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L'infinito del giovane Leopardi

Il percorso artistico ci Marcello Mascherini

Nell'atrio dell'abbazia di Sesto al Reghena

Nell'abbazia di Sesto al Reghena

 
 

 

 

l'infinito e il giovane Leopardi del 1818/20

 

 

 

 

L'infinito del giovane Leopardi

 

 

 

 

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,

E questa siepe che da tanta parte

Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

 

 

Veniva Freud affermando che il contrario del gioco non è il serio, bensì il reale, per cui ogni opera letteraria, che in quanto tale è manifestazione semiotica dell’inconscio, è caratterizzata dall’esperienza personale inscritta dall’inconscio stesso all'interno del testo. Come non soffermarci quindi sull’intensità autobiografica di energiche metafore poetiche, nelle quali prevale l'emozione personale ed altamente soggettiva, tanto che il gioco delle parole diventa gioco/realtà dei pensieri.

"Le cose che il poeta si propone non dee mostrare di proporsele, quantunque debba mostrare quegli altri propositi manifesti, i quali servono più che altro di pretesto e manto ai propositi occulti". Questo scrive Leopardi nello Zibaldone (51) attorno al 1819, poco prima di scrivere l'Infinito, e pare fornisca una (stimolante) chiave d’interpretazione delle sue opere: cercare quello che è occultato all'interno di un testo che ha la sola funzione di occultare, "giacché figurandoci il poeta nello stato naturale è un uomo che preso il suo tema, e questo è il proposito manifesto, venga giù dicendo quello che gli si somministra spontaneamente come fanno tutti quelli che parlano..." (Zib. 51). È scopo del poeta dire altro oltre la verità manifesta. È un doppio gioco quello offerto dal Leopardi nelle sue opere? Io credo però che tale forma di nascondimento sia determinata dal contrasto tra la poesia - nella sua più alta accezione lirica - e la personalità ed esperienza dell'autore.

Rimane indubbio che per il poeta la poesia è la più alta espressione dell'animo umano; molto vicina a quel concetto di poesia esposto da Platone: "la parte dell’anima che nelle nostre private disgrazie ci sforziamo di tenere a freno e che ha sete di lacrime vorrebbe sospirare e lamentarsi a suo agio essendo questa la sua natura, è proprio quella cui i poeti procurano soddisfazione e compiacimento ..." (Rep. X), e questa forma di disagio Leopardi la individua nelle rimembranze e nell'indefinito: un girovagare tra il ricordo della giovinezza passata - che non ritornerà più - e le più sentite illusioni su un mondo immaginario o desiderato (vago). "La sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è una immagine degli oggetti, ma dell'immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso dell'immagine antica [..].  In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacché non le proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.

"E osservate che anche i sogni piacevoli nell'età nostra, sebbene ci dilettano assai più del reale non ci rappresentano più quel bello e quel piacevole indefinito come nell'età prima spessissimo" (Zib. 516, genn. '21).

Ma questa concezione della poesia, che appare tanto elementare proprio perché si mostra come espressione pura di un sentimento sincero e fanciullesco, subirà una lieve variazione nella sistemazione ideale all'interno del pensiero del poeta. La consapevolezza che non è più possibile imitare la poesia degli antichi, quella poesia che Leopardi chiama "poesia d'immaginazione", e il doversi esprimere in questi termini, è per lui una sorta di limitazione in quanto la poesia contemporanea concede all'uomo moderno - intriso di filosofia - di servirsi di quelle forme che il poeta stesso definisce  "poesie sentimentali": una poesia che a malapena si può definire tale, una specie di filosofia, un esercizio di eloquenza che si distingue dalla pura retorica solamente perché più "splendida e più ornata di essa".

