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Aricò, Asdrubali, Bianco, Brugnerotto, Cecchini, Colò, Costantini, Festa, GarbellottoLa Galleria Comunale Ai Molini, I Colombo, Il fascino della geometria, Il tempo è altrove, Lucca, Minoli, Moconesi, Negri, Onde, Onofri, Ontani, Patrone, Pope, Sartorelli, Scialoja, Shanahan, Sonego Sulla Pittura,

 


 

 

 

 

Rodolfo Aricò

Galleria Plurima/Turchetto

Milano.

 

 

 

 

 Rodolfo Aricò

La fisicità del colore

 

 

 

 

E per principio l'equilibrio. Scriveva Filiberto Menna, ancora nel 1977 a proposito delle opere di Aricò che "la semplificazione purista e la rigidità di questi schemi e figure, ritrovano, in un colore ambiguamente diviso tra freddezza artificiale e fluidità sensoriale, un preciso aggancio mondano". Una citazione questa che appare ancora corrispondente alle ultime opere dell'artista milanese.

L'equilibrio, quale stato di quiete di due o più elementi sollecitati da forze uguali e contrarie, permette dunque di muoversi con più componenti espressive anche contrarie tra di loro, purché le loro qualità non interferiscano, alterandone il senso originario. Si lascia così ad un evidente dualismo la possibilità di una lettura problematica, spesso giustificata dalla logica di una situazione artistica ben definita, nella quale vi è complementarietà tra i due termini tra loro antitetici.

Ragione-sensualità, geometria-gesto, presenza-assenza sono i termini antitetici che definiscono il dualismo nelle opere di Aricò. Una qualità dunque che non annulla il suo contrario, anzi piuttosto riesce a convivere e completarsi l'una con l'altra. L'autore attraverso il colore - primo elemento specifico del fare pittura - mette in luce la pura fisicità della pittorica, con sfumature e gradienze cromatiche ma anche con gli effetti del contrasto e della trasparenza. E in questo mettere e poi togliere per rimettere ancora si va evidenziando la funzione complementare di una forma che segue un percorso ben diverso da quello della classica superficie bidimensionale. Non è una forma, per quanto imprecisa e strana, così immediata come appare ad un primo e superficiale sguardo, ma è data da una dinamica di tipo geometrico, in quanto la parte limite del quadro - i bordi - rincorrono le estremità delle linee tracciate sulla superficie.

E' una superficie che però non risente dell'assioma di Fontana e cioè che oltre la superficie non è possibile andare, in quanto Aricò, se in primo tempo agisce in fase di co-struzione con sovrapposizioni cartacee o strati di colore, immediatamente dopo ne provoca la dissoluzione in quanto piano assoluto, entrandovi o attraversandola nel suo spesso-re, alla ricerca del corpo dalle molteplici qualità. E ogni operazione vale per quanto di essa rimane nell'opera indipendentemente dalla presenza dell'altra, o di altre.

 

 

 

 

 

"Quando dipingo non mi pongo il problema se sono o no nell'avanguardia. Mi lascio allo scorrere del tempo, all'immersione nella mia soggettività, al fluire della tecnica provvisoria che in quella determinata circostanza sembra possedere un interesse, un qualche motivo di possibilità metamorfica di trasformazione della muta materia, di quell'impercettibile possibilità di rendere vivo ciò che resta solo inspiegabile e misterioso." Aricò in questa citazione, pubblicata in occasione di una personale alla galleria Plurima di Udine, si pone quasi al di fuori di una possibile problematica relativa alla definizione del proprio essere pittore, rivendicando così una posizione artistica ed estetica, che sta fuori di un percorso storico massificato. Lo dice con la coscienza dell'artista militante, poiché il suo lavoro attraversa, con autonomia e a pieno titolo, gli ultimi trent'anni della storia dell'astrattismo. E, questo suo appartenere ad una storia, gli permette di collocarsi in una posizione di superamento delle facili tendenze o definizioni di tipo postmoderno, anzi lo include in una sorta di "modernismo" , se per questo si intende mantenere un costante riferimento "a quella somma complessa di teorie e di opere dell'avanguardia non figurativa cui bisogna costantemente confrontarsi" (C. Cerritelli). E' dunque un riappropriarsi di un concetto di avanguardia nel senso evoluzionistico. Ciò naturalmente non può rappresentare un ritorno al moderno inteso come epoca di esaltazione dei valori del nuovo, dell'originalità o ancora dell'immediato, quanto piuttosto un'idea di progresso e di dialogo costante con esperienze precedenti. La posizione di Aricò in questo caso è certamente una posizione critico/analitica, in quanto il ruolo dell'artista è senz'altro quello di considerare la creatività come un atto in costante verifica con le esperienze del passato, in modo tale da rivela re, il questo percorso, l'evoluzione della storia. Citare la storia dell'arte nel fare nuovamente arte, pone la pittura a contatto con la sua storia, ma, contemporaneamente, ne esclude la pretesa che ogni nuovo prodotto debba essere rivisto, o rinnovato, o ancora reinterpretato con il filtro della storia. Questa non può essere maestra di evoluzionismi, né può essere configurata come strumento di lettura del presente o, peggio ancora del futuro. La storia è, per definizione, sempre in evoluzione. Aricò, come pittore, può dunque rivendicare un percorso che va verso l'infinito di ogni teoria moderna, che per altro non può che manifestarsi in un continuo ammodernamento privo di stili vecchi e fin troppo usati. E questo suo percorso lo possiamo leggere con una certa naturalezza, con una precisa predisposizione logica ed una produzione artistica che non sembra abbandonare una via tracciata molti anni or sono. Un percorso dunque in grado di dimostrare come l'evoluzione della pittura raccolga, piano piano e con una forte carica soggettiva (la stessa che poi distingue un artista da un semplice pittore) contraddistinta da piccoli elementi capaci però di dare all'opera la definizione di opera d'arte. Le recenti composizioni, sia in carta che su tela, dell'artista milanese, portano a riflettere sugli aspetti più vicini dell'evoluzione di un singolare modernismo, e questo perché l'evoluzione - che appare certamente lenta se cercata con insistenza nelle sue opere - è sicura e precisa nella solidità intellettuale. La storia di Aricò pittore conduce a tracciare quella linea razionale e progettuale che sta a monte dell'operare dell'artista. Un percorso dunque che non sfugge a solide e precise categorie - comunque riferibili ad un singolo artista - ma anche le stesse esperienze concorrono alla formazione di un'idea di modernità che fa della pittura uno dei capisaldi della ricerca analitica e le stesse muovono verso l'affermazione di un linguaggio espressivo sempre in fase di verifica e di sistemazione formale. Non è un caso che lo stesso artista si ponga la necessità di valutare il proprio lavoro sotto un aspetto puramente teorico e questo perché ogni indicazione di lettura porta a individuare due momenti specifici della pittura dell'artista milanese, e, a proposito, nel 1977 Filiberto Menna scriveva di lui "la semplificazione purista e la rigidità di questi schemi e figure, ritrovano, in un colore ambiguamente diviso tra freddezza artificiale e fluidità sensoriale, un preciso aggancio mondano". Appare dunque lecita la possibilità di una interpretazione in chiave problematica, spesso giustificata da una situazione artistica ben definita, nella quale ogni proposta di lettura si muove tra termini tra loro antitetici, come ragione-sensualità, geometria-gesto, presenza-assenza. Una qualità dunque che non annulla il suo contrario, anzi entrambi riescono a convivere e completarsi l'uno con l'altro. L'autore attraverso il colore mette in luce la pura fisicità dell'atto pittorico, con sfumature e gradienze cromatiche e con gli effetti del contrasto e della trasparenza. La ricerca poi muove verso la realizzazione di una forma che opportunamente segue un percorso ben diverso da quello della classica superficie bidimensionale. Non è una forma, per quanto imprecisa e strana, così immediata come appare ad un primo e irriflessivo sguardo, ma è data da una dina mica di tipo geometrico, in quanto il perimetro rincorre le estremità delle linee, spesso appena percettibili, tracciate sulla superficie; e contemporaneamente la forma così intesa, si propone, contravvenendo all'assioma di Fontana, di occupare discretamente lo spazio circostante. In questo sempre incompleto dialogo tra un interno (opera) ed un esterno (spazio) si vanno precisando i motivi di demarcazione tra la superficie, energicamente delimitata da forti variazioni tonali attraverso una pittura che mira al cangiantismo dei colori ricchi di improvvisi lampeggia menti cromatici e, dall'altra, da una ipotesi di forma. E quest'ultima propone un movimento dinamico, che non è mai chiuso dal perimetro o ancora evidenzia una forma spesso in disequilibrio, poiché privo di linee di riferimento con lo spazio esterno. Gli effetti sulla simultaneità tra interno ed esterno, ed il loro costante confronto, sono il risultato di un medesimo pro cesso creativo che si regge sull'inscindibilità del pensare e del fare al fine di rendere vivo ciò che resta solo inspiegabile e misterioso. Il pensare la propria esperienza come modello da superare e non da imitare, per Aricò significa uscire da una limitazione creativa e ripetitiva proposta dalle concezioni estetiche del postmoderno, attraverso il recupero di una continuità di un operare autonomo fuori da ogni moda, e in tal modo si viene sottolineando la presenza marcatamente soggettiva dell'artista e della lucidità del suo atto pittorico. In Aricò non si dà dunque una pittura come gesto, come necessità espressiva immediata, ma come sviluppo di un'idea dell'astrattismo, che non sembra uscire da un logico processo evolutivo, anzi si mostra coerente ai principi di una concezione intimistica della pittura. La palese antinomia tra interno ed esterno separa distintamente i componenti linguistici dell'arte astratta, se infatti all'interno trovano posto gli elementi che concorrono a definire la superficie, nell'esterno si riscontrano quelli che definiscono la forma; e ancora nel primo vi si leggono comportamenti che mirano ad interpretare il colore, l'equilibrio, dall'altro il disequilibrio rappresenta un momento di riflessione, come un risultato di un disegno, di un'intenzione razionale nella quale la progettualità, propria della geometria, trova la sua più ampia definizione di forma, come risultanza di un'astrazione lirica, nella quale si privilegia un processo di attenuazione delle motivazioni sensoriali, ma anche di quelle più specificamente emozionali, comunque come conseguenza di un agire più analitico e strutturale.

 

 

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Gianni Asdrubali

Galleria Plurima - Udine

 

 

Dopo Fontana la pittura è andata man mano privilegiando lo spazio, ed è lo stesso spazio ad impegnare ed interessare la pittura di Gianni Asdrubali, certamente in un modo e con strumenti alquanto diversi. Non e più un gesto positivo che segna il superamento materiale del limite proposto dalla te-la di un quadro, quanto la presenza dinamica di un segno che induce ad una personale interpretazione della superficie, nell'estenuante ricerca di un'armonia spaziale ricca di luce e di leggerezza gestuale.
Il librarsi sulla tela del segno di Asdrubali porta in un primo momento ad una lettura che va sottolineando e privile-giando un'immediata soggettività, in un secondo invece, in quell'intrecciarsi armonico di movimenti anche cromatici, vi si può intravedere un'attenta riflessione sulla funzione dello spazio.
Questo segno, ultimamente fattosi più circolare e più discontinuo, segna una dinamica distinta da un preciso atto di impulso, veloce, ma non privo di una certa attenzione che si propone nel momento in cui viene inserito posteriormente un ulteriore intervento cromatico, quasi un corollario o un completamento di un percorso sulla superficie inequivocabilmente bidimensionale. Non si tratta per• n‚ di ripensamento, né di correzione, ma di un intervento razionale certamente più mediato come a sottolineare e consolidare la forza ritmica del gesto.
Ma d'altro canto il procedere di Asdrubali lascia un ampio spazio libero, non toccato dalla pittura. In questo operare in spazi diversi o limitati ad una parte l'artista va innestando una dicotomia - per altro mai risolta - tra il pieno ed il vuoto, tra il finito e l'infinito, tra lo spazio spe-cifico del quadro e quello che sta oltre l'apparente limite della superficie. Il movimento quindi si sperde e, nello stesso tempo, tende all'autoannullamento, come in un profondo vortice quasi di bistabilità, lasciando così irrisolto ogni definitivo tentativo di lettura.

 

 

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Remo Bianco

del gioco e della fantasia

Studio Delise - Portogruaro

 

 

 

 


"La libertà in arte è sinonimo di ambizione: L'ambizione di Remo Bianco è stata quella di vivere la sua vita interiore a pieno regime, e di tentare di appropriarsi di tutto il reale a tutti i livelli possibili di percezione e di intuizione". Così nel 1989 scriveva Pierre Restany nella presentazione dell'antologica di Remo Bianco che si è tenuta a Palazzo Reale nel Febbraio 1991. Questa breve citazione può farci riflettere perché è stata scritta subito dopo la morte dell'artista milanese. Un artista che certamente ha fatto molto discutere di sé e del suo fare ed interpretare l'arte.
Attraverso tre importanti mostre - allo Studio Tommaseo di Trieste, allo Studio Delise di Portogruaro e al Palazzo del Comune di Portogruaro - si ricreano le condizioni perché l'opera di Bianco possa essere nuovamente provocatoria, problematica, e, come voleva l'artista, momento di ripensamento e di affermazione di alcuni valori artistici. Il gioco, come quello delle carte ad esempio, per Bianco, era una fonte non solo di ispirazione, ma anche un modo per fare arte. Ricercare nella realtà un mondo giocoso era un modo per far riflettere e far pensare alla grande portata comunicativa dell'arte, dei suoi sistemi.
Giovane, a Milano, Remo Bianco ha avuto modo di vivere da vicino gli stimoli del mondo artistico milanese. Anni in cui lo spazialismo e l'arte concettuale stavano mettendo le radici, mentre la pittura veniva considerata come momento ormai chiuso, privo di un immediato rapporto con lo spettatore. Per gli artisti, che negli anni sessanta hanno partecipato alle più interessanti sperimentazioni di nuovi linguaggi, il contatto diretto con il pubblico e la provocazione immediata stavano alla base di ogni presupposto creativo. E questo modo di opera re ed intendere l'arte ha dato corpo al pensiero artistico di Remo Bianco. Tutta la sua produzione infatti non si muoverà più da questo binario concettuale.
Pian piano maturavano le idee che si manifestano irruenti e sempre ricche di molteplici soluzioni e combinazioni. Non si può, a mio avviso, cercare di chiudere in una definizione l'opera artistica di Remo Bianco. Si può ipotizzare certo un nucleo centrale nel quale sosta sia la necessità di esprimersi, come sosteneva Restany, sia la di ricerca degli elementi necessari a esprimere i contenuti che albergano in questo centro. Ecco allora maturare un linguaggio complesso, mutevole e sempre attento a quello che avviene nel mondo, sempre at tento all'effetto delle sue provocazioni. E questo atteggiamento ci porta a paragonare la sua arte con quella di molti suoi contemporanei, con Fontana, con gli artisti della Pop Art, con il Pollock del dripping, ecc., e a riflettere sulla sua conseguente interpretazione e rielaborazione di quelle esperienze.
Le date delle opere esposte in queste tre mostre, ci portano a considerare Remo Bianco quasi un anticipatore di alcune esperienze importanti europee, altre volte quel suo insistere provocatoriamente nel mondo dell'arte, lo rende consapevole della certezza delle sue ipotesi e teorie, della validità del suo linguaggio e forma espressiva. E interessante a proposito come Elena Pontiggia (presentatrice in catalogo assieme a Restany e Dorfles) sostenga che le opere del ciclo 3D siano, per certi versi, anticipatrici dei più famosi teatrini di Fontana. Come anche l'inserimento, poco più tardi, di elementi nei quadri sia in effetti più una riflessione sul dadaismo che una continuazione delle esperienze spazialistiche, in quanto l'aurea metafisica e siderale dello spazialismo viene relegata più ad un fatto storico che di citazione o di attualità artistica.
Remo Bianco prestava attenzione alla realtà, e le cose che gli stavano attorno erano la realtà, l'elemento oggettivo che entra nella vita dell'uomo. E il viaggio in America lo porta a riflettere sulla gestualità, sull'immediatezza dell'atto. I collages sono una combinazione dell'immediatezza gestuale del dripping con la ricomposizione razionale e ragionata dello spazio. La superficie, una volta dipinta, certo in un modo meno irruento e nevrotico dell'artista americano, viene tagliata in tanti piccoli quadrati e poi ricomposta. La gestualità è solo un ricordo visibile, ma non sempre determinante, in quanto lo sforzo della reinvenzione del gesto e delle dinamiche del colore, diventa spesso difficile. Il risultato è ancora un gioco - tanto che qualcuno ci vede la disposizione delle carte sulla superficie - che muove nella dinamica dialettica della scomposizione-ricomposizione. Un procedere, un analizzare l'oggetto artistico nella logica del divenire altro. Ogni oggetto perde la sua identità originaria per assumerne un'altra. E i collages non sono che l'inizio di una nuova operazione concettuale sempre presente nella maggior parte delle sue opere. Eccolo dunque proporre le sculture calde e anche qui gioca sul binomio freddo-caldo. E' comune a tutti la sensazione di freddo prodotta dal marmo o dal bronzo o ancora dall'ottone, Bianco le riscalda con delle resistenze elettriche e così facendo reinventa le qualità di alcuni materiali.
Un'operazione fortemente concettuale viene offerta dal quadroparlante. Il tentativo di raccogliere la contemporaneità di un ipotetico dialogo tra l'autore e lo spettatore, propone uno spazio che oltrepassa il tempo, in quanto il rapporto visitatore-fotocellula è la riproposizione di un'ideale rapporto autore-spettatore, dove quest'ultimo viene coinvolto con i semplici "si sposti più a destra, si avvicini, dico proprio a lei, sono il pittore Remo Bianco ecc." Un'operazione che denota il tentativo del negare una percezione passiva attraverso l'affermazione di una visione attiva e coinvolgente.
Gli stessi tableux dorés - i quadri che lo contraddistinguono - assumo essi stessi connotazioni diverse e questo è nuovamente reso possibile con l'operazione scomposizione-ricomposizione. Nella mostra sono presenti dei grandi Tableaux del 1958, ma accanto a questi, molto simili, per non dire uguali nella fattura e nella sistemazione formale, diventano delle frantumazioni o ancora delle impronte. Non sono dei tentativi di riciclare lo stesso prodotto, ma l'inizio di una nuova avventura concettuale che trova giustificazione nel famoso Manifesto dell'arte improntale, nel quale, tra le altre cose, si legge "L'arte dell'avvenire è posta sotto il segno dell'improntale. Impronta è tutto ciò che resta impresso nel nostro subcosciente." e ancora: "Dichiaro che le mie impronte sono una documentazione universale che catalogherà tutte le cose venute a contatto con me attraverso una realtà ridimensionata dalla verità attuale"
Ma all'interno di questo particolare e fecondo periodo di approfondimento dei Tableux, si insinua ancora il forte senso del gioco e del diletto, ecco l'arte elementare. Un modo di disegnare su carta a quadretti che rimanda al disegno dei bambini. Disegni che ricordano gli abbecedari delle scuole elementari, un modo per affermare l'essenzialità della pittura, come elemento della comunicazione.
Accanto a queste, altre opere: le Testimonianze. Anche queste possono essere considerate delle anticipazioni, visto che le stesse idee sono state riproposte da artisti contemporanei certamente filtrate con un personale impegno e con l'originalità della sistemazione formale.
In contemporanea alla mostra, nelle tre sedi, gli omaggi a Remo Bianco. Gamba, Gatti e Pope hanno conosciuto l'artista milanese e con lui hanno condiviso, anche se solo in parte, il suo pensiero, o ancora sono stati suoi interlocutori attivi, Questi artisti hanno dunque realizzato delle opere che richiamassero, in qualche modo, alla mente l'artista. Gamba ha rivisitato i tableaux in forma decisamente pittorica, ricreando così delle superfici colorate e spesse, divise nelle campiture care all'artista milanese.
Gatti, più attratto da una costruzione formale, ha ripensato le pagode (delle costruzioni realizzate da Bianco con dei collages, come a ricordare i castelli con le carte) proponendo dunque una pittura ricca di corpo e di profondità.
Infine Pope, affascinato dalle bandiere, ha coniugato la sua pittura con l'idea dell'artista milanese, realizzando delle fasce che richiamano i tableaux ma in una superficie prospettica mente più ampia, ma nello stesso tempo più chiusa e più ricca di materia pittorica.



Giovane, a Milano, Remo Bianco ha avuto modo di vivere da vicino gli stimoli del mondo artistico milanese negli anni in cui lo spazialismo e l'arte concettuale stavano mettendo le radici. Erano momenti protagonisti delle più interessanti sperimentazioni e proposte di nuovi linguaggi e quando il contatto diretto con il pubblico e la provocazione immediata stavano alla base di ogni presupposto creativo. E questo modo di opera re ed intendere l'arte ha dato corpo al pensiero artistico di Remo Bianco. Tutta la sua produzione infatti non si muoverà mai da un'impostazione di tipo concettuale e per questo il suo linguaggio si è rivelato complesso, mutevole, ma sempre attento alla realtà. E questo atteggiamento ci porta a paragonare e a confrontare la sua arte con quella di molti suoi contemporanei, con Fontana, con gli artisti della Pop Art, con il Pollock del dripping, ecc., e a riflettere sulla sua conseguente interpretazione e rielaborazione di quelle esperienze in modo concettuale, come ebbe da teorizzare, lo stesso artista, nel famoso Manifesto dell'arte improntale.
Per Bianco l'arte doveva realizzare un oggetto artistico nella logica del divenire altro, di fargli perdere ogni identità originaria, per assumerne un'altra più viva e più semplice, in modo tale da superare il semplice dialogo tra l'autore e lo spettatore. L'artista milanese andava proponendo uno spazio che oltrepassasse il tempo e che denotasse il tentativo del negare una percezione passiva attraverso l'affermazione di una visione attiva e coinvolgente.

 

 

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Mirella Brugnerotto

Galleria Exit - Gorizia


Proiettare se stessi nel futuro senza scordare il passato significa, per un artista, evolvere artisticamente attraver-so l'approfondimento dei propri strumenti espressivi, rein-terpretare cioè il proprio modo di fare arte nella reinven-zione di se stessi. Forse è questo il messaggio artistico che Mirella Brugnerotto ha voluto mandarci con le sue recenti opere esposte alla galleria Exit di Gorizia.
Per chi ha avuto modo di vederla ad Aperto, nella Biennale del 1986, può in effetti accingersi a confrontare il passato-presente con il presente-futuro dell'artista trevigiana. Si vanno man mano scoprendo, in questi recenti lavori, riflessioni su una nuova impostazione del quadro, sulla qualità dei materiali, sull'intervento della cornice nella compo-sizione, ma anche sulla progressiva fuga dall'oggetto. C'Š dunque un cambiamento che introduce intimamente l'artista nel mondo del fare pittura. Io credo che Mirella Brugnerotto vada verso una conoscenza e una pratica più specifica delle regole sintattiche dell'arte astratta, lambendo, in un modo certamente personale, le esperienze di un espressionismo pittorico ricco di riferimenti oggettuali che tendono a spe-gnersi nella prospettiva notturna del colore.
La superficie diventa dunque il luogo nel quale si va a depositare quel nuovo segno che ha tutte le caratteristiche della distruzione, della cancellazione. Un segno più ampio e dinamico, pronto a proiettarsi sul sustrato pittorico con i dubbi che nascono dalla trasformazione di un linguaggio evocativo nato da un sogno, da un ricordo, o da altro e che ora si distingue per l'energia, per la dinamicità, per la fluidità, come a raccogliere con un solo movimento tempestivo ed impetuoso il divenire e, nel contempo, di liberare una nuova cromaticità fino a renderla protagonista del quadro.
La pittura di Mirella Brugnerotto è dunque in quella problematica e interessante fase di reimpostazione al futuro, e dove i termini linguitico-sintattici del fare arte si rendono ancor più personali, più riflessivi, carichi cioè di quell'espressività tale da poter essere la proiezione più viva dell'intimità umana, dove si perde l'inarrestabile energia allusiva della pittura.

 

 

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Vincenzo Cecchini

ovvero della poesia della pittura

 

Sumithra  - Ravenna

 Galleria Delise  Portogruaro

Galleria Grigoletti  - Pordenone

 

 

 

 

 

 

 


"Io mi lascio andare nella pittura, perché dipingere è sempre così vago. Anche la costruzione di un quadro dipende da tanti fattori: dalla struttura dal materiale, dal colore ecc." Sembra che in queste poche parole si possa leggere tutta l'intenzionalità artistica di Vincenzo Cecchini e la sua concezione della pittura. E' certo un'affermazione che, da un'immediata e superficiale lettura, sembra coinvolgere solo parzialmente la parte soggettiva, quella parte che appare eterea, vaga (nell'interpretazione leopardiana di bella, piacevole, indefinita?). In Cecchini l'elemento soggettivo si manifesta con una forte intensità, poiché l'artista interpreta l'arte come un momento ludico, piacevole, perfino interiore e lo manifesta con un'azione intensa, passionale come spetta alla sua personalità d'artista. Una passione quella della pittura che convive con altre, certamente di pari intensità, come ad esempio quella per il gioco del biliardo. Un riferimento che appare essere alquanto inflazionato, ma che tutti i critici, che si sono occupati di lui hanno sempre riportata. comunque anche questa un'attività passionale, interiore, sentita fino al bisogno di esternarla nelle azioni ripetitive e quotidiani. Un modo di fare e di vivere l'arte, in particolare la pittura, come un gesto di tutti i giorni.
La seconda parte dell'affermazione di Cecchini, quella che più specificatamente riguarda il campo dell'arte e delle sue esperienze con il mondo artistico, è certamente un giudizio su di un importante momento dell'azione pittorica: la riflessione sui materiali, sui componenti della pittura. Il colore, spesso chiaro, etereo, dall'ampia dimensione spaziale sottolinea la riflessione, da parte dell'artista, sulle potenzialità del colore stesso. Un colore al quale Cecchini dedica tutta l'energia insita nella sua pittura. La forza dell'azione si identifica nell'azione pratica dello stendere il colore sulla superficie. Un'operazione che muove dalle caratteristiche del colore, come la luminosità, l'ampiezza, la corposità e che propone un'interpretazione più ampia e meno avvertibile di quella sulla superficie. L'operazione pittorica di Cecchini rinuncia, in alcune opere a dividere questi due elementi caratteristici dell'arte astratta, recuperando in un solo momento tutti i riferimenti ai significati semantici contenuti in entrambi.
Altre considerazioni possono essere fatte a proposito dei materiali che caratterizzano l'operare e l'agire dell'artista. I suoi colori non sono propriamente dei colori comuni, sono delle sue invenzioni. I pigmenti, le colle sono dunque prodotte direttamente dall'artista come a sottolineare che il quadro è totalmente frutto della sua attività e dell'immediato rapporto con i materiali, con i quali vive un'intensa relazione di interscambio come lui stesso ha avuto modo di specificare: "la mia fisicità e la fisicità del materiale devono proprio conoscersi. Io devo conoscere la materia e lei deve conoscere me. Io non faccio della pittura se mi sento limitato o se il materiale violenta me". E tutte le caratteristiche proprie della materia, come la consistenza, la permeabilità, la luminosità, la resistenza all'azione del pennello, concorrono alla formazione del quadro, ma anche alla creazione di zone dove il colore ha assunto una dimensione diversa da quella del resto della superficie. Non sono forme, o meglio non hanno l'intenzione di essere considerate in quel modo, né tanto meno vano a definirsi come linee prospettiche tali da creare illusorie zone di profondità o di piani sovrapposti. Se mai se vi si può leggere un'idea di prospettiva e questa è data più da una profondità di colore, dove i diversi piani sono prodotti dalle trasparenze, dalle sovrapposizione di colore, o ancora dal maggior o minor spessore di pigmenti.
Non c'é dunque in Cecchini una pittura che va verso la definizione delle forme - operazioni queste compiute nel passato nel ciclo delle plastiche e delle assonometrie - piuttosto vi si può intravedere uno stretto rapporto tra la forma e la consistenza, la pastosità, o la più o meno veloce condensazione o infine dalla plasticità della materia. Una forma casuale che si lascia leggere, da parte dello spettatore, nel modo più personale e più introspettivo possibile.
Il colore, rigorosamente uno, mai in combinazione con altri, ripropone l'eterno problema del monocromo. L'offrire cioè un colore che sia autonomo, che abbia di per sé consistenza e significanza indipendentemente da ogni altro elemento con quale il colore va a contatto. Non si tratta di pensare il monocromo come cancellazione, né come ripensamento di un agire, quanto di riaffermare il grado zero della pittura, il grado cioè dal quale tutto è possibile. Le recenti tele invece propongono una lettura che separa l'idea di superficie, in quanto substrato, dal piano colorato. Non è, credo, una separazione netta dei due elementi, colore e superficie, quanto un'ulteriore operazione di riflessione sul monocromo, sull'impossibilità da parte del colore di assumere completamente la consistenza di un corpo cromatico, di essere cioè elemento solitario capace di proporsi autonomamente senza ulteriori componenti che tendono a limitare la portata emotiva e coinvolgente del colore. Un fare pittura che non sempre né rimanda né ripropone una lettura di tipo ludico e passionale. Cecchini è pittore, artista, giocatore accorto, è un buon conoscitore del mondo dell'arte, avverte gli effetti del colore, sa la storia dei colori, sa anche - come Duchamp insegna - l'effetto di un oggetto posto in un ambiente diverso da quello quotidiano; sa anche come e quando scegliere il colore. Mai un colore forte, violento. Il suo è il colore in assoluto, il solo colore. Qui il colore diventa operazione, azione del dipingere su uno spazio bidimensionale, il riproporre l'essenza della luce su di un piano attraverso la meditazione ricca di componenti umane, forse malinconica, forse gioiose, ma comunque nascente da un rapporto, gelosamente personale, e diretto con il colore e con una tela che disegna la storia del divenire dinamico di una personalità artistica in continua evoluzione.

 

 

 

"Dipingere è sempre così vago" disse una volta Vincenzo Cecchini a proposito della pittura. Ma la sua pittura è proprio così, vaga, eterea, fatta di sogni e di riflessione sul colore e sulla luce, ma sempre momento ludico, piacevole, perfino interiore e l'azione è intensa, passionale come spetta alla sua personalità d'artista. E la necessità d'esternare questo suo carattere fa sì che la pittura diventi un fatto legato alla quotidianità, è quasi un mestiere per lui dipingere. E proprio attraverso questo suo fare nasce una riflessione quasi empirica sui materiali, sui componenti della pittura. Primo fra tutti il colore, usato spesso con gradazioni chiare, dall’eterea consistenza, quasi un velo calato sulla superficie. I suoi colori non sono propriamente dei colori comuni, sono delle invenzioni dei risultati alchemici realizzati con vecchie ricette. I pigmenti, le colle sono infatti prodotti direttamente dal l'artista. È proprio da questo momento che nasce il quadro. Un frutto della sua attività e del l'immediato rapporto con i materiali, con i quali vive un'intensa relazione d'interscambio. Dunque una pittura che si consuma nel divenire, fino a diventare tutt’uno con la superficie e col corpo del quadro. Solo in apparenza il colore gioca con elementi formali o prospettici dovuti essenzialmente alle trasparenze, alle sovrapposizione di colore, o ancora al maggior o minor spessore dei pigmenti. La sua pittura non ricalca le vecchie teorie del monocromo come cancellazione, né come ripensamento di un agire, ma riaffermare il grado zero della pittura, il grado cioè dal quale tutto è possibile. Le recenti tele propongono il colore come elemento autonomo, che ha consistenza fisica e significanza semantica indipendentemente da ogni altra realtà con la quale l’opera entra in contatto. Il colore è sempre etereo, pronto a cangiamenti repentini, come necessaria conseguenza di un fatto emotivo e coinvolgente. Nella pittura di Cecchini approdano infine anche diverse componenti umane, forse malinconiche, forse gioiose, ma comunque nascenti da un rapporto gelosamente personale e diretto con il colore e con una tela che disegna la storia del divenire dinamico di una personalità artistica.

 

 

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Aldo Colò

Artestudio Clocchiati - Udine

 

La vita, a volte, sa regalare ad un artista la discrezione del conoscere. e ciò, almeno per Aldo Coló e un grande pregio. E se questa discrezione sa trasformarsi in un momento creativo, ecco che la creatività diventa parte integrante e determinante dell'operare di un artista fino a definirne la personalità e la creatività. Chi ha avuto modo di parlare con Coló ha scoperto che non appartiene alla schiera dei pittori puri. È un poeta-intellettuale d'altri tempi, a dirla con parole povere é un pensatore della pittura. E come tale ha saputo arricchire la sua pittura non di certezze, ma di quei dubbi, di quelle riflessioni che sanno coniugare gli avvenimenti dell'arte passata con le esperienze più intime che segnano la vita d'artista di un uomo. Il carattere schivo di Coló ci impone di guardare i suoi lavori con una certa autonomia percettiva, con un pensare le cose nell'immediato vedere le cose. E lui stesso sa che così si devono guardare le sue opere, perché solo in questo modo lo spettatore é costretto a cercare la conoscenza, la sapienza che l'artista manifesta nel raccogliere le esperienze che il linguaggio dell'arte sa fornire anche a chi non vive a stretto contato con il cosiddetto "mondo dell'arte". Ma il lettore attento sa anche cogliere e leggere autonomamente - perché le opere parlano da sole - il piacere di guardare l'arte. Sarebbe dunque banale cercare nelle opere dell'artista friulano una singolare paternità, poiché nelle sue opere si intravedono le esperienze più significative, più importanti, quelle che hanno segnato la storia dell'astrattismo, ma anche la storia del colore e della forma. Vi é nell'artista anche la coscienza che la storia, e con essa anche la storia della pittura, sia un sistema della comunicazione tra un io-singolo e tanti altri con i quali é possibile condividere le molteplici conoscenze del sapere. E queste conoscenze Coló le ha sapute "pensare" prima di interpretarle, come colui che prepara l'opera prima di realizzarla, anteponendo la riflessione ad ogni azione, ad ogni precostituita forma espressiva. Nelle sue opere dunque non vi si intravede una ricerca di originalità, ma la certezza che l'arte non deve uscire da un'idea di continuità. Da quella continuità si delinea il suo singolare ed individuale percorso pittorico che parte dal cubismo, per sfiorare, ma solo in parte, l'informale. La sua pittura ha di certo osservato l'opacità cromatica delle nature morte di Morandi, come ha fatto uso della geometria euclidea, accettando quell'idea di forma pura che vive nella certezza della sua misurabilità matematica. La stessa geometria che però sa anche trasformarsi in un "segno" di per sé significante e comunicativo, come un autoritratto che va quotidianamente a mutare con il divenire delle cose cercando però di cogliere contemporaneamente l'essenza del presente. I più intimi tasselli vengono così gradualmente uniti come a sommare una ad una le esperienze della pittura con quelle della vita.

 

 

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Sonia Costantini

le visioni della luce


Sonia Costantini promuove una personale riflessione su una pittura che si dà immediatamente come risultato di una osservazione che nasce dall'interno di un particolare e personale rapporto con il dipingere. Lo scopo è la trasformazione della superficie del quadro in un campo pittorico dotato della capacità di proporsi come una presenza oggettiva in grado di agire sullo spettatore attraverso gli effetti della rifrazione cromatica e del flusso dinamico nel rapporto colore-luce. Il procedere artistico di Sonia Costantini vive di una serie di reazioni ai problemi specifici del colore e della luce, con personali coinvolgimenti verso i problemi della pittura considerata certo come specchio di un'idea, ma soprattutto come l'oggettivazione di una personale visione delle cose. Tale procedere va gradualmente definendo un oggetto quadro, che si configura come la sintesi tra antiche tecniche pittoriche e le più recenti esperienze. E sono proprio quest'ultime che si propongono come continuità alle indagini di una pittura di composizione come quella di Albers o di Bill, ma nel contempo una pittura di tipo analitico rimanda ad un agire pittorico che tiene sempre presente l'effetto, la percezione.
Lo scopo di Sonia Costantini è indagare sulle qualità del colore e della sua intensità nel suo mostrarsi e nel suo trasformarsi, un'analisi della luce nelle diverse trasparenze, nella differente compattezza del colore, nelle molteplici velature e sovrapposizioni. La fase operativa è comunque un procedere per reinterpretazioni delle diverse tonalità e dei diversi cromatismi.
Il quadro diventa così un corpo pittorico, capace di dialogare con la forma, non sempre così fredda e impersonale come sembra a una prima lettura. Il colore si fa lieve, etereo, guadagna in vibratilità emozionale, altre volte lo stesso spessore del colore rende la superficie più densa e più calda quasi ad assumere una consistenza tattile, ma sempre in un campo pittorico nel quale regna la luce: l'emozione e la percezione non possono che risiedere alla radice della ricerca pittorica dell'artista mantovana. Il risultato però è sempre ponderato e razionale, e la realtà che ne scaturisce sembra oggetto esclusivo del mondo delle idee. La stessa atmosfera, che si crea at torno alle opere dell'arti sta, concorre a definire l'azione materiale dell'agire pittorico e, nello stesso tempo, insinuarsi nello spazio della pura percezione, nel quale regna il possibile dell'immaginazione.

 

 

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Tano Festa

Studio Delise
Portogruaro

 

Tano Festa - artista recentemente scomparso - è stato un esponente della scuola romana di Piazza del Popolo e importante rappresentante della Pop-Art italiana. A lui la prossima edizione della Biennale di Venezia dedicherà una retrospettiva, assieme al fratello Lo Savio (il pittore come lui stesso definiva), e che vede esposte le opere che hanno segnato un'epoca: quella degli anni sessanta.
Festa è stato un artista dal carattere complesso e complicato, come la sua pittura, e come la sua pittura ricco di motivi, di indagini estetiche, di caratterizzazioni di stili, che hanno reso la pittura italiana della Pop-Art parallela a quella americana, anzi dove il sogno americano degli anni sessanta veniva certo scambiato ed interpretato alla pari. Festa pescava nella tradizione artistica italiana. Non bottiglie di Coca-cola, non bandiere americane, ma il passaggio della vita di Michelangelo, le odalische, le finestre delle case popolari romane. Una forma artistica che pareva vivere fuori dalla costruzione della superficie, o che evitava ogni intervento soggettivo e ogni narrazione, ma lasciva l'oggetto consumarsi, essere visto in un contesto diverso da quello originario.
Nelle molteplici opere elaborate dall'artista romano vi si possono trovare anche dei lavori che propongono operazioni di ricerca, di analisi, come nel caso dei coriandoli, esposti presso Lo Studio Delise, dove vi confluiscono elementi apparentemente indipendenti gli uni dagli altri, ma che costituiscono un'operazione che va oltre il simbolismo fortemente evocato dalle figure proposte della Pop-Art. E' in effetti un tentativo di coniugare l'elemento non pittorico, quindi estraneo, ma più vicino al pubblico che alla pittura. Un oggetto popolare quindi inserito però in un ambiente che non è quello reale, ma è un porsi in uno spazio ideale. Un suo affacciarsi in un momento dove il movimento apparente dei milioni di coriandoli, è un movimento in potenza che vive in uno stato di sospensione reale, ma in un ambiente illusorio e indeterminato. E questi coriandoli sono realmente sospesi in uno spazio dove l'illusione è ancora una volta offerta dalla pittura, da quel procedere per finzione attraverso il colore e la superficie. Le grandi campiture propongono un orizzonte scuro proteso all'infinito, una realtà immaginaria pronta a definirsi nella fantasia dello spettatore, come un gioco di spazi occupati e di altri infiniti, di momenti reali ed altri immaginari.

 

 

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Fernardo Garbellotto

La forma frattale

 

Nel più recente impegno artistico di Garbellotto, il colore assume un ruolo di contorno alla composizione formale, in quanto la ricerca dell'artista si muove, in modo analitico, nella dimensione della geometria frattale, definita anche l'architettura del caos, ovvero l'ordine della casualità apparente. La forma, oggetto di analisi, mostra un aspetto diversificato e autonomo, dove la casualità o se vogliamo l'irrazionalità, gioca da protagonista, mettendo in evidenza come uno degli aspetti più interessanti della dinamica non lineare sia una scoperta dei sistemi deterministici apparentemente semplici, ma che preludono ad effetti molto complicati ed imprevedibili, come dei modelli matematici dai processi di autoregolamentazione che caratterizzano i sistemi dell'equilibrio.
Il calco di un frattale, riportato sulla superficie del quadro, sfugge alle regole meccanicistiche o matematiche, e si propone però come una riflessione sulle capacità comunicative ed espressive della casualità naturale e spontanea, la cui non certa conoscenza comporta un preciso momento di sublimità (è il tema poi de L'uomo e la conchiglia di Paul Valery). Una teoria compositiva che propone il caos come momento di conformazione o di rottura di una superficie e l'argomento estetico è strettamente dipendente da questa anomala disposizione o separazione/composizione della materia: un atto dinamico che, secondo le ipotesi di Ilya Prigogine, raggiunge uno stato di equilibrio formale solamente nella progressiva dispersione di energia.
La scelta del campo, l'uso di un tenue o brillante cromatismo, o ancora la pressione impressa sulla tela, appartengono ad insiemi di impostazione e di composizione razionale capaci però di convivere con altri di ordine accidentali. Lo spettro della luce si dirama seguendo le molteplici indicazioni dello spazio, creando così l'illusorietà di una fittizia profondità, negata però dalla creazione di una dimensione piana solo appena sfiorata da una puntuale ricerca dell'infinito, in un susseguirsi problematico che una volta per segue il metodo, un'altra volta privilegia l'analisi.
E in questo superamento di una primaria fase razionale, si insinua la piacevolezza della pittura come momento di riflessione ma anche di intensa personalità, dove il piacere del fare materialmente pittura si mimetizza in un momento di apparente impersonalità o ancora in una ripetizione di un segno e di un percorso, che solo superficialmente sembra vivere al di fuori della natura.

 

 

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Guido Sartorelli

Così Parlò Cézanne

Studio Tommaseo -Trieste

 

 

 

 

 

 

 

 

Studio Leonardi

Genova

 

 

 

 

 

 

 

 

 

galleria Plurima

Udine

 

Con questa mostra, presso la galleria Tommaseo di Trieste, Guido Sartorelli riprende, dopo Monet e Mondrian, la sua personale lettura delle città europee. Attraverso l’occhio meccanico della macchina fotografica, ma seguendo, contemporaneamente, il filtro delle esperienze di altri artisti si . Il tema sono e restano comunque le città, in questa mostra la città si trasforma nel luogo pittorico di Cézanne: la Montagna di Sainte–Victoire. Un luogo che viene sezionato e poi ricomposto nei suoi reperti, alla ricerca delle innumerevoli combinazioni che rendono l’opera di Sartorelli così mutevole e cangiante proprio nella sua più articolata dinamicità compositiva. Questo ciclo intende ricomporre, come in un’astratta visione quei particolari che hanno per certi versi segnato l’opera di Cézanne. Proprio la scomposizione del paesaggio nelle sue diverse visioni, sulle variazioni cromatiche e sulle diversificazioni tonali della luce, l’artista francese aveva così cominciato a dar forma al cubismo e a sottolineare gli elementi linguistici propri dell’astrattismo. Sartorelli ha voluto replicare (il titolo Così parlò Cézanne, ci sembra eloquente e sufficiente a dare una dimensione teorica a tutto il lavoro) a questa ricerca proponendoci dapprima le scomposizioni dell’immagine nel suo insieme. Di questo ne ha ricercato alcuni elementi minimi ma nello stesso tempo specifici, isolati e ricomposti nel sistema linguistico che da alcuni anni caratterizza l’opera dell’artista. Se a un lato dunque viene a realizzare un composizione che predilige una divisione formale basata sulla diversa intensità della luce, dall’altro gli aspetti formali dell’oggetto o del particolare reale si insinuano, ripetendosi fin quasi all’infinito, originando così quella ripetitività che in ultima analisi può considerarsi come l’esaurimento di un linguaggio, il cui scopo finale è quello di creare un sistema di comunicazione inesauribile.

 

 

 

Fare i conti con il passato. Pare essere questo un atto estetico frequente per molti artisti. Abbiamo recentemente assistito ad operazioni culturali o pseudo tali che fondavano la loro estetica su "citazioni" o su "omaggi" a protagonisti del passato. La citazione  di Monet propostaci da Guido Sartorelli non pare però rientrare nei due casi menzionati. La sua é una rilettura del tutto personale di un "metodo" per leggere la luce, e, nello steso tempo, ripresentare una sua alquanto singolare riflessione sulla frammentazione dell'immagine.

Le ricerche, proposte dall'artista veneziano, ripercorrono, solo parzialmente e per brevi tratti, le esperienze del Monet nelle sue “Cattedrali” di Rouen. Ma quello che interessa Sartorelli non é il colore, non la gradazione cromatica della luce, ma solo la mutevolezza della percezione dell'oggetto-frammento nelle diverse ore della giornata. E come Monet si appostava davanti alla cattedrale e registrava il trascorrere del tempo, e quindi lo spostarsi della luce sulla superficie della cattedrale, anche Sartorelli, con la macchina fotografica, ha raccolto le diverse fasi, le diverse intensità, le molteplici variazioni tonali della luce riflessa da un frammento della cattedrale. L'atto seguente - ma questo può accadere dovunque - é la composizione a collage dei frammenti. La ripetizione all'infinito di un frammento non dà all'immagine un significato particolare, ma crea un momento di sospensione teso alla riflessione sul frammento come espressione di un'idea del tutto.

Ma la ricerca proposta da Sartorelli si spoglia ulteriormente di quell'immediatezza che é stata per tanto tempo l'elemento distintivo dell'impressionismo. Il mediatore dell'operare é la xerocopia. Le immagini vengono ripetutamente riprodotte fino all'infinito, fino ad esaurire l'esponezialitá dell'atto del ripetersi, fino alla ricomposizione dei frammenti, come elementi semiologici, in un'unica immagine capace di riproporre una rilettura della luce. E come le “Cattedrali” di Monet, anche i frammenti di Sartorelli si ricompongono nell'azione del trascorrere del tempo segnato dalla mutazione della luce.

Il mezzo meccanico - la macchina fotografica - non esaurisce completamene la sua azione di riproduzione della realtà. Interviene attivamente un'altra macchina – il riproduttore xerografico - con il compito di trasformare l’intensità della "sua" luce. I frammenti della cattedrale sono così riprodotti secondo lucentezze diverse, secondo delle gradazioni che non appartengono alla natura, ma sono il prodotto dell’artificiosità della macchina. La mutevolezza della luce si trasforma dunque in contrasto o in luminosità. L'effetto che alla fine si ottiene altera lo spessore fintantoché la materia assume volumi irreali. Le piattezze si fanno varco sulla superficie fino ad annullare l'idea di forma che alberga nella nostra memoria. I corpi della cattedrale, secondo diverse intensità, prendono o perdono spessore, dando cosi alla figura un'irreale materialità, capace però di immergerci in astrazioni immaginifiche, se non addirittura surreali, cariche di quelle sensazioni che solo la mediazione della macchina può dare allo spettatore.

 

 

Sembra difficile paragonare l’attività di Sartorelli, fotografo, a quella di Piet Mondrian, pittore. Eppure ci sono degli elementi che fanno sì che le opere di Sartorelli siano una conseguenza dell’impostazione espressiva dell’artista olandese. Nella famosa Facciata di chiesa  del 1914, Mondrian mette in evidenza alcuni aspetti costitutivi e significativi (se non altro per riconoscerne la fonte) di uno spazio ricomposto nella forma esclusivamente bidimensionale. E sono proprio queste due linee essenziali, l’orizzontale e verticale che interessano all’artista veneziano.

Città e architettura, un binomio inscindibile nel quale però si possono raccogliere elementi minimi di un particolare interesse e importanza compositiva. Sartorelli infatti ha sempre mostrato attenzione per questi due aspetti fisici del luogo, inteso come spazio vivibile, ma anche come risultato del divenire delle civiltà. E non è un caso se Fagone, nella presentazione della mostra, cita i principi dell’identificazione dello spazio di Braudel: “il valore più certo che noi riconosciamo alla città è quello di essere segno, insieme di segni, immagine”.

Credo che siano questi i tre componenti linguistici (immagine, segno, forma) a contribuire alla definizione del lavoro di Sartorelli. Le sue opere infatti sono composte  da frammenti di fotografia, riprodotti in xerografia, che serialmente riproducono degli elementi distintivi delle città visitate, vissute e fotografate. Da Mondrian l’artista copia la composizione  e la sistemazione dei frammenti; una orizzontalità e verticalità che alludono alla pianta della città: Barcellona, Torino, Trieste, New York, Ferrara sono città le cui strade sono perpendicolari. Le loro piante richiamano, concettualmente, da sole Mondrian, a Sartorelli non rimane che raccogliere ed inserire negli spazi i frammenti distintivi della città, ed è nel saper cogliere questa similitudine che sta la capacità creativa dell’artista.

E questo scomporre la città nelle sue componenti spaziali e architettoniche, nel distinguere l’intervento umano da quello puramente naturale, mette Sartorelli nelle condizioni di ricreare un luogo ed un ambiente che pur non trascendendo dalla sua storia, diventa un fatto indipendente e fantastico, carico di tutte le problematiche che caratterizzano ogni composizione artistica.

 

 

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La galleria d'Arte

 Contemporanea

ai Molini

di Portogruaro

 

La galleria d’Arte Contemporanea di Portogruaro ha origini nell’immediato dopoguerra grazie all’interesse di alcuni cittadini, tra i quali un amico di molti giovani artisti di allora, Sinclair Ravazzolo. Il suo interesse per la pittura – oltreché personale - ha avuto un intento divulgativo con lo scopo di mettere in evidenza come, in quegli anni difficili, la pittura e l’arte tutta avesse trovato nuove ispirazioni e nuove motivazioni per rinnovarsi. Nel vicino Friuli, grazie alla forte personalità poetica di Pasolini, di Bartolini, ha trovato origine e concretezza, non solo letteraria, il “realismo friulano”. In pittura, De Rocco, Zigaina ed altri hanno approfondito i temi realistici e popolari. Anche a Portogruaro sono quindi giunti gli echi di questo movimento. Gli artisti, che man mano venivano ospitati nel suggestivo spazio ricavato in due molini duecenteschi, hanno via via trovato consenso anche a livello nazionale. Ciò, nel tempo, ha permesso che la Galleria trovasse una sua dimensione ed una sua notorietà, tanto che nel 1956 nacque ufficialmente come Galleria Comunale d’Arte Contemporanea.

Ma l’impegno non si è limitato solamente alla semplice esposizione di personali o collettive di  artisti, tra i quali vale la pena citare: De Pisis, Carena, Guttuso, Saetti, Guidi, Afro, Vedova, Springolo ecc. Per avvicinare i giovani al mondo dell’arte, vennero istituite prima l’ex tempore di pittura – allora di moda, almeno fino agli anni settanta – poi la Biennale d’arte Grafica del Triveneto. Questa manifestazione durò quasi un decennio, e vide la partecipazione di tutti i più importanti artisti italiani e della vicina Jugoslavia; a queste esposizioni parteciparono Semeghini, Van Rossen, Zwiers, Jakac, Sassu, Carà, Tramontin e molti altri. La giuria allora era formata dai nomi più importanti della critica veneziana come Perocco, Comisso, Benetton, Manzano, Delogu, Pascutto ecc.

Poi come tutte le cose anche la Galleria ebbe un momento di oblio che coincise con il decadimento strutturale della sede espositiva. Dopo più di un decennio di lavori, nel 1993 la galleria, grazie alla tenace volontà del giovane Andrea Martella, Assessore alla cultura, la Galleria ebbe un suo statuto e un suo direttore nella persona di Giancarlo Pauletto. Sotto la sua direzione lo spazio espositivo divenne ambito da molti artisti. Furono realizzate circa trenta mostre, tra le quali ricordiamo una molto singolare sui disegni di Pier Paolo Pasolini, la ricostruzione del Realismo Friulano, Zigaina, De rocco, Culos, ecc. Ma anche di Piero d’Orazio e il cinquantenario - l’unico – di Forma1. Non va certo dimenticata anche la partecipazione di molti giovani che operano nel campo della pura pittura; significativa è stata la mostra Fermare lo sguardo curata da Cerritelli, con Negri, Costantini, Cascio, ed altri.

Dopo quattro anni, periodo nel quale si è indagato nel mondo dell’arte veneto-friulana, con la mia direzione, si è intrapresa un via più ampia, ricercando, nella stessa storia della galleria, un percorso che ricostruisse le più complesse vicende del mondo dell’arte non solo legate al Triveneto – come nel caso di Brand, Zotti, Sonego, del Giudice, Sgubin  Sartorelli, Finzi, Viola, Pope, Garbellotto, Tramontin, ecc.- ma che indagasse anche nel mondo della pittura nazionale, la romana Eva Fisher.

Nel 1998 grande riscontro hanno avuto le mostre sulla geometria (Alviani, Colò, Bottecchia, Ciussi, Pope, Gard, Finzi), gli Spazialisti, con opere di Tancredi, Crippa, Deluigi, Morandis, Scanavino, Bacci, Fontana, Guidi. Si è celebrato il trentennale della morte e, in anticipo, il centenario della nascita di uno dei più grandi artisti italiani: Lucio Fontana. Una trentina di Concetti Spaziali dalla fine degli anni quaranta, all’anno della morte. Ottanta invece sono state le foto della fotografa Tina Modotti.

Quest’anno si stanno realizzando alcune manifestazioni di un certo interesse storico. Sono presenti, con personali, alcuni dei più significativi protagonisti dell’arte di questo secondo dopoguerra: Emilio Vedova, Enrico Castellani, Bonalumi, lo scultore Alberto Viani.

Ma l’intento programmatico di quest’affascinante e avvincente spazio, pur nella limitatezza del numero delle manifestazioni, ha tutta l’intenzione di essere un luogo all’interno del quale l’arte possa riconoscersi e creare le condizioni affinché vengano registrati gli stimoli e le sensazioni del cambiamento, nonché le diverse direzioni della ricerca artistica, e dare un apprezzabile contributo al dibattito sull’arte contemporanea.

 

 

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I colombo

 

Accademia Carrara

Bergamo

 

Un’esauriente mostra dell’attività artistica dei due fratelli Joe e Gianni Colombo è stata presentata alla Galleria d'Arte Moderna di Bergamo. Uno spaccato delle esperienze artistiche di quella Milano degli anni cinquanta e sessanta, quando la ricerca e le proposte artistiche s'aprivano verso dimensioni e forme spesso inimmaginabili e per questo frutto della più fine creatività degli artisti di una generazione che ha di fatto trasformato anche la concezione percettiva dell’arte stessa.

Il design di Joe, gode d'ampia valutazione soprattutto nell’ambiente domestico, delle sue utilità. Gli oggetti seguono la fantasia del pensiero e si trasformano anche solo parzialmente nella forma, senza con questo uscire dalle funzioni principali dell’uso e dell’utilità. Non a caso Joe parlava d'attrezzature e non d'arredi.

“..Lo spettatore, scorrendo sulla superficie, deve essere costretto a salire e scendere da spessori, ad entrare e uscire da cavità indagando gli aspetti che la luce in naturale variazione determinava nel quadro”. È una citazione chiarificatrice dell’opera di Gianni Colombo, il fratello più giovane, che indagava lo spazio, la motilità, la trasformazione, inserendo l’uomo nello spazio appositamente creato, facendogli così esperire una dimensione fortemente mutevole, e offrendogli sempre un’ampia gamma di percezioni.

Sono state infatti ricostruite alcune delle opere recentissime (non abbiamo visto invece quella interessante esposta poco tempo fa alla Rocca Paolina di Perugia) purtroppo alcune sono rimaste solamente dei progetti, forse troppo piccoli per essere fruiti come per altro Gianni Colombo avrebbe voluto.

Comunque interessanti e significativi rimangono le riproduzioni relative alle esperienze degli spazi mutevoli e ai problemi psicologici relativi alla percezione. Sono infatti trattati i temi cari a molti artisti negli anni sessanta, quando si venivano sperimentando i principi di non unicità dell’opera, della sua trasformazione da oggetto unico a multiplo industriale. Una ricerca, per quanto originale, di definizione di spazio e di moto, che si rifà alle vecchie teorie futuriste sul movimento e sulla velocità. In molte opere di Colombo il mutamento dello spazio (è il caso degli spazi elastici) è determinato dagli oggetti che entrano nel nostro mondo percettivo al pari di tutti gli elementi che ci circondano. L’opera ha lo scopo di coinvolgere lo spettatore, farlo entrare in questo spazio e farlo agire attraverso interventi individuali a volte passivi, come possono essere i percorsi falsati o altro attivi come invece propongono alcune opere, nelle quali si può intervenire spostando a piacimento le corde elastiche. Queste opere sono indissolubilmente legate all’attività di Colombo alla sua concezione di spazio e di luogo. Opere ideali, moduli che ampliano gli orizzonti della fruizione e mediano il rapporto con l’opera (non erano forse questi i principi ispiratori del gruppo T di Milano?).

Teorie e principi che raccolgono l’eredità di Fontana, secondo il quale “La scienza, la nozione del rapido e del mutevole determinano nell’uomo un modo più intenso di percepire il flusso del tempo”.

 

 

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Lucca, Ruaro

 

galleria META - Nolzano

 

 

E' spesso difficile proporre un dialogo nella pittura, proprio perche essa tende a darsi in quanto opera finita, per cui l'oggetto è l'effetto o la percezione dell'opera. Piuttosto un dialogo in pittura si lascia sentire nel fare, nel creare o nell'indagine sulle forme della pittura. Ruggero Cortese, Bruno Lucca e Franco Ruaro si propongono autono-mamente come sceneggiatori di un dialogo su come può o come potrebbe essere la pittura.

Cortese si sofferma su un'interpretazione personale della luce e della sua intensità tonale, e, attraverso trasparenze e velature cromatiche, ricrea un turbinoso movimento dove ogni certezza oggettiva Š capace di divenire possibilità.

Lucca propone per protagonista una gestualità quasi formale come essenza dell'energia dell'artista. Egli infatti muove da un'ispirazione di tipo gestuale come inizio per seguire poi il corso del movimento chiaro-scurale della materia.

E se attraverso le tonalità cromatiche è possibile creare diversi livelli prospettici, allora Ruaro può utilizzare il colore come fonte illusoria, dove la fantasia può immaginare sé oltre l'apparente certezza di una superficie bidimensionale.

 

 

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Paolo Minoli

Galleria Multigraphic - Venezia

Studio Delise - Portogruaro

 

Le opere pittoriche di Minoli ci promettono una lettura quasi aprioristica, poiché la ricerca, sulla quale si fonda il suo lavoro artistico, ha per oggetto il colore. Ma un colore che si mostra come entità autonoma, indipendente da forme o immagini che potrebbero rimandare alle esperienze collettive o ai variegati cromatismi della natura. Sembra dunque che l’indicazione porti verso un’analisi scientifica della percezione del colore. Il dato logico “X è più chiaro di Y” (Wittgenstein) ci pone di fronte ad una problematica che ha un vago sapore di idea platonica, e cioè di un’idea che se esiste nella mente dell’uomo, esiste anche nella realtà. La ricerca di Minoli, al contrario, è la negazione dell’esistenza di un’idea precisa che precede ogni sperimentabilità individuale.

Il colore, che non possiede un’unica definizione ma tutte le possibili - anche che sia più chiaro o più scuro di se stesso - è il primo punto dal quale inizia un’ininterrotta volubillità percettiva. Il dialogo avviene dunque tra spettatore e opera, e vede l’artista trasformarsi in osservatore, pronto a raccogliere le mutevolezze grammaticali e sintattiche del linguaggio della pittura. Le strutturazioni architettoniche e le interazioni cromatiche si fanno protagoniste di una problematicità che si realizza con dinamiche variazioni cromatiche e con vibranti percorsi scanditi da ritmi coloristici spesso ripetitivi fino all’esasperazione.

E solo in apparenza la ripetizione si riduca a mero esercizio, lo scopo è la sperimentazione seriale dell’esercizio del dipingere cercando - ma non trovandola mai- la limitazione delle capacità espressive del colore. L’artista è consapevole che l’apparente rigidità dell’opera, la somiglianza con se stessa, la sua variegata composizione nello spazio rigidamente bidimensionale, generano situazioni tali nelle quali il gioco della pittura non è altro che l’affermazione della mutevolezza delle percezioni stesse, e ciò autorizza un intervento individuale che faccia della spazialità del colore, l’elemento fondamentale dell’agire.

La mostra, Canzoni Veneziane, vive in un’atmosfera che solo il colore può creare. Vi si leggono ritmi, tonalità, inaspettati acuti o attesi gravi che, pur appartenendo al linguaggio descrittivo della musica, possono invece descrivere il coinvolgimento prepotente dello spettatore, frastornato da sicure incertezze cromatiche o attratto dalle variegate lucentezze che Minoli sa esaltare attraverso campiture monocrome nelle cui profondità aleggia la musicalità e sonorità del colore.

 

 

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Graziano Negri

Galleria Plurima - Udine

 

Il colore agisce con le sue proprietà dinamiche su una superficie bidimensionale che si regge su di un apparente riposo, ma che dentro al quale si nasconde un'idea straordinaria d'irrequietezza e di mobilità. E in quella superficie, divisa in due distinti campi pittorici, si materializza la ricerca di una dimensione assoluta all'interno della quale i dati primari - superficie e colore appunto - definiscono quel tipo di pittura che può essere considerata solo di per sé stessa.
La pittura di Graziano Negri va via via configurandosi nella serialità e nella ripetizione. Il questo modo il suo agire diventa un'operazione meno intuitiva, più controllata razionalmente, quasi una continua ripetizione dell'atto pittorico, come un procedere empiricamente nell'analisi del rapporto colore/luce. E qui la stessa ricerca va definendosi in uno stile pittorico distinto da un gesto ricco delle qualità della materia cromatica, ed è quindi nel conseguente contrasto tra colore e superficie che si va consolidando la divisione tra pieno e vuoto, e si vanno separando anche i dei due dati primari propri dell'astrattismo. Negri viene dunque riproponendo l'ambiguità di una pittura di superficie, quasi un coraggioso principio d'azzeramento, in quella riflessione dinamica sull'effetto cromatico delle stesure compatte ed omogenee di un colore ricco di una considerevole fisicità materica. La visione viene così polarizzata verso un campo di energia interno al quadro stesso, generatore di ritmi cromatici, di sorgenti di colore, di effetti luminosi, di modulazioni segniche. Una pittura che, nel suo infinito divenire seriale si fa estensione qualitativa e che muove verso una ripresa dei valori neoplastici, dove l'intensa presenza del colore è in apparente contrasto con il suo farsi, lento e pacato.

 

 

 

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Onde

Sala San Lorenzo - Venezia

 

Lucilla Catania

 

Le onde, non come riferimenti al movimento dell'acqua, ma come "relazioni, onde di energia fisica e spirituale che attraversano lo spazio e i linguaggi". Questa è l'originale definizione di Virginia Baradel, che, insieme a Marta Mazza. Vittoria Surian Nadia Fusini, ha curato la Mostra Le Onde presso la Sala di San Lorenzo a Venezia.
E' un'esposizione che vede coinvolte diverse scultrici che hanno avuto varie esperienze e che provengono da luoghi diversi, ma in comune tutte hanno un'attività creativa che muove verso un'interpretazione dello spazio nella sua totalità, e anche della sua occupazione. Ed è proprio in una logica di questo genere che le sculture presenti in questa manifestazione sono in grado di dialogare fra loro.
Mirella Bentivoglio, Pinuccia Bernardoni, Mirta Carroli, Lucilla Catania, Agnes Denes, Coco Gordon, Silvia Guberti, Nedda Guidi, Elisabeth Holz, Izumu Oki, Rosanna Lancia, Piera Legnaghi, Paola Levi Montalcini, Bronwyn Oliver, Yoko Ono, Fiorella Rizzo, Takako Saito, Pomona Zipser, sono le artiste che hanno partecipato a questa collettiva, nella quale le tematiche affrontate sono decisamente molteplici e spesso offerte in forma problematica. Non è solo una semplice pro posta di forme - di per sé autonome -, è qualcosa di più: un'indagine sulla relazione tra contenente (luogo) e contenuto (opera).
Ogni scultura tende ad appropriarsi del campo visivo dello spettatore, ma, nella logica dell'allestimento, nessuna opera è in grado di proporsi isolata, per cui la stessa vicinanza produce un campo di lettura complesso e ricco di particolarità riassumibili con certi sostantivi, i quali rimandano ad altrettanto concetti. Si può dunque parlare di memoria, esperienza, progettualità, tensione, citazione, equilibrio, fantasia, assenza ecc.
Le opere, collocate in un unico ambiente, e quinti a stretto contatto, offrono caratteristiche spesso in contrapposizione tra loro, come a sottolineare le fluidità di un pensiero pronto a misurarsi con gli elementi e i materiali. Ogni scultura è sostenuta da un'ampia dimensione ideale e di riferimento, come il rimando ad una dinamicità, mascherata nell'apparente stato di quiete come si può avvertire nel carro di Mirta Carroli, oppure sentire la tensione come effetto nell'opera di Lancia o la tensione in potenza nella reale staticità della scultura di Legnaghi.
E ancora il riferimento astratto alla scrittura e alla pittura di Lucilla Catania e la lievità e l'ambiguità dell'onda aerea e acquea dell'opera di Levi Montalcini rimandano ad uno stato emozionale, lievemente percettibile ma comunque vivo e forte, pesante ed etereo in un linguaggio, quello appunto della scultura, dove l'azione del mettere si confonde con quella del togliere, e dove la rappresentazione dello spa zio gioca sulla chiusura di una immaginaria profondità (Ono),alla definizione di assenza attraverso la magia dell'effetto (Guberti).

 

 

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Teresa Onofri

Ex Chiesa di San Francesco - Pordenone

 

"Osservare senza mai domandarsi che cosa significa". Così scriveva Bruno Munari per Maria Teresa Onofri che si presenta con una scelta di opere che vanno dal '78 al '91. Non si tratta di un'antologica, ma di un'accurata selezione di opere che interpretano il processo creativo dell'artista pordenonese.
Al centro il gesto o meglio le Prove del Gesto come le ha volute definire Claudio Cerritelli che ha curato l'esposizione. Un gesto che si mostra qui nell'eterna problematica che ogni tipo di prova propone e anche perché‚ il processo creativo muove secondo la logica della presenza-assenza. Alcune opere proposte in sequenza mirano o verso la progressiva eliminazione di segni e di linee o verso una loro accumulazione, talvolta intersecantesi tra loro, altre nel semplice accostamento. Il gesto tende dunque a confondersi a coordinarsi, rinnegando così la sua specificità fondata nell'immediatezza seguendo una costruzione quasi geometrica. La diversità fra gli elementi che compongono l'opera è sottolineata dall'azione del fare oggettivamente pittura, cioè nella immediata corrispondenza spazio-temporale, perché‚ la grandezza della superficie è strettamente connessa alla durata dell'azione pittorica. Onofri non dà nei lavori degli anni '70 n‚ nei più recenti, il senso dell'opera emotivamente pensata, ma nella composizione vi è una forte componente razionale capace di condizionare ogni tipo di lettura, ma non così ossessiva e tale da soffocare o neutralizzare ogni libertà e istintività creativa dell'azione gestuale.

 

 

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Luigi Ontani

Studio d'Arte Barnabò

Venezia
Luigi ONTANI GaribalDanza, 2003  fotografia seppia acquerellata a mano dall’artista con cornice in oro zecchino graffitata con foglie di ontano botanico 123 x 100 cm  Courtesy l’artista e Galleria Lorcan O’Neill, Roma

 

Ontani è senz'altro uno degli artisti il cui operare si rivela inconfondibile. Dalle fotografie, nelle quali venivano registrati i tableaux vivants, ai pennelli, coi quali andava producendo una sorta di singolare "primitivismo pittorico" quasi liberatorio, è possibile leggervi una certa originalità. Anche i vetri, preparati con la collaborazione delle vetrerie di Seguso, esposti alla galleria Barnabò, ripercorrono buona parte delle esperienze del passato, consolidandone i contenuti e le potenzialità espressive.
"Mayadusa" è il titolo di un grande lampadario in vetro di Murano. Esso descrive il gioco ironico di tutta l'arte di Ontani. I bracci rappresentano quelle figure favolistiche che la fantasia dell'autore ha sempre cercato di oggettivare. Le foglie di ontano sono l'autocitazione metaforica, come l'autoritratto proposto con una maschera che dall'alto sta a guardare lo spettatore, cercandolo nello sguardo fino a coinvolgerlo nella ricerca di riferimenti, di memorie.
Accanto a quest'opera ve ne sono altre, come il tavolo formato da due grandi vetri raffiguranti due foglie di ontano incastrate e che si reggono su stravaganti piedistalli; o ancora la cornice che vede rappresentate le fantasie della terra, dell'aria, del cielo e dell'acqua. Anche queste si offrono come un libro sul quale si legge l'azione provocatoria del rifiuto dell'attivo intervento operativo, quasi a negare una logica di mediazione tra l'idea - per Ontani fatto creativo - e l'utilità del fare materialmente arte. La partecipazione attiva dell'azione artistica in sè non può perciò rappresentarsi con un'opera. Viene qui proposta una lettura che si nutre della memoria per produrre poi nuove sensazioni nel tentativo di abbandonare definitivamente il processo di museazione di ogni singola opera.

 

 

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Carlo Patrone

... o il colore della materia

 

 

 

 

 

 

Patrone è un artista del colore, pur non essendo un pittore, cioè colui che adopera gli strumenti propri della pittura, come il pennello, il colore, la tela. Questa definizione ci permette, attraverso l’uso di specifiche categorie, di sintetizzare il suo singolare lavoro che, almeno negli ultimi quindici anni, ha subito solo leggere mutazioni e minimali variazioni. Pare assurdo creare un quadro senza il colore, senza la materia cromatica che copre un’altra materia incolore, e sembra limitativo utilizzare alcuni elementi espressivi della pittura, i quali spesso, da soli, non sono in grado di interpretare una personale o originale idea di pittura. Ma all’interno di una più generale idea di pittura, l’opera di Patrone non è diversa da quella di un altro artista, anche se la sua arte si avvicina molto a quella di un “coloritore”, intento a combinare elementi chimici capaci di operare delle “mutazioni” nella materia. Il suo lavoro non ha per scopo una ricerca sulla luce, non propone alcuna riflessione sulla superficie, nemmeno procede ad una verifica sulla validità di una grammatica o di una sintassi espressiva. Il suo impegno mira piuttosto al cambiamento della sostanza della carta e del colore: al divenire della materia. E questo modo di colorare ha trovato recentemente un confronto di notevole spessore presso la Galleria d’Arte Contemporanea di Udine. Nella cornice di autori di pregevole ed interessante richiamo artistico ed estetico, come Picasso Chagall, De Kooning, Afro, Sironi, De Chirico, Savinio, Patrone si è presentato con opere che superano le tematiche del passato. Non solamente le carte, per altro ormai perfettamente individuabili nelle infinite gradazioni e sfumature cromatiche nella materia cartacea chimicamente trattata, ma un impegno compositivo nuovo, più strettamente legato al tempo e più ricco di riferimenti concettuali. L’analisi degli elementi che compongono la materia, la loro lenta trasformazione nel tempo, il rendere visibile cioè quello che non sempre è immediatamente percettibile, è comunque l’idea di arte che segue il percorso creativo di Patrone. Non si tratta però di un agire che travalica l’esperienza vissuta o l’esperienza quotidiana, anzi questo suo procedere richiede una profonda conoscenza della scienza, del suo metodo, e del suo agire nelle cose. E’ un confrontare ancora una volta due modi di indagare, due modi di conoscere le cose, e, per comprendere il metodo (scientifico?)di ricerca utilizzato dall’artista, viene in aiuto una sua riflessione del ‘91: “Ancora una volta l’arte anticipa la scienza...... Viene confermato anche il concetto del modo come elemento importante dell’operare artistico e dello strumento, scoperto (o recuperato) per rilevare ciò che, altrimenti, non potrebbe apparire” Per chi vive questa separazione tra un agire oggettivo e un pensare soggettivo, la sintesi tra il pensare ed il praticare, tra il teorizzare e il procedere - è il tema trattato da Snow ne Le due Culture - sembra essere un problema, ma comunque non tale da non poter essere conciliabile proprio attraverso il fare, quel fare che non rimanda ad una progettazione, ma semplicemente ad un agire ad un procedere senza una meta che non sia quella della realizzazione di un oggetto artistico. E questo, nonostante Patrone non sia un pittore nel senso proprio del termine, accomuna la sua esperienza a quella dei pittori della Nuova Astrazione o della pittura analitica, senza però tralasciare alcune delle esperienze più significative dell’Arte Povera, ereditando da questa il rispetto per materiali che, pur essendo elementi appartenenti ad un mondo degradabile e infinitamente mutevole, hanno comunque l’impegno di essere frammenti che “sono destinati a unirsi per la costruzione del mondo” L’attività produttiva di Patrone è dunque strettamente legata alla materia, anzi dipende proprio dalla mutevolezza della materia stessa, dalla sua possibilità di divenire altro, dalla sua trasformazione, attraverso la casuale reazione tra componenti chimici. Nelle opere più recenti l’artista riprende il tema dei frammenti già affrontato in passato. Se un tempo i frammenti fluttuavano sul muro e la loro elaborazione dipendeva dallo spazio o seguiva una fantasia creativa, ora attraverso queste recenti installazioni, la parte compositiva, quindi razionale, si mostra come l’effetto principale dell’operare. Nella disposizione nello spazio la carta, i piccoli elementi monocromatici o ancora i nastri colorati, si confrontano con il tempo. I frammenti sono ora proposti in gabbie di ferro o in spirali dalla forma più o meno casuale, in uno stato di disequilibrio, di perenne attesa, un essere in potenza e quindi carico di energia. L’opera di Patrone esce così da uno stato di soggezione, da quello di avere cioè bisogno di un supporto, o di un elemento esterno per poter essere mostrato. I frammenti o le grandi carte, convivono con gli altri elementi linguistici, che, per rimanendo autonomi, si combinano fino a formare un insieme, un’apparente unità che dialetticamente vive di un continuo dialogo con lo spazio, in uno stato atemporale perennemente in attesa di una casuale mutazione.

 

 

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Gianni Pellegrini

 

La pittura di Gianni Pellegrini muove dapprima da una perso-nale riflessione sulla pittura, per estendere poi il campo di ricerca sugli strumenti e sui linguaggi dell'arte astrat-ta. La forza del gesto o l'immediatezza dell'atto pittorico, hanno certamente concorso a formare, almeno nelle opere più recenti, questo suo stile particolare. Il contatto diretto con le più attuali esperienze artistiche invece ha promosso una problematica sui tempi e modi di realizzazione dell'opera stessa, impostando il proprio agire in quell'alternanza di lentezze riflessive e di veloci gestualità apparentemente ripetitive.
Nelle ultime opere, è evidente una spiccata operatività gestuale quale protagonista della realizzazione del progetto, come sintesi di un'operazione evolutiva di quel sistema sintattico metalinguistico della pittura astratta contemporanea. L'artista arriva ad interpretare, nelle diverse fasi realizzative, il divenire dell'azione pittorica. Si avverte così la presenza di un atto espressivo temporaneamente limitato alla durata della sua oggettiva realizzazione, perché ricco di quella forza che definisce il gesto; le tensioni creative rimangono per sempre relegate e concentrate all'interno di un tempo e di uno spazio pittorico.
Questo suo scalfire, graffiare, incidere la superficie diventa dunque la registrazione temporale dell'azione del fare pittura, dove i componenti espressivi, come il segno, la linea, il gesto, la superficie, il colore, conducono al compimento dell'opera, comunque mediata da un'azione sorretta e giustificata dalla logica del dialogo nell'evoluzione del linguaggio e ma anche ricca di quell'energia allusiva che è propria della pittura.

 

 

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Pope

Artestudio

Milano

 

Nella panoramica dell'arte dell'ultimo ventennio Pope, in questo susseguirsi di stili e di mode, ha rispettato e ha perseguito una linea strettamente personale e lineare perché sorretta da una logica in evoluzione. Accanto a questa fredda interpretazione della pittura, vivono le passioni e le incertezze del mondo dell’arte che portano a momenti di profonda riflessione e anche di ripensamento..

Nelle opere di Pope appare, innanzitutto, una certa passione per la pittura come atto immediato ed emotivo. Un momento creativo ricco di una particolare vitalità strettamente legata e connessa al colore, al segno e al gesto: agli elementi linguistici propri e spesso tradizionali della pittura astratta.

Un altro momento più riflessivo ed analitico ha invece origini più remote, tanto da renderlo partecipe, seppur marginalmente, alle esperienze della pittura degli anni settanta. È sempre vivo l’interesse verso quei movimenti storici come il costruttivismo di Malevic, ma anche verso l’astrattismo di tipo analitico proprio di Mondrian o di un Kandinskij. La sua è un'investigazione sulla pittura, e ha per scopo l'approfondimento dei temi propri dell'arte astratta, più in particolare del colore, della forma, della materia, e anche della percezione del colore stesso.

E questi sono gli elementi che caratterizzano anche quest’ultima fase del percorso artistico di Pope. Nelle “colonne” vi si leggono le pause di una pittura spesso proposta sempre in evoluzione, pronta a riproporsi, a discutere su se stessa, a reinventarsi magari con stili e modi diversi,  ma, in queste opere, sono anche evidenziati, e con una certa energia, i momenti di riflessione, di analisi e anche di ripensamento di un certo operare pittorico.

In Pope, si va definendo, con una certa frequenza ed energia, anche il piacere per l’atto pittorico, quasi un voler cocciutamente continuare la tradizione del dipingere come puro atto materiale che è ancora saldamente ancorato nella memoria della pittura italiana. Non c'è dubbio che tale abilità influisca in modo deciso sull'aspetto estetico delle sue opere, alternando ora un momento di ricerca e d'analisi, ora quello più espressivo, più intenso e più vivo del fare materialmente pittura.

L’accumulazione di tutte le esperienze maturate in questi vent'anni porta Pope verso una seconda proposta di analisi del colore, delle forme, dei segni, delle superficie, comunque sempre visioni originali e personali, che non tralasciano, nel loro mostrarsi, alcuni punti fermi, capaci questi di produrre nuove idee e iniziative, perché “la pittura ha comunque bisogno di stimolazioni dal di fuori, ma ha anche tanto da riflettere su se stessa”.  

La pittura di Pope si presenta più— come un'operazione razionale che un appariscente movimento pittorico caratterizzato da una fluidità… cromatica sulla superficie. Sul piano rigidamente bidimensionale vengono posti, con la medesima intensità…, ma con una diversa precedenza, materia e colore, creando così la scenografia per un gioco di luce e spessore nell'affermazione delle caratteristiche materiali degli elementi utilizzati. La luminosità… rende palpabile il colore che si mostra con uno spessore, con una materialità… che tende alla costruzione della superficie stessa. Lo spazio diventa un percorso cromatico predeterminato, quasi un prodotto di una fredda progettualità… di origini minimali. La forma dunque si fa presenza assoluta ed immediata, e tale da stabilire una certa priorità… nei ruoli che vanno assumendo i diversi componenti espressivi, propri delle esperienze che hanno caratterizzato la ricerca della pittura negli anni sessanta e settanta.

E in questa conseguente evoluzione artistica appare determinante la fase analitica sugli strumenti linguistico-sintattici dell'arte astratta, per cui la lettura si limita al colore, superficie e, di conseguenza, forma. E non è quindi un caso che questi elementi, pur distinguendosi tra loro per definizione e per adoperabilità, tendano a confondersi in quell'offrirsi come unica interpretazione di un medesimo spazio attraverso un sottile gioco dialettico fatto di luce e gestualità, di geometrie e di composizioni spaziali in una polidimensionalità da individuare con lo spirito quando le sensazioni sfuggono ai sensi, poiché‚ lo spazio visivo-percettivo assoluto, si definisce nella dinamica del colore attraverso vibrazioni e trasparenze.

La ricerca segnico-materica proposta dalle opere di Pope annulla così ogni limite che lo spazio va proponendo come momento di riflessione sull'interiorità dello spirito e della ragione. Il pittore intende così uscire da quella fase di progettualità con gli strumenti della materialità…, depositando, attraverso l'azione del fare, dei segni come termina-zioni nervose pacate e riflessive su un modo di intendere e comunque di ripensare la pittura.

 

 

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Guido Sartorelli

galleria Plurima

Udine

 

 

 

 

 

 

 

 

Studio Leonardi

Genova

 

Sembra difficile paragonare l’attività di Sartorelli, fotografo, a quella di Piet Mondrian, pittore. Eppure ci sono degli elementi che fanno sì che le opere di Sartorelli siano una conseguenza dell’impostazione espressiva dell’artista olandese. Nella famosa Facciata di chiesa  del 1914, Mondrian mette in evidenza alcuni aspetti costitutivi e significativi (se non altro per riconoscerne la fonte) di uno spazio ricomposto nella forma esclusivamente bidimensionale. E sono proprio queste due linee essenziali, l’orizzontale e verticale che interessano all’artista veneziano.

Città e architettura, un binomio inscindibile nel quale però si possono raccogliere elementi minimi di un particolare interesse e importanza compositiva. Sartorelli infatti ha sempre mostrato attenzione per questi due aspetti fisici del luogo, inteso come spazio vivibile, ma anche come risultato del divenire delle civiltà. E non è un caso se Fagone, nella presentazione della mostra, cita i principi dell’identificazione dello spazio di Braudel: “il valore più certo che noi riconosciamo alla città è quello di essere segno, insieme di segni, immagine”.

Credo che siano questi i tre componenti linguistici (immagine, segno, forma) a contribuire alla definizione del lavoro di Sartorelli. Le sue opere infatti sono composte  da frammenti di fotografia, riprodotti in xerografia, che serialmente riproducono degli elementi distintivi delle città visitate, vissute e fotografate. Da Mondrian l’artista copia la composizione  e la sistemazione dei frammenti; una orizzontalità e verticalità che alludono alla pianta della città: Barcellona, Torino, Trieste, New York, Ferrara sono città le cui strade sono perpendicolari. Le loro piante richiamano, concettualmente, da sole Mondrian, a Sartorelli non rimane che raccogliere ed inserire negli spazi i frammenti distintivi della città, ed è nel saper cogliere questa similitudine che sta la capacità creativa dell’artista.

E questo scomporre la città nelle sue componenti spaziali e architettoniche, nel distinguere l’intervento umano da quello puramente naturale, mette Sartorelli nelle condizioni di ricreare un luogo ed un ambiente che pur non trascendendo dalla sua storia, diventa un fatto indipendente e fantastico, carico di tutte le problematiche che caratterizzano ogni composizione artistica.

 

 

Fare i conti con il passato. Pare essere questo un atto estetico frequente per molti artisti. Abbiamo recentemente assistito ad operazioni culturali o pseudo tali che fondavano la loro estetica su "citazioni" o su "omaggi" a protagonisti del passato. La citazione  di Monet propostaci da Guido Sartorelli non pare però rientrare nei due casi menzionati. La sua é una rilettura del tutto personale di un "metodo" per leggere la luce, e, nello steso tempo, ripresentare una sua alquanto singolare riflessione sulla frammentazione dell'immagine.

Le ricerche, proposte dall'artista veneziano, ripercorrono, solo parzialmente e per brevi tratti, le esperienze del Monet nelle sue “Cattedrali” di Rouen. Ma quello che interessa Sartorelli non é il colore, non la gradazione cromatica della luce, ma solo la mutevolezza della percezione dell'oggetto-frammento nelle diverse ore della giornata. E come Monet si appostava davanti alla cattedrale e registrava il trascorrere del tempo, e quindi lo spostarsi della luce sulla superficie della cattedrale, anche Sartorelli, con la macchina fotografica, ha raccolto le diverse fasi, le diverse intensità, le molteplici variazioni tonali della luce riflessa da un frammento della cattedrale. L'atto seguente - ma questo può accadere dovunque - é la composizione a collage dei frammenti. La ripetizione all'infinito di un frammento non dà all'immagine un significato particolare, ma crea un momento di sospensione teso alla riflessione sul frammento come espressione di un'idea del tutto.

Ma la ricerca proposta da Sartorelli si spoglia ulteriormente di quell'immediatezza che é stata per tanto tempo l'elemento distintivo dell'impressionismo. Il mediatore dell'operare é la xerocopia. Le immagini vengono ripetutamente riprodotte fino all'infinito, fino ad esaurire l'esponezialitá dell'atto del ripetersi, fino alla ricomposizione dei frammenti, come elementi semiologici, in un'unica immagine capace di riproporre una rilettura della luce. E come le “Cattedrali” di Monet, anche i frammenti di Sartorelli si ricompongono nell'azione del trascorrere del tempo segnato dalla mutazione della luce.

Il mezzo meccanico - la macchina fotografica - non esaurisce completamene la sua azione di riproduzione della realtà. Interviene attivamente un'altra macchina – il riproduttore xerografico - con il compito di trasformare l’intensità della "sua" luce. I frammenti della cattedrale sono così riprodotti secondo lucentezze diverse, secondo delle gradazioni che non appartengono alla natura, ma sono il prodotto dell’artificiosità della macchina. La mutevolezza della luce si trasforma dunque in contrasto o in luminosità. L'effetto che alla fine si ottiene altera lo spessore fintantoché la materia assume volumi irreali. Le piattezze si fanno varco sulla superficie fino ad annullare l'idea di forma che alberga nella nostra memoria. I corpi della cattedrale, secondo diverse intensità, prendono o perdono spessore, dando cosi alla figura un'irreale materialità, capace però di immergerci in astrazioni immaginifiche, se non addirittura surreali, cariche di quelle sensazioni che solo la mediazione della macchina può dare allo spettatore.

 

 

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Toti Scialoja

Studio Delise

Portogruaro


"..però c'èuna grammatica segreta, essenziale, che fa sì che l'arte sia sempre la stessa, dalle caverne preistoriche fino ad oggi il pittore è sempre lo stesso". Potrebbe essere strana quest'affermazione di Scialoja, non tanto perché ammette l'esistenza di un sistema grammaticale dell'arte relegato però al di fuori delle diverse categorie o definizioni che essa, nel susseguirsi temporale del suo divenire, pare assumere, quanto perché‚ tende a stabilire un preciso senso di immutabilità tendente a contraddistinguere il linguaggio espressivo dell'arte. Ma sappiamo tutti che il pittore/poeta Scialoja, proprio nella sua storia di artista, evidenzia un percorso artistico complesso e, dall'interno dell'arte, ne sottolinea l'evoluzione linguistica. I riferimenti ai cromatismi di Paolo Uccello, o di Goya, rendono l'artista attivamente partecipe e a volte protagonista del percorso evolutivo della pittura fino a farlo appropriare dei segreti più nascosti e più profondi. Ma gli strumenti che contraddistinguono il modo di fare pittura sono quelli da sempre concessi al pittore: superficie, colore, segno, gesto, materia ecc.
Si tratta per l'artista romano di usare un sistema linguistico intimo, fatto di riflessioni sulla vita, sulle emozioni individuali dell'esistere, attraverso gli immutabili elementi espressivi propri dell'arte, fino a creare nei suoi segni, nelle sue tracce, quelle pieghe nelle quali si nascondono i più intensi momenti di quell'intimità apparentemente innaturale del tempo e dello spazio, ma così vigorosa e viva perché espresse con il linguaggio dell'immediato sentimento fantastico dell'irrazionalità propria della sua pittura.

 

 

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Sean Shanahan

Galleria Plurima - Udine

Sean Shanahan - Untitled (3 Of 4)


Stendere del colore su una superficie significa riproporre le tematiche specifiche della pittura. E questo è quello che l'artista dublinese Sean Shanahan propone nelle sue recenti opere. Ma non solo questo: la sua è un'indagine e una verifica di un processo produttivo che porta alla sperimentazione di un rapporto più complesso tra il colore e la superficie, quest'ultima non si limita ad essere presentata quale supporto, quale luogo bidimensionale sul quale stendere un colore o creare un campo cromatico. La superficie per Shanahan è un corpo unico con il colore, semmai è quest'ultimo diventare un accessorio, poiché non proponendosi quale semplice piano, rimanda ad una consistenza che rende elemento compositivo la materialità della stessa superficie. La consistenza del legno, delle sue caratteristi che, come la venatura, o ancora le qualità del metallo, nel quale vengono evidenziate la durezza e la freddezza della materia, fanno parte di un singolare progetto: amalgamare in un piano le caratteristiche della materia spesso raccolte casualmente, con quelle razionali e compositive della pittura. Quest'unione ci porta senz'altro a considerazioni molto più ampie: è più impersonale e insensibile il metallo o la composizione asettica e fredda della geometria?
Alla stessa considerazione soggiace anche la struttura formale dell'opera. La smussatura dei bordi, l'allontanamento artificiale dalla parete, la scelta di una venatura piuttosto che un'altra, non sono altro che dei momenti creativi che preludono ad un tipo di pittura che non può non essere come la propone Shanahan. La scomposizione del piano in tanti altri campi ora dipinti ora nudi, è la sintesi di una sola idea. Il colore e la superficie solo in apparenza mostrano di agire autonomamente, in realtà appaiono complementari poiché a stessa copertura cromatica introduce l'azione pittorica del creare una nuova superficie, e nello stesso tempo, negare quella sottostante. D'altro canto la stessa superficie al naturale si riafferma come substrato, come "cominciamento" dal quale ha inizio la pittura. La collocazione dinamica dell'opera nello spazio, il suo evidente distacco dal muro-supporto, ne sottolinea la consistenza, fino a farla diventare una struttura, un oggetto autonomo sul quale la presenza della pittura diventa elemento dell'esteriorità, l'essenza del vedibile, la forma del composto, e infine elemento della testimonianza, come ha avuto modo di sottolineare Caoimhìn Mac Giolla Léith.

 

 

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Nelio Sonego

torre Scaramuccia

San Vito Al Tagliamento (Pn)

LIEDER DEI COLORI

 Filieri, Gelmi, Nehmzow, Nobky, Müller-Kageler, Sonego Galleria Grigoletti -  Pordenone

 
L'opera artistica di Nelio Sonego non muove da un originario e ben definito punto di partenza, ma è piuttosto una ricerca di una possibile e problematica origine della pittura, dalla quale poi, attraverso materiali poveri, muove uno studio orientato specificatamente sull'interpretazione e analisi del substrato pittorico.
Le forme, leggere ed eteree, danno un contributo alla complessa eversione della pittura, in quanto si offrono come ricerca dall'interno di una concezione della pittura che tende all'universale, priva dei riferimenti estranei da quel lirismo di atmosfera proprio degli strumenti linguistico-espressivi che vanno a definire l'azione del fare materialmente pittura.
Il suo segno quasi nervoso è l'interprete del più breve e possibile rapporto spazio-tempo, poiché‚ è originata da un' insolita dialettica fra il gesto, il piano pittorico ed il colore. Il risultato è un disequilibrio formale all'interno del quale la componente della luce - o della non luce se si tratta di un piano nero - gioca in uno spazio dove le forme sovrapponendosi e modulandosi, si allargano in un dinamismo ancora costretto, e da un ritmo a da una sequenza di frammenti fluttuanti nello spazio, ma al di fuori però dalla pura ornamentazione. Il risultato è un movimento libero, ma tale da coinvolgere direttamente ed immediatamente lo spet-tatore.
E su quel piano la linea, se un tempo interveniva per delimitarne il campo per altri spazi o per costruire, con so-vrapposizioni, la figura geometrica del rettangolo, ora la stessa linea è il segno che sottolinea una qualità di forza più che di forma. E' una reinterpretazione dell'idea di verticalità - caro alle esperienze di Mondrian o di Van Doesburg - che porta la composizione artistica ad uscire idealmente dal limitato spazio bidimensionale, per occuparne uno più ampio, dominato dalla pacata e riflessiva suggestione, o da una viva e imprevedibile fantasia.


 

Lieder dei colori - Collettiva con sei artisti, tre berlinesi e tre italiani. È sembrata certamente un’esposizione nella quale si sono confrontate due esperienze, due tradizioni diverse, spesso decisamente e artisticamente diverse. Da un lato gli artisti tedeschi si vedono legati ad una certa tradizione pittorica che rimanda all’espressionismo. Forme marcate, segni forti che disegnano paesaggi che della realtà conservano solamente qualche rimando. Nei tedeschi Nehmzow e Dietrich Nobky, ma soprattutto nelle opere di Barbara Müller-Kageler, le forme rispecchiano una personale e riflessiva immagine del mondo, nella quale l’oggetto, la figura si perde in un indeciso quanto impreciso orizzonte: segni e forme sono ricalcati con una tavolozza capace di sottolineare l’impressione di una realtà che, gradualmente, si trasforma in visione. Una tipica pittura d’interpretazione e le immagini che ne scaturiscono prendono forma attraverso segni marcati e colori grassi e materici tipizzati da un movimento dinamico ed armonico del segno. E gli italiani invece propongono, almeno per Gelmi e per Sonego, una pittura di tipo semi-analitico. Se Annamaria Gelmi lavora su una superficie piana e piatta, sulle dinamiche del colore e della variazione tonale della luce, Sonego interviene sulla superficie con segni minimali in stretto rapporto con col tempo, per la velocità di esecuzione e, dopo una lunga serie di opere in bianco-nero, ritorna all’uso del colore, inventando spazialità nuove e illusorie. Alfonso Filieri invece ricerca la costruzione della superficie, le sue carte slabbrate e ricche si spessore, ricercano collocazione nello spazio, creando forme immaginifiche che, attraverso la mutevolezza del colore e dello spessore della materia, creano illusioni percettive. Il tema che lega questi sei artisti è dunque il colore. Diversamente inteso. Ricco però delle esperienze passate. Un confronto, ripetuto poi a Berlino nell’estate, che ha visto veramente esaltate le singole storie personali degli artisti, Esperienze che comunque risentono della storia della pittura dei due paesi, ma anche segnano un nuovo confronto che travalica i confini ideologici che hanno limitato, almeno fino a non pochi anni fa, lo scambio fra le due culture.

 

 

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Il tempo è altrove

 

Nessun nega che il presente manca di durata perché subito cade nel passato; ma dura tuttavia l’attenzione attraverso la quale ciò che sarà passa, si allontana verso il passato. S. Agostino, Confessioni XI, 28, 1. Ogni prodotto artistico, come sostiene Husserl nelle “Lezioni sulla fenomenologia della coscienza interna del tempo” contiene in sé due tempi diversi, uno lungo scandito dal fare dell’artista, uno corto ed istantaneo proprio del fruitore. Entrambi appartengono alla sfera fenomenologica dell’opera, e le sue due fasi (creativa e percettiva) appartengono al presente. La successione di tali esperienze realizzano un infinito continuo, quasi un’infinita corrente di esperienze vissute. Se dunque l’insieme delle esperienze artistiche costruisce la storia, la singola esperienza è un’unità, di un passato-presente, che costituisce i diversi gradi del divenire. Ogni opera dunque pur avendo una sua temporanea collocazione spaziale, nasce da un'azione determinata, specifica e precisa, da un'abilità pratica che si è andata consolidandosi nel tempo. La percezione invece si regge quasi esclusivamente su un'abilità intellettiva e psicologica, o è il risultato di una capacità conoscitiva che nasce da una reazione sentimentale non legata però al tempo. L'artista nella molteplicità dei linguaggi, spesso propone operazioni che vanno dal ripensamento alla scomposizione del tempo, seguendo però la durata interiore del tempo, circoscrivendo così la dimensione temporale del proprio esistere, che, in ambito creativo si identifica con il fare. La sensazione del trascorrere non può che essere rappresentata in un'azione comunque in divenire. La fase della percezione segna invece la negazione della durata, poiché ogni fatto percettivo non si regge sulla singola azione, ma sulla sua esteriorità fenomenologica, nella quale, come s’è detto, sono contenuti i due tempi della produzione e della percezione. I significati racchiusi in queste definizioni di tempo spesso abbisognano di interpretazioni che stanno al di fuori dell'opera d'arte in quanto oggetto del conoscere, poiché la percezione in questo caso apre a interpretazioni di tipo extra artistico e questo perché l’arte non si esprime solamente con una grammatica, ma segue la grammatica infinita e indefinita del conoscere. Con il termine Aito Platone definì un atto di vitalità, inteso però come energia o virtualità del durare all’interno del Kronos che segna, anche numericamente, lo scorrere del tempo. Da un'ipotesi di questo tipo possiamo pensare un'arte che si propone la rappresentazione del tempo che trascorre e che, umanamente, finisce. Tale presupposto può reggere una lettura al divenire della pittura di Giorgio Griffa. L'artista torinese nelle sue righe parallele registra il "fare", che dura quanto la lunghezza dell'azione del dipingere. Spesso nelle sue opere le sequenze di linee tutte uguali viene interrotta da una più breve tale da affrontare concettualmente la definizione di durata, ciò identifica il tempo con il fare nello spazio. Operazione non dissimile dalle sequenze in movimento, come quelle proposte ne La bambina sul balcone di Balla o ancora dal primo Duchamp nel Giovane triste in treno e Nudo che scende le scale . Qui il tempo viene severamente scandito dal rapporto esistente fra figura (che si moltiplica) e lo spazio che questi occupa presumibilmente alcuni secondi dopo. L’idea di movimento, o di un fatto temporale, è resa dalle sequenze del movimento: un atto prima e un atto dopo. È qui evidente l’importanza del fotogramma, della successione temporale propria della cinematografia. Lo stesso futurista Bragaglia, nel ‘13 tenta la rappresentazione del movimento in un solo piano temporale attraverso la registrazione dello spostamento dell’immagine. Altre volte la frazione temporale e ritmata rappresenta un continuum paragonabile ad una trama cinematografica, ad un divenire nello spazio. È il caso dei Viaggi o delle Esposizioni in tempo reale di Vaccari. La semplice sequenza rappresenta un tempo verosimile e l’oggetto rappresentato ne sottolinea il divenire. Anche lo strappo di Mimmo Rotella interpreta il divenire del tempo attraverso l’idea di prima e di dopo, ma anche di fine. La sua opera è una specie di Eikona, dove ogni sovrapposizione di manifesto segna il passare del tempo attraverso il susseguirsi di immagini, che ha fine solo quando il manifesto viene estraniato dal suo luogo. Ma il sistema della frazione ritmata tende alla ricostruzione di un tempo atemporale in quanto è espresso da un’idea, da un’interpretazione di tipo concettuale, poiché non vi albergano rappresentazioni temporali, ma solamente idee di tempi o spazi diversi. I fotogrammi infatti non hanno senso se raccolti come momenti a sé stanti, ma assumono una loro valenza estetica solamente nella fase della loro ritmicità visiva. Di questa fase comunque se ne appropria il singolo fruitore, confrontandosi con la sua esperienza, con il suo linguaggio, con la sua conoscenza. Su un’idea di azzeramento del tempo si regge le proposta di lettura dello spazio da parte del cubismo. In esso il tempo viene annullato, poiché la rappresentazione dello spazio essendo immediata e dunque non soggetta a movimento, presume l'idea di una esistenza in uno spazio diverso quadrimesionale, nel quale il tempo è la quarta a dimensione: il divenire. Viene quindi il tempo mpo, ma al presente, come dato assoluto. Appartiene cioè a quella sfera del tempo che sta tra ciò che non c’è più e quello che deve ancora essere. La diversità dell’atto creativo da quello percettivo, non vieta però la possibilità di dare un valore estetico ad opere il cui loro valore artistico è, per altri versi, differentemente misurabile. La sensazione che ne scaturisce è che il concetto di tempo preciso nell'arte non esiste. E ciò deriva semplicemente dal fatto che la realtà temporale non può essere affrontata come momento che sta al di fuori del “divenire”. In quanto il divenire stesso non è che il presente. L'istante ci appare come una porzione di tempo delimitato, un tempo reale nel quale l'energia estetica si esprime attraverso l'immagine, quasi un fotogramma che raccoglie il "muovere", senza per questo rimandare ad una dinamicità creativa o percettiva in progresso. Il tempo è anche una fonte di ispirazione per molti, spesso ha rappresentato una specie di sfida contro quel divenire che, secondo i principi agostiniani, porta necessariamente alla fine, pur però riconoscendone l’esistenza di immutabile presente. Ma se è vero, da un lato, che l'artista rappresenta un arco del divenire del tempo, dall'altro l'opera non è che un minimo arco del divenire del tempo della storia dell'arte, e, nel contempo, della storia di ogni singolo artista. Man Ray e Rembrandt con gli autoritratti hanno raffigurato il proprio divenire attraverso la riproduzione del mutamento delle loro fisionomie e dunque hanno inteso interpretare lo scorrere del tempo. La pittura figurativa ha la possibilità di descrivere il tempo, se non altro perché la raffigurazione, e con questa la portata semantica dell'immagine, fa scattare nelle memoria del fruitore l'impressione del rapporto spazio-tempo. A sorreggere invece l’idea di tempo, nell'arte astratta, intervengono operazioni concettuali, segni, gestualità improvvise, dripping, strappi repentini, ricomposizioni o altri espedienti che comunque appartengono alla pluralità degli elementi espressivi".

 

 

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Sulla Pittura

 

La Pittura perse lo scettro. Questo titolo riportato dall’Unità del 4 marzo 1997 (auguri a Dalla) propone delle riflessioni non tanto sulla pittura in sé, quanto piuttosto sulla categoricità dell’affermazione. Vorrebbe logica che tale affermazione dipendesse alla certezza che il mondo dell’arte contemporanea fosse stato dominato dalla pittura, da una delle arti che, assieme a tante altre, definiscono il panorama creativo dell’uomo. Ciò può essere vere poiché nelle definizioni di classicismo possiamo annoverare la scultura e la pittura come le arti più vecchie, quelle che attraverso la figurazione hanno dato oggettività alle idee ai pensieri alle concezioni filosofiche. Ma qualsiasi persona attenta all’arte sa che ciò non è assolutamente vero: Chi ha avuto modo di osservare l’evoluzione del mondo dell’arte ha visto come la pittura e la scultura hanno saputo rifondarsi, riproporsi con linguaggi e strumenti diversi. Anche i contenuti, cari al buon idealismo, ma anche al realismo socialista, hanno contribuito a riversare sulla pittura compiti che probabilmente non gli appartenevano o che comunque avevano ridotto il linguaggio pittorico come veicolo per altro. L’affermazione della direttrice artistica Catherine David, che non ha inserito la pittura come specialità all’interno della manifestazione di Kassel, anzi l’ha definita uno spazio nell’estetica dell’arte contemporanea, non un campo autonomo. Potremmo anche dissentire personalmente con la curatrice di Documenta X, in quanto la signora David ha perso un’occasione per conoscere le esperienze pittoriche degli anni settanta e contemporaneamente osservare anche il lavoro di alcuni giovani italiani. Certo l’Italia ancora distante dalla Germania, alla quale non possiamo ribattere che con la Biennale, ma il buon Apollo ci vieta il confronto: mentre in Germania ci offrono cento giorni di discussioni sull’arte contemporanea, noi offriamo le solite cento polemiche (una al giorno) sulla Biennale. Non potendo dunque discutere alla pari con le manifestazioni artistiche possiamo invece discutere, ahimè solo a parole, con noi stessi, a limitarci ancor una volta a riflettere sul possibile. Che la pittura abbia occupato un ruolo primario nella storia dell’arte è certamente vero, ma è anche vero che lo scettro della regina gli è stato fornito da una limitatezza del pensiero creativo poiché la pittura e con essa la scultura hanno avuto un percorso di sudditanza nei confronti di altri forme del “sapere”. La storia dell’arte ci fornisce invece una lettura più ampia e aperta della funzione della pittura, intesa aristotelicamente prima e crocianamente poi, tutto benedetto dal concilio di Nicea, quando all’alto analfabetismo si sopperiva con la figura, con il contenuto rappresentato. E quest’idea ha accompagnato la pittura fino quasi ai giorni nostri, fino alle esperienze delle avanguardie a Romani, Kandinskij, Klee. Mondrian, gli astratti lombardi, alla pittura gestuale, al costruttivismo, all’espressionismo astratto americano, alle esperienze analitiche degli anni settanta, ma anche ad un ampio arco di giovani che sono mossi dalla convinzione che la pittura abbia ancora una sua esistenza autonoma. E questa convinzione, per quanto difficile da sostenere comunque, per quanto colta e dunque riservata e ristretta sia, offre, proprio per questa sua esclusione e “posteriori” a Kassel motivo di ripensamento. E questo non certo per limitare la portata espressiva della pittura, quanto piuttosto per ridisegnare il palcoscenico dal quale la pittura può esercitare il proprio fascino il proprio mondo di essere. Le esperienze dei giovani astratti si rivelano in realtà più importanti di quanto queste si mostrino a prima vista. Appare semplice, per chi scrive, trovare le motivazioni di lettura, in esperienze passate, cercare in queste opere dei padri (cosa per altro necessaria poiché ogni autore ha dietro di sé una storia, un passato dal quale ogni idea si genera), anch’io a suo tempo ho cercato delle motivazioni nelle esperienze simili del passato. Ma le motivazioni poi vengono meno, poiché il processo analitico porta inesorabilmente ad una riduzione dei linguaggi, alla certezza che comunque il singolo elemento linguistico possa esistere di per sé, essere autonomo, elemento unico ma comunicativo. E questo è l’unica via per riflettere sui linguaggi pittorici. Saturazione compenetrazioni contaminazioni rinunciano alla validità assoluta dell’esistere di per sé.

 

 

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Moconesi

Impegno e poetica della pittura italiana

 


Un'interessante riflessione sulla pittura contemporanea in Italia è stata proposta da Claudio Cerritelli nella mostra Impegno e poetica della pittura italiana, alla quale partecipano Nigro, Turcato, Dorazio, Aricò, Ciussi, Guarnieri, Verna, Griffa, Pinelli, Bargoni, Satta, Asdrubali, Querci, Pellegrini e Arlotta.
Ma tra tutti i presenti in particolare voglio qui ricordare la figura di Mario Nigro da poco scomparso. Personal mente ne conservo un carissimo ricordo. Con lui ho avuto modo di discutere di arte e di pittura, ho potuto apprezzare la sua profonda cultura ricca di umanità, contraddistinta da una forte capacità razionale di riflessione sul mondo e sull'animo umano.
Da sempre tra i protagonisti ed innovatori della pittura del secondo dopoguerra, poiché‚ la sua personalità e la sua problematica hanno saputo coinvolgere diversi esponenti del mondo artistico contemporaneo, ma soprattutto, è riuscito a trascinare, nella sua riflessione sulla politica, sull'arte e sulla scienza, anche molti giovani.
La mostra affronta un tema strettamente di attualità relativo all'esistenza della pittura come risultanza di un oggettivo percorso temporale. La presenza di giovani artisti accanto ad altri più maturi, apre senza dubbio una problematica nuova: cioè se nella pittura, spesso dimenticata perché linguisticamente sempre uguale a se stessa, vi si possa leggere una continuità che vive autonomamente fuori dai facili concettualismi proposti da strumenti, da sin tassi e grammatiche diversi dal semplice uso del pennello, del colore o della superficie.
Ma essere oggi pittore (colui cioè che fa oggettivamente pittura) significa porsi in una posizione di riflessione e spesso di analisi nei confronti della storia della pittura e anche gli artisti, che ne hanno segnato buona parte dell' ultimo percorso, ripropongono il loro lavoro come momento dal quale muovere per una nuova ricerca e una più profonda riflessione capace di farsi azione comune e tale da diventare azione comune a più generazioni.
L'esposizione non può essere però interpretata come pura rivendicazione di stili, né tantomeno può mirare ad un'affermazione acritica dei diversi modi di fare pittura, quanto quella di porre uno accanto all'altro artisti che dialogano fra loro attraverso proprie esperienze che sono poi il risultato di un medesimo approccio con la pittura.

 

 

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Geometria come progetto

Galleria D'arte Contemporanea- Udine

 

 

La Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Udine ha recentemente proposto un'indagine su una particolare tendenza dell'arte italiana contemporanea: la geometria. Sono stati invitati, con opere significative: Getulio Alviani, Mimo Biasi, Massimo Bottecchia, Carlo Ciussi, Aldo Colò, Luigi Iod, Mario Palli, Tino Piazza, Giulio Piccini, Pope, Nane Zavagno. Artisti questi che hanno iniziato la loro attività partendo proprio dalle esperienze geometriche, gestaldiche, costruttivistiche degli anni sessanta-settanta.
Interessante anche l'interpretazione promossa dal curatore Luciano Perissinotto, il quale, ripercorrendo la difficile strada impostata dallo scrittore-scienziato inglese Charles Snow ne "Le due culture", propone una lettura che tende a privilegiare una composizione di tipo scientifico, ma che, nello stesso tempo il prodotto finito sia frutto di un soggettivismo, avvertibile sia nella fase creativa che in quella, più autonoma della percezione.
Infatti nel testo in catalogo vi sono evidenziate le connessioni tra il procedere essenzialmente per forme geometricamente definite, come il quadrato, il cerchio, il triangolo ecc. e la componente speculativa propria della cultura umanistica. In fondo è proprio questo dualismo a guidare la ricerca del tutto personale di questi protagonisti dell'arte friulana negli ultimi trent'anni.

 

 

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