivi delle città visitate, vissute e fotografate. Da Mondrian l’artista copia la composizione e la sistemazione dei frammenti; una orizzontalità e verticalità che alludono alla pianta della città: Barcellona, Torino, Trieste, New York, Ferrara sono città le cui strade sono perpendicolari. Le loro piante richiamano, concettualmente, da sole Mondrian, a Sartorelli non rimane che raccogliere ed inserire negli spazi i frammenti distintivi della città, ed è nel saper cogliere questa similitudine che sta la capacità creativa dell’artista. E questo scomporre la città nelle sue componenti spaziali e architettoniche, nel distinguere l’intervento umano da quello puramente naturale, mette Sartorelli nelle condizioni di ricreare un luogo ed un ambiente che pur non trascendendo dalla sua storia, diventa un fatto indipendente e fantastico, carico di tutte le problematiche che caratterizzano ogni composizione artistica.
Fare i conti con il passato. Pare essere questo un atto estetico frequente per molti artisti. Abbiamo recentemente assistito ad operazioni culturali o pseudo tali che fondavano la loro estetica su "citazioni" o su "omaggi" a protagonisti del passato. La citazione di Monet propostaci da Guido Sartorelli non pare però rientrare nei due casi menzionati. La sua é una rilettura del tutto personale di un "metodo" per leggere la luce, e, nello steso tempo, ripresentare una sua alquanto singolare riflessione sulla frammentazione dell'immagine. Le ricerche, proposte dall'artista veneziano, ripercorrono, solo parzialmente e per brevi tratti, le esperienze del Monet nelle sue “Cattedrali” di Rouen. Ma quello che interessa Sartorelli non é il colore, non la gradazione cromatica della luce, ma solo la mutevolezza della percezione dell'oggetto-frammento nelle diverse ore della giornata. E come Monet si appostava davanti alla cattedrale e registrava il trascorrere del tempo, e quindi lo spostarsi della luce sulla superficie della cattedrale, anche Sartorelli, con la macchina fotografica, ha raccolto le diverse fasi, le diverse intensità, le molteplici variazioni tonali della luce riflessa da un frammento della cattedrale. L'atto seguente - ma questo può accadere dovunque - é la composizione a collage dei frammenti. La ripetizione all'infinito di un frammento non dà all'immagine un significato particolare, ma crea un momento di sospensione teso alla riflessione sul frammento come espressione di un'idea del tutto. Ma la ricerca proposta da Sartorelli si spoglia ulteriormente di quell'immediatezza che é stata per tanto tempo l'elemento distintivo dell'impressionismo. Il mediatore dell'operare é la xerocopia. Le immagini vengono ripetutamente riprodotte fino all'infinito, fino ad esaurire l'esponezialitá dell'atto del ripetersi, fino alla ricomposizione dei frammenti, come elementi semiologici, in un'unica immagine capace di riproporre una rilettura della luce. E come le “Cattedrali” di Monet, anche i frammenti di Sartorelli si ricompongono nell'azione del trascorrere del tempo segnato dalla mutazione della luce. Il mezzo meccanico - la macchina fotografica - non esaurisce completamene la sua azione di riproduzione della realtà. Interviene attivamente un'altra macchina – il riproduttore xerografico - con il compito di trasformare l’intensità della "sua" luce. I frammenti della cattedrale sono così riprodotti secondo lucentezze diverse, secondo delle gradazioni che non appartengono alla natura, ma sono il prodotto dell’artificiosità della macchina. La mutevolezza della luce si trasforma dunque in contrasto o in luminosità. L'effetto che alla fine si ottiene altera lo spessore fintantoché la materia assume volumi irreali. Le piattezze si fanno varco sulla superficie fino ad annullare l'idea di forma che alberga nella nostra memoria. I corpi della cattedrale, secondo diverse intensità, prendono o perdono spessore, dando cosi alla figura un'irreale materialità, capace però di immergerci in astrazioni immaginifiche, se non addirittura surreali, cariche di quelle sensazioni che solo la mediazione della macchina può dare allo spettatore.
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Toti Scialoja |
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Sean Shanahan
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Nelio Sonego LIEDER DEI COLORI Filieri, Gelmi, Nehmzow, Nobky, Müller-Kageler, Sonego Galleria Grigoletti - Pordenone
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Lieder dei colori - Collettiva con sei artisti, tre berlinesi e tre italiani. È sembrata certamente un’esposizione nella quale si sono confrontate due esperienze, due tradizioni diverse, spesso decisamente e artisticamente diverse. Da un lato gli artisti tedeschi si vedono legati ad una certa tradizione pittorica che rimanda all’espressionismo. Forme marcate, segni forti che disegnano paesaggi che della realtà conservano solamente qualche rimando. Nei tedeschi Nehmzow e Dietrich Nobky, ma soprattutto nelle opere di Barbara Müller-Kageler, le forme rispecchiano una personale e riflessiva immagine del mondo, nella quale l’oggetto, la figura si perde in un indeciso quanto impreciso orizzonte: segni e forme sono ricalcati con una tavolozza capace di sottolineare l’impressione di una realtà che, gradualmente, si trasforma in visione. Una tipica pittura d’interpretazione e le immagini che ne scaturiscono prendono forma attraverso segni marcati e colori grassi e materici tipizzati da un movimento dinamico ed armonico del segno. E gli italiani invece propongono, almeno per Gelmi e per Sonego, una pittura di tipo semi-analitico. Se Annamaria Gelmi lavora su una superficie piana e piatta, sulle dinamiche del colore e della variazione tonale della luce, Sonego interviene sulla superficie con segni minimali in stretto rapporto con col tempo, per la velocità di esecuzione e, dopo una lunga serie di opere in bianco-nero, ritorna all’uso del colore, inventando spazialità nuove e illusorie. Alfonso Filieri invece ricerca la costruzione della superficie, le sue carte slabbrate e ricche si spessore, ricercano collocazione nello spazio, creando forme immaginifiche che, attraverso la mutevolezza del colore e dello spessore della materia, creano illusioni percettive. Il tema che lega questi sei artisti è dunque il colore. Diversamente inteso. Ricco però delle esperienze passate. Un confronto, ripetuto poi a Berlino nell’estate, che ha visto veramente esaltate le singole storie personali degli artisti, Esperienze che comunque risentono della storia della pittura dei due paesi, ma anche segnano un nuovo confronto che travalica i confini ideologici che hanno limitato, almeno fino a non pochi anni fa, lo scambio fra le due culture.
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Nessun nega che il presente manca di durata perché subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione attraverso la quale ciò che sarà passa, si allontana verso il passato. S. Agostino, Confessioni XI, 28, 1. Ogni prodotto artistico, come sostiene Husserl nelle “Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo” contiene in sé due tempi diversi, uno lungo scandito dal fare dell’artista, uno corto ed istantaneo proprio del fruitore. Entrambi appartengono alla sfera fenomenologica dell’opera, e le sue due fasi (creativa e percettiva) appartengono al presente. La successione di tali esperienze realizzano un infinito continuo, quasi un’infinita corrente di esperienze vissute. Se dunque l’insieme delle esperienze artistiche costruisce la storia, la singola esperienza è un’unità, di un passato-presente, che costituisce i diversi gradi del divenire. Ogni opera dunque pur avendo una sua temporanea collocazione spaziale, nasce da un'azione determinata, specifica e precisa, da un'abilità pratica che si è andata consolidandosi nel tempo. La percezione invece si regge quasi esclusivamente su un'abilità intellettiva e psicologica, o è il risultato di una capacità conoscitiva che nasce da una reazione sentimentale non legata però al tempo. L'artista nella molteplicità dei linguaggi, spesso propone operazioni che vanno dal ripensamento alla scomposizione del tempo, seguendo però la durata interiore del tempo, circoscrivendo così la dimensione temporale del proprio esistere, che, in ambito creativo si identifica con il fare. La sensazione del trascorrere non può che essere rappresentata in un'azione comunque in divenire. La fase della percezione segna invece la negazione della durata, poiché ogni fatto percettivo non si regge sulla singola azione, ma sulla sua esteriorità fenomenologica, nella quale, come s’è detto, sono contenuti i due tempi della produzione e della percezione. I significati racchiusi in queste definizioni di tempo spesso abbisognano di interpretazioni che stanno al di fuori dell'opera d'arte in quanto oggetto del conoscere, poiché la percezione in questo caso apre a interpretazioni di tipo extra artistico e questo perché l’arte non si esprime solamente con una grammatica, ma segue la grammatica infinita e indefinita del conoscere. Con il termine Aito Platone definì un atto di vitalità, inteso però come energia o virtualità del durare all’interno del Kronos che segna, anche numericamente, lo scorrere del tempo. Da un'ipotesi di questo tipo possiamo pensare un'arte che si propone la rappresentazione del tempo che trascorre e che, umanamente, finisce. Tale presupposto può reggere una lettura al divenire della pittura di Giorgio Griffa. L'artista torinese nelle sue righe parallele registra il "fare", che dura quanto la lunghezza dell'azione del dipingere. Spesso nelle sue opere le sequenze di linee tutte uguali viene interrotta da una più breve tale da affrontare concettualmente la definizione di durata, ciò identifica il tempo con il fare nello spazio. Operazione non dissimile dalle sequenze in movimento, come quelle proposte ne La bambina sul balcone di Balla o ancora dal primo Duchamp nel Giovane triste in treno e Nudo che scende le scale . Qui il tempo viene severamente scandito dal rapporto esistente fra figura (che si moltiplica) e lo spazio che questi occupa presumibilmente alcuni secondi dopo. L’idea di movimento, o di un fatto temporale, è resa dalle sequenze del movimento: un atto prima e un atto dopo. È qui evidente l’importanza del fotogramma, della successione temporale propria della cinematografia. Lo stesso futurista Bragaglia, nel ‘13 tenta la rappresentazione del movimento in un solo piano temporale attraverso la registrazione dello spostamento dell’immagine. Altre volte la frazione temporale e ritmata rappresenta un continuum paragonabile ad una trama cinematografica, ad un divenire nello spazio. È il caso dei Viaggi o delle Esposizioni in tempo reale di Vaccari. La semplice sequenza rappresenta un tempo verosimile e l’oggetto rappresentato ne sottolinea il divenire. Anche lo strappo di Mimmo Rotella interpreta il divenire del tempo attraverso l’idea di prima e di dopo, ma anche di fine. La sua opera è una specie di Eikona, dove ogni sovrapposizione di manifesto segna il passare del tempo attraverso il susseguirsi di immagini, che ha fine solo quando il manifesto viene estraniato dal suo luogo. Ma il sistema della frazione ritmata tende alla ricostruzione di un tempo atemporale in quanto è espresso da un’idea, da un’interpretazione di tipo concettuale, poiché non vi albergano rappresentazioni temporali, ma solamente idee di tempi o spazi diversi. I fotogrammi infatti non hanno senso se raccolti come momenti a sé stanti, ma assumono una loro valenza estetica solamente nella fase della loro ritmicità visiva. Di questa fase comunque se ne appropria il singolo fruitore, confrontandosi con la sua esperienza, con il suo linguaggio, con la sua conoscenza. Su un’idea di azzeramento del tempo si regge le proposta di lettura dello spazio da parte del cubismo. In esso il tempo viene annullato, poiché la rappresentazione dello spazio essendo immediata e dunque non soggetta a movimento, presume l'idea di una esistenza in uno spazio diverso quadrimesionale, nel quale il tempo è la quarta a dimensione: il divenire. Viene quindi il tempo mpo, ma al presente, come dato assoluto. Appartiene cioè a quella sfera del tempo che sta tra ciò che non c’è più e quello che deve ancora essere. La diversità dell’atto creativo da quello percettivo, non vieta però la possibilità di dare un valore estetico ad opere il cui loro valore artistico è, per altri versi, differentemente misurabile. La sensazione che ne scaturisce è che il concetto di tempo preciso nell'arte non esiste. E ciò deriva semplicemente dal fatto che la realtà temporale non può essere affrontata come momento che sta al di fuori del “divenire”. In quanto il divenire stesso non è che il presente. L'istante ci appare come una porzione di tempo delimitato, un tempo reale nel quale l'energia estetica si esprime attraverso l'immagine, quasi un fotogramma che raccoglie il "muovere", senza per questo rimandare ad una dinamicità creativa o percettiva in progresso. Il tempo è anche una fonte di ispirazione per molti, spesso ha rappresentato una specie di sfida contro quel divenire che, secondo i principi agostiniani, porta necessariamente alla fine, pur però riconoscendone l’esistenza di immutabile presente. Ma se è vero, da un lato, che l'artista rappresenta un arco del divenire del tempo, dall'altro l'opera non è che un minimo arco del divenire del tempo della storia dell'arte, e, nel contempo, della storia di ogni singolo artista. Man Ray e Rembrandt con gli autoritratti hanno raffigurato il proprio divenire attraverso la riproduzione del mutamento delle loro fisionomie e dunque hanno inteso interpretare lo scorrere del tempo. La pittura figurativa ha la possibilità di descrivere il tempo, se non altro perché la raffigurazione, e con questa la portata semantica dell'immagine, fa scattare nelle memoria del fruitore l'impressione del rapporto spazio-tempo. A sorreggere invece l’idea di tempo, nell'arte astratta, intervengono operazioni concettuali, segni, gestualità improvvise, dripping, strappi repentini, ricomposizioni o altri espedienti che comunque appartengono alla pluralità degli elementi espressivi".
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La Pittura perse lo scettro. Questo titolo riportato dall’Unità del 4 marzo 1997 (auguri a Dalla) propone delle riflessioni non tanto sulla pittura in sé, quanto piuttosto sulla categoricità dell’affermazione. Vorrebbe logica che tale affermazione dipendesse alla certezza che il mondo dell’arte contemporanea fosse stato dominato dalla pittura, da una delle arti che, assieme a tante altre, definiscono il panorama creativo dell’uomo. Ciò può essere vere poiché nelle definizioni di classicismo possiamo annoverare la scultura e la pittura come le arti più vecchie, quelle che attraverso la figurazione hanno dato oggettività alle idee ai pensieri alle concezioni filosofiche. Ma qualsiasi persona attenta all’arte sa che ciò non è assolutamente vero: Chi ha avuto modo di osservare l’evoluzione del mondo dell’arte ha visto come la pittura e la scultura hanno saputo rifondarsi, riproporsi con linguaggi e strumenti diversi. Anche i contenuti, cari al buon idealismo, ma anche al realismo socialista, hanno contribuito a riversare sulla pittura compiti che probabilmente non gli appartenevano o che comunque avevano ridotto il linguaggio pittorico come veicolo per altro. L’affermazione della direttrice artistica Catherine David, che non ha inserito la pittura come specialità all’interno della manifestazione di Kassel, anzi l’ha definita uno spazio nell’estetica dell’arte contemporanea, non un campo autonomo. Potremmo anche dissentire personalmente con la curatrice di Documenta X, in quanto la signora David ha perso un’occasione per conoscere le esperienze pittoriche degli anni settanta e contemporaneamente osservare anche il lavoro di alcuni giovani italiani. Certo l’Italia ancora distante dalla Germania, alla quale non possiamo ribattere che con la Biennale, ma il buon Apollo ci vieta il confronto: mentre in Germania ci offrono cento giorni di discussioni sull’arte contemporanea, noi offriamo le solite cento polemiche (una al giorno) sulla Biennale. Non potendo dunque discutere alla pari con le manifestazioni artistiche possiamo invece discutere, ahimè solo a parole, con noi stessi, a limitarci ancor una volta a riflettere sul possibile. Che la pittura abbia occupato un ruolo primario nella storia dell’arte è certamente vero, ma è anche vero che lo scettro della regina gli è stato fornito da una limitatezza del pensiero creativo poiché la pittura e con essa la scultura hanno avuto un percorso di sudditanza nei confronti di altri forme del “sapere”. La storia dell’arte ci fornisce invece una lettura più ampia e aperta della funzione della pittura, intesa aristotelicamente prima e crocianamente poi, tutto benedetto dal concilio di Nicea, quando all’alto analfabetismo si sopperiva con la figura, con il contenuto rappresentato. E quest’idea ha accompagnato la pittura fino quasi ai giorni nostri, fino alle esperienze delle avanguardie a Romani, Kandinskij, Klee. Mondrian, gli astratti lombardi, alla pittura gestuale, al costruttivismo, all’espressionismo astratto americano, alle esperienze analitiche degli anni settanta, ma anche ad un ampio arco di giovani che sono mossi dalla convinzione che la pittura abbia ancora una sua esistenza autonoma. E questa convinzione, per quanto difficile da sostenere comunque, per quanto colta e dunque riservata e ristretta sia, offre, proprio per questa sua esclusione e “posteriori” a Kassel motivo di ripensamento. E questo non certo per limitare la portata espressiva della pittura, quanto piuttosto per ridisegnare il palcoscenico dal quale la pittura può esercitare il proprio fascino il proprio mondo di essere. Le esperienze dei giovani astratti si rivelano in realtà più importanti di quanto queste si mostrino a prima vista. Appare semplice, per chi scrive, trovare le motivazioni di lettura, in esperienze passate, cercare in queste opere dei padri (cosa per altro necessaria poiché ogni autore ha dietro di sé una storia, un passato dal quale ogni idea si genera), anch’io a suo tempo ho cercato delle motivazioni nelle esperienze simili del passato. Ma le motivazioni poi vengono meno, poiché il processo analitico porta inesorabilmente ad una riduzione dei linguaggi, alla certezza che comunque il singolo elemento linguistico possa esistere di per sé, essere autonomo, elemento unico ma comunicativo. E questo è l’unica via per riflettere sui linguaggi pittorici. Saturazione compenetrazioni contaminazioni rinunciano alla validità assoluta dell’esistere di per sé.
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Impegno e poetica della pittura italiana
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Galleria D'arte Contemporanea- Udine
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La Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Udine ha recentemente
proposto un'indagine su una particolare tendenza dell'arte italiana
contemporanea: la geometria. Sono stati invitati, con opere
significative: Getulio Alviani, Mimo Biasi, Massimo Bottecchia, Carlo
Ciussi, Aldo Colò, Luigi Iod, Mario Palli, Tino Piazza, Giulio Piccini,
Pope, Nane Zavagno. Artisti questi che hanno iniziato la loro attività
partendo proprio dalle esperienze geometriche, gestaldiche,
costruttivistiche degli anni sessanta-settanta.
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