  Pare dunque che in Leopardi, attorno al 1819-20, si venga a delineare la certezza che la poesia debba essere, in un certo senso duplice: espressione letteraria di un vivo e personale sentimento, ispirato dall’immaginazione ma nello stesso tempo espressione della ragione e della filosofia. Una filosofia questa che problematicamente accentua l'antagonismo tra il mondo dell'immaginario/ideale e quello del reale. La poesia diventa il campo in cui il poeta si trasforma in filosofo e nell'espressione esteriore dei fenomeni naturali ricerca la collocazione umana nel mondo e la ragione della propria esistenza. Vengono meno quegli elementi squisitamente immaginativi per lasciare il posto alla riflessione e alla problematicità dell'esperienza. Nelle opere giovanili del Leopardi già si intravede una dubbiezza di tipo filosofico, ma ancora tendente a creare emozioni fantastiche.

 Ma la realtà comincia ad avere il sopravvento sulla feconda immaginazione. Il 1819 è un anno particolarmente triste: un lungo periodo di infermità agli occhi, che non gli permetterà di leggere, e un tentativo di fuga da Recanati, immediatamente abortito. Bastano questi due fatti per indurci a considerare la portata del contrasto tra la visione fantastica ed il reale, tra il desiderio ed il limite del proprio agire.

 La stessa lettura è immaginazione e il non poter leggere è negazione/divieto di immaginazione.  Nell'Infinito sono evidenti questi due momenti: una presenza marcatamente realistica, il colle e la siepe mentre dall’altro lo sguardo, impedito nella visione dell'orizzonte, non fa altro che sottolineare l'azione di astrazione del poeta nella fase della finzione (nel pensier mi fingo). Quest'immaginazione ha un lieve sapore geografico se la consideriamo come desiderio di fuga non ancora realizzata, ma già pensata e se l'associamo alle reazioni negative che i viaggi seguenti, in particolare il soggiorno romano, hanno lasciato nel poeta. La conoscenza del mondo che ne scaturisce non è altro che una conoscenza avuta attraverso la letteratura: un mondo che è necessariamente deve trovarsi fuori dal "borgo selvaggio". Questa continua immaginazione diventa alla fine una sorta di insofferenza e di mal sopportazione dell'ambiente provinciale in cui il poeta è costretto a vivere e di quella piccola cittadina bigotta, semplice, tranquilla e conservatrice.

 

Ma sedendo e mirando, interminati

Spazi di là da quella, e sovrumani

Silenzi, e profondissima quiete

Io nel pensier mi fingo; ove per poco

Il cor non si spaura.

 

"... e abbiate per articolo di fede ch'io mai e poi mai uscirò di Recanati altro che mendicando prima della morte di mio padre, la quale io non desidero avanti la mia." (a Pietro Giordani 26 Aprile 1819), in questa lettera la voglia  di lasciare il paese pare predominare su tutti i desideri del poeta. L'impedimento non sembra dipendere dalla mancanza di mezzi di sostentamento - della cui necessità se ne sente la presenza in una prima e affrettata lettura - ma da una improbabile autorizzazione da parte della famiglia, come si può dedurre dal seguito della stessa lettera: "E l'Accademia Ecclesiastica, ricercando maggiore spesa che a me non bisognerebbe in altro luogo, è, se nel superlativo si dà comparativo, il partito più disperato: mentre quello stesso ch'io domando, che non è vivere da signore, né comodamente né senza disagio, ma sol tanto di vivere fuori di qui, non è pure immaginabile d'ottenerlo." (idem). Un desiderio immaginabile (se non altro per contrapposizione a quel "non è immaginabile") che apre un’interpretazione particolare di quel "nel pensier mi fingo", dal quale traspare non solo il desiderio di vivere fuori di Recanati, ma anche la necessità di immaginarsi la stessa realtà che sta al di fuori delle sue quotidiane esperienze.

Il difficile rapporto con la famiglia e con i concittadini diventa una limitazione alla formazione intellettuale del poeta. Questa sensazione di soffocamento in un ambiente, che è poco propenso ad offrirsi come stimolo per nuovi studi e nuove ricerche, pone il poeta in una situazione di contrapposizione tra il suo vivere reale e il raffigurarsi la realtà esistente al di fuori del suo isolamento familiare. Ed è ancora solo attraverso la scrittura/lettura che il poeta prende conoscenza del mondo, che a lui si pone nuovamente come prodotto dell’immaginazione: un'immaginazione che non tarderà a concretizzarsi negativamente appena prenderà contatto col mondo. Perciò il 19 marzo 1819 scrive a Giordani: "... perché, o mio carissimo, non basta ch'io viva nella più stupida città e provincia d'Italia, bisogna per soprappiù che questa sia la sola città e provincia d'Italia anzi d'Europa, che non possa aver commercio col resto del mondo." È evidente, in queste poche righe, lo stato di scoramento che coglie il poeta quando, dopo lunghe e solitarie meditazioni, prende coscienza del suo vivere il quel "borgo selvaggio".

Leopardi però è il figlio di uno studioso - autore di poemetti e opere di stampo polemico - che nel 1801 ha pure rispolverato un’accademia letteraria (Accademia dei Diseguali) e persona influente nella politica locale, tanto che riuscirà, in qualità di membro del comitato di Recanati a mandare il 19 maggio 1831 il figlio come rappresentate distrettuale all'assemblea dei deputati delle province unite italiane a Bologna.

 Di questa superiorità di classe Leopardi è ben conscio. Le immagini e suoni che a lui arrivano attraverso i "veroni del paterno ostello" gli sono estranei perché sono espressione di una classe per la quale prova solamente compassione a causa di quell'ignoranza che impedisce ogni riflessione "sui propri mali e su quelli del mondo".

 Anche questa forma di isolamento si fa dunque sentire accanto a quella che gli viene (volontariamente o meno) inflitta dalla madre: "Io ho conosciuto intimamente una madre di famiglia che non era punto superstiziosa, ma saldissima ed esattissima nella credenza cristiana, e negli esercizi della religione. Questa non solamente non compiangeva quei genitori che perdevano i loro figli bambini, ma gl'invidiava intimamente e sinceramente, perché questi erano volati al paradiso senza pericoli, e avevano liberato i genitori dall'incomodo di mantenerli." Non credo sia difficile identificare in quel "intimamente" la figura della madre, della quale dirà poi"... non lasciava passare, anzi cercava studiosamente di rinfacciar loro, e far loro ben conoscere i loro difetti, e le conseguenze che ne dovevano aspettare, e persuaderli della loro inevitabile miseria, con una veracità spietata e feroce." (Zib. 354/355, 25 novembre 1820).

Questa solitudine porta il poeta a dover compiere una scelta di vita: fuggire da quel luogo che è causa di tutto il suo male e diventa stimolo per la fuga l'illusione che il mondo sia diverso da quello che egli ha vissuto fino allora. Una solitudine e una conseguente illusione che lo mette nella situazione ove "per poco il cuor non si spaura".

"Mio caro. Parto di qua senz'avvertene detto niente, prima perché tu non sia responsabile della mia partenza presso veruno; poi perché il consiglio giova all'uomo irresoluto, ma al risoluto non può altro che nuocere: ed io sapeva che tu avresti disapprovata la mia risoluzione, e postomi in nuove angustie col cercar di distormene. Son stanco della prudenza, che non ci poteva condurre se non a perdere la nostra gioventù, ch'è un bene che più non si riacquista." Il giovane Leopardi non aspettava altro: "Ora che la legge mi fa padrone di me stesso, non ho voluto più differire quello ch'era indispensabile secondo i nostri principi. Due cagioni mi hanno determinato immediatamente, la noia orribile derivata dall'impossibilità dello studio, sola occupazione che mi potesse trattenere in questo paese; ed un altro motivo che non voglio esprimere, ma tu potrai facilmente indovinare." La famiglia era senz'altro a conoscenza dello stato di insofferenza del poeta e l'inerzia dei familiari gli procurava un ulteriore stato di abbattimento tale che, nella stessa, egli si esprime nei seguenti drammatici termini: "E questo secondo, che per le mie qualità sì mentali che fisiche, era capace di indurmi alle ultime disperazioni, e mi facea compiacere sovranamente nell'idea del suicidio, pensa tu se non dovea potermi portare ad abbandonarmi a occhi chiusi nelle mani della fortuna." Nonostante la tragica presenza del suicidio come fine ultimo, il poeta cede all'illusione di abbandonarsi nelle mani della fortuna, invocata "perché sai la mediocrità non è fatta per noi […] sai che non ho cosa più preziosa che i parti della mia mente e del mio cuore, unico bene che la natura m'abbia concesso.".

      Al padre, nella lettera acclusa a quella sopra citata, si esprime con le  seguenti parole a proposito dell' impossibilità sua e del suo ingegno a sopportare ancora quell'esistenza deprimente e corruttiva vissuta nel paese natale: " Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea cognizione di me, immancabilmente si meravigliasse ch'io vivessi tuttavia in questa città [...] ma Ella non credè che le sue relazioni, in somma le sue cure si dovessero neppur esse impiegare per uno stabilimento di questo suo figlio. [...] Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch'io menava per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi procurava la mia strana immaginazione.": quasi una sorta di paura per quello che "di là da quella […] io nel pensier mi fingo".

 

[…] E come il vento

Odo stormir tra queste piante, io quello

Infinito silenzio a questa voce

Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,

E le morte stagioni, e la presente

E viva e il suon di lei.

 

È evidente in questa parte della poesia il dualismo tra immaginario e reale, che non si esaurisce nel solo e sterile confronto tra questi due momenti, ma evidenzia la consapevolezza che nell'eccessivo sforzo di imitare la natura il poeta sarebbe arrivato ad una sorta di metafisica della conoscenza stessa,per cui non gli rimane altro che  prendere atto della sua esistenza terrena, confidare nelle illusioni, e sperare per un momento che l'ideale potesse convivere  o sostituirsi al vero, perché "il più solido piacere di questa vita è il piacere vero delle illusioni" che per il poeta sono generate solamente dall' immaginazione. Non pare lecito dedurre che, per il poeta ancora giovane, le illusioni siamo figlie solamente dell'imitazione della natura, bensì ci viene da pensare che vengano necessarie nel momento in cui il dolore rende l'esistenza disperata.

 "Egli è posto dinanzi la propria natura e di questa rappresentazione ha fatto il suo compagno e in essa gode se stesso" queste parole di Hegel sembrano appropriate al pensiero leopardiano. Diventa la natura una rappresentazione secondo un modello classico filtrato dalle facoltà rievocatrici ed amplificate del poeta su ambienti, cose e momenti, fino a espandere atmosfera e risonanza quasi cosmica del tutto. Ma è proprio quest'immersione idilliaca dentro la natura che mette il poeta nelle condizioni di riflettere sull'immediata esperienza e cercare, nel rappresentato, l'universalità, che purtroppo più avanti, renderà vana l'esistenza delle illusioni stesse.

"Questo divino stato l'ho provato io di sedici diciassette anni per alcuni mesi ad intervalli, trovandomi quietamente occupato negli studi senz'altri disturbi, e colla certa e tranquilla speranza di un lietissimo avvenire. E non lo proverò più, perché questa tale speranza, che sola può rendere l'uomo contento del presente, non può cadere se non in un giovane di quella tale età, o almeno esperienza." (Zib.76). Traspare da queste poche righe una sorta di malinconia, che sembra nascere dalla presa di coscienza che l'età, o quantomeno l'esperienza, ha già dato i suoi frutti, e che non è più possibile procedere nello stesso modo. Le illusioni piano piano si vanno smorzando e appare la certezza che solamente la realtà comanda l'esistenza dell'uomo e niente vale a superarla o sconfiggerla.  

L'illusione stessa però ci porta a "convivere" con una realtà, che per definizione è in antitesi con quella quotidiana. La difficoltà esistenziale perciò è connessa alla forza intellettuale che un singolo individuo ha nel continuare a vivere in una situazione che gli è di fatto estranea. E' per questo che appena sopra il poeta veniva affermando: "La somma felicità possibile dell'uomo in questo mondo, è quando egli vive quietamente nel suo stato con una speranza riposata e certa di un avvenire molto migliore che per esser certa, e lo stato in cui vive, buono, non lo inquieti e non lo turbi coll'impazienza di goder di questo immaginato bellissimo futuro." A parte la negazione di questo stato in una certa età, è evidente nel poeta una netta separazione tra stato di pura esistenza e stato di pura immaginazione, ma ciò prevede una indipendenza dei due momenti: desiderio di un "avvenire molto migliore" e lo stato di "quiete". Quando questi due momenti si incrociano danno origine, in un primo momento, alle illusioni che comunque il buon avvenire ci sarà, e in un secondo la dura constatazione che è impossibile la sopravvivenza di un futuro al di là della reale esistenza. E' per questo che diventa normale per il poeta comparare le stagioni passate con quella presente e viva, proprio perché l'illusione è espressione dell'infinità del pensiero, o quantomeno è nell'eterno, nell'intramontabilità e continuità del tempo, che il pensiero vive e si rigenera, tanto che "bisogna bene che, per quanto la speranza sia facile a nascere e insussistente, il timore lo sia di più [..]. Il timore è dunque più fecondo d'illusioni che la speranza" (Zib. 66), un timore che, legato all'inutilità, diventa più cupo e tetro quando poco più avanti il Leopardi viene dicendo: "Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, ed io stesso certamente in un'ora più quieta conoscerò la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e s'annullerà, lasciandomi in un vòto universale e in un'indolenza terribile che mi farà incapace anche di dolermi." (Zib. 72). Questo è ciò che il poeta ha scritto nel 1819, poco prima della tentata fuga.

Immediatamente dopo il rientro dalla fuga, nei seguenti versi dello Zibaldone si nota una sorta di rassegnazione, quasi una convinzione che il futuro sia per definizione avverso all'uomo: 

 

      "La speme che rinasce in un sol giorno

       Dolor mi preme del passato, e noia

       Del presente, e terror de l'avvenire."

 

Questi versi segnano, nel diario dei pensieri, un ritorno allo studio più assorto e con esso un desiderio di quiete capace di creare quello stato di incosapevolezza, ancor capace di far nascere le desiderate e bramate illusioni, ma che in realtà, sono la consapevolezza che niente è più possibile se non l'indifferenza verso le cose che stanno attorno e la soddisfazione e il desiderio dell'immediato. "Quando l'uomo veramente sventurato si accorge e sente profondamente l'impossibilità d'essere felice, e la somma e certa infelicità dell'uomo, comincia dal divenire indifferente intorno a se stesso, come persona che non può sperar nulla, né perdere e soffrire più di quello ch'ella già preveda e sappia. Ma se la sventura arriva al colmo, l'indifferenza non basta, egli perde quasi affatto l'amor di se, (ch'era già da questa indifferenza così violato) o piuttosto lo rivolge in un modo tutto contrario al consueto degli uomini, egli passa ad odiare la vita l'esistenza e se stesso, egli si abborre come un nemico, e allora è quando l'aspetto di nuove sventure..." (Zib. 87), ma più avanti "pare assurdo, e pure è esattamente vero, che, tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni" (Zib. 99).

 

[…] Così tra questa

Immensità s'annega il pensier mio:

E il naufragar m'è dolce in questo mar.

 

Questi ultimi versi sono l'espressione più alta dell'idillio tra l'uomo e la natura. Niente traspare da queste parole né di quell'esistenza vissuta, né di quella esperienza appena passata. Sono questi versi l'interpretazione più alta della natura. E' un'unione che rasenta il più personale sentimento del poeta nel comprendere la forza primordiale della natura. Scrive Nietzche nella Gaia Scienza (§ 37O) "Allo stesso modo interpretai per conto mio la musica tedesca come l'espressione di una possenza dionisiaca dell'anima tedesca: credetti di udire in essa il terremoto con cui una forza primigenia, accumulata sin dall'antichità, trova finalmente sfogo." Questo idillio, alla luce della vita di Leopardi, si mostra come l'espressione più alta di una forza dionisiaca capace di esaltare la più pura e sincera unione dell'uomo/poeta con la natura.

     "… e non per altro, se non perché il presente, qual ch'egli sia non può essere poetico". Quest'affermazione, del 1828, si mostra quale negazione del pensiero esposto nell'Infinito: quel naufragar forse non deve essere inteso qual espressione di godimento della realtà presente, ma come stato sublime dell'immaginare. Ritrova in questi versi l'unica forma del poetico rifiuto di ogni logica all'interno del discontinuo, della precisione ed esaltazione conseguente della natura nella sua immediata manifestazione, e diventa pura espressione dell'immaginazione che la visione della natura stessa promuove nella mente del poeta. Al Giordani il 19 novembre del 1819 scriverà: "Questa è la prima volta che la noia non solamente mi opprime e stanca, mi affanna e lacera, come un dolor gravissimo; e sono così spaventato della vanità di tutte le cose e della condizione degli uomini ..." Tutto è pronto perché il poeta riprenda il suo impegno intellettuale e riacquisti quello stato di "quiete" tale da indurlo a cercare e spiegare il suo rapporto con la natura e con il mondo. Un mese dopo in una lettera al giordani si preoccuperà di chiedere notizie delle opere di Omero, del Mai, del Monti, di Virgilio, di Ariosto, del Tasso, del Petrarca, del Sanazzaro ecc., senza più accennare ad argomenti personali

È questo il periodo in cui il Leopardi piano piano si allontana dalla poesia e mostra maggior interesse per la prosa. "L'uso ha introdotto che il poeta scriva in versi. Ciò non è della sostanza né della poesia né del suo linguaggio e modo di esprimere le cose. [...] In sostanza, e per se stessa, la poesia non è legata al verso." (Zib. 1625-1626 del 14 Settembre del 1821). Durante la stesura del Bruto Minore, più tardi, verrà affermando che la prosa si avvicina maggiormente alla poesia moderna. Non addentrandoci nel labirinto di una possibile definizione della poesia moderna, a noi basta affermare come questo breve ciclo della vita del Leopardi sia determinante per una scelta non solo di tipo esistenziale, ma di stampo più squisitamente letterario.

È l'inizio del periodo delle Operette Morali.

Il poeta, con il suo rincorrere il pensiero, ha sempre parlato dell'esperienza delle cose e soprattutto della sua vita interiore. Il De Sanctis a proposito lamenterà che per uscire dal mito del personaggio era necessario innanzitutto un rigoroso accertamento biografico e documentario, che offrisse dati credibili e testi sicuri per valutare la portata del fenomeno del poeta triste, quello che il Dossi definirà "poeta sentimentale e piagnone". Fu un fenomeno quello Leopardiano, che fece diversi proseliti non particolarmente apprezzati dal Carducci, dei quali ebbe a dire: "Il Leopardi gran poeta, mentre i leopardiani sono dei gran buffi e sconclusionati animali".

Noi crediamo che il fenomeno Leopardi sia un fenomeno a se stante, come a se stante è stata la prima parte della sua vita, e che il suo vivere sia la vera "cosa" che la poesia abbia da dire e che "la ribellione contro la costruzione proveniente dalla logica e dalla realtà è più profonda e durevole; perfino i fenomeni dell'attività fantastica vanno visti in questa luce." (Freud in Der Witz). Forse è con questi presupposti che all'amico Giordani il 30 Giugno del 1820 scriverà: "... il mio travaglio deriva più dal sentimento dell'infelicità mia particolare, che dalla certezza dell'infelicità universale e necessaria. Io credo che nessun uomo al mondo in nessuna congiuntura debba mai disperare il ritorno delle illusioni, perché queste non sono opera d'arte o della ragione ma della natura ... "

 

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Il percorso artistico ci Marcello Marcherini

 

 

 

Una mia scultura nasce per desiderio di forma. L'emozione che provoca in me la spinta necessaria alla creazione di una forma o scultura, nasce da un desiderio che mi si rivela attraverso la natura" In questa dichiarazione rilasciata da Mascherini in un'intervista nel 1968, È ben visibile la sua personale scelta artistica: la rappresentazione della natura attraverso le sue innumerevoli forme.

 L'attività artistica di Marcello Mascherini non ha trovato origine in un corso di studi regolare, frequentando cioè l'Accademia delle Belle Arti, perché‚ per ragioni puramente economiche ù e non potrebbe esserci stata altra ragione che la necessità di lavoro visto il suo interesse per la scultura ù dovette allontanarsi anzitempo dall'ambiente accademico, dopo aver seguito i corsi artistici presso la sezione scultori ornatisti all'Istituto Industriale, sotto la guida  del prof. Alfonso Canciani. Di quell'Istituto conservò un buon giudizio in quanto venne a sostenere più tardi che "se pur non si poteva paragonare ad una vera Accademia, dava una base di serietà agli studi, affinava le qualità naturali, insegnava il mestiere. Da questa scuola, presa poi a modello per i Licei Artistici istituiti in Italia, sono usciti quasi tutti gli artisti triestini che hanno un nome ed un volto: da Scomparini a Piero Marussig, da Wostry a Grimani, da Parin a Tummel, da Flumiani ad Attilio Selva, da Barison a Mayer". Era dunque una scuola che, a conti fatti, aveva affinato le sue capacità operative e gli aveva fornito anche una solida conoscenza della storia dell'arte. Conoscenza quest'ultima che gli tornò utile più tardi, quando affrontò a tempo pieno l'attività di scultore.

Ma la sua passione per la scultura e per l'arte si era già rivelata ancora prima di questo breve corso di studi. Profugo durante la prima guerra mondiale negli Abruzzi, frequentò la bottega di uno sconosciuto figurinaio, dal quale imparò i rudimenti della lavorazione e manipolazione dell'argilla. Produceva a quei tempi delle figure in creta, che lasciava poi indurire al sole. Fu una passione questa che coltivò ed approfondì per tutta la vita. Già nelle opere giovanili sono presenti due elementi che hanno particolarmente influito sul suo operare: da una parte i componenti costitutivi il paesaggio, dall'altra la figura umana. Egli modellava le sue sculture senza alcuna regola estetica o artistica di moda, solo la propria impressione, quella più immediata, trovava realizzazione in quell'immagine che piano piano si andava materializzando sotto il movimento, sempre più sicuro, delle dita. La forza che le sue opere esprimevano era fin da allora intrisa di elementi naturalistici, selvaggi ed intensi, duri ed ermetici, solcati dagli avvenimenti naturali, e comunque carichi di contenuti e di forza espressiva come il paesaggio abruzzese dell'infanzia e l'amato Carso della maturità.

Questa sorta di isolamento accademico, subito in gioventù però non gli precluse né la conoscenza dell'estetica e della storia della scultura, né gli inibì alcuna manifestazione dell'interiore sua forza creatrice. Fu in effetti tutta l'opera di Mascherini una continua ricerca di strumenti espressivi che non vivevano solamente all'interno del suo procedere individuale, ma erano capaci di un'immediata comunicatività. Per questo le sue opere sono in grado di esprimere in modo tempestoso, problematico e profondamente riflessivo, la sua personale concezione del mondo. E l'emozione, che egli provava davanti ai fenomeni reali o più propriamente davanti alla figura umana, «può rimanere in me non espressa per lungo tempo, si matura attraverso associazioni di ricordi e visioni, trova la sua materia definitiva e si rivela nel processo della forma, elaborata febbrilmente sino all'opera compiuta".

La recente mostra retrospettiva alla Villa Manin di Passariano, offre la possibilità di osservare il procedere estetico–comunicativo dell'opera di Mascherini. Dopo un'analisi formale e dei linguaggi, credo si possano distinguere alcuni momenti specifici che hanno portato a maturità la scultura dell'artista triestino.

Alcune opere, quelle forse più significative degli anni trenta, come Il Mietitore del '29, L'estate del 1934, Cassandra del '35 e il Rapsodo sempre del '35, sono caratterizzate da un rifiuto di una staticità di tipo metafisico per acquistare una personalissima scioltezza. Questo gruppo di opere, le quali non hanno perso ogni riferimento con le mitologie del passato e quindi ancora legate ad una tradizione classica, tende alla rappresentazione di un momento plastico della figura umana. La parte degli arti inferiori, nella loro posizione con la gamba sinistra piegata nel sopportare tutto il peso del busto e con la gamba destra quasi in attesa di essere spinta davanti a quella sinistra e nell'ampiezza dei piedi del Mietitore, ricorda molto la statuetta di Boccioni Forme uniche della continuità dello spazio del 1913, e come quest'ultima, È un'interpretazione del movimento che si estende dinamicamente nello spazio. Il bronzo di Mascherini, pur essendo un'opera giovanile, evidenzia già una discreta abilità e sicurezza figurativa e la conoscenza degli avvenimenti artistici più importanti a lui contemporanei. Le grandi mani in primo piano, la torsione del tronco, la schiena piegata e l'intenso e faticoso movimento del procedere del Mietitore, sono una chiara e ben comprensibile rappresentazione della sofferenza e della fatica del lavoro nei campi. In quest'opera, come del resto nel Fonditore del 1931, si intravede una sorta di riflessione del tutto personale, o tutt'al più mediata dalla conoscenza ù evidente soprattutto nelle opere a queste posteriori ù di alcune sculture famose, come quelle di Aristide Maillol.

 Colte nel loro movimento, ma con evidenti influenze della scultura classica, sono le statue, di dimensioni notevoli, l'Estate e il Rapsodo. I corpi di questi personaggi sono presentati in un momento di tensione, in una posizione che, in base all'esperienza, noi sappiamo non poter essere mantenuti e che quindi sono pronte ad abbandonare quell'instabile posizione per assumerne una più sicura e ferma.

Una seconda serie di opere, che già si discostano dal periodo precedente, ma che diventano interpretazione più intima all'animo dell'artista, può essere composta dalle sculture come Armonie di Pietra del 1938, Eva del 1939, dall'Abbondanza del 1942, da Guardando le stelle, del 1942, da La terra del 1944. In queste opere sono ancora evidenti delle componenti classiche, come la composizione e la proporzione dei corpi. Diversi e nuovi particolari vengono però aggiunti e approfonditi. Un primo esempio È dato dalla convinzione che esiste una bellezza capace di determinarsi da se stessa, come potrebbe essere la rappresentazione dell'equilibrio del corpo umano, soprattutto di quello femminile. Nel bronzo Eva e nel gruppo Guardando le stelle, il corpo femminile, tramite la disposizione armonica delle membra, si fa molto ampio, morbido e le pose complesse si risolvono in calmi ritmi di masse, con un equilibrio che pare evocare forme classiche. Viene perciò qui gradualmente distaccandosi da quella parte della scultura che tende a identificarsi nella ricerca del movimento. Questa scelta porta così lo scultore ad affidarsi ad una personale interpretazione dello status della figura.

Gli anni trenta furono anche gli anni nei quali Mascherini cominciò ad avere i primi riconoscimenti artistici dalla critica italiana. Partecipò a più Biennali di Venezia ed alla Triennale di Milano. Fu il periodo questo nel quale si sposò con Nera Micheli, che, per diverso tempo, gli fece anche da modella.

 Ma ad aprire il nuovo corso della sua scultura fu determinante la conoscenza artistica e personale dello scultore trevigiano Arturo Martini, avvenuta in occasione della Quadriennale d'arte di Roma del 1931.

La scultura di Martini fu la prima ad abbandonare decisamente ogni imposizione accademica, senza cadere nelle innumerevoli incomprensioni tipiche dello sperimentalismo, che avevano caratterizzato, poco prima, il periodo delle avanguardie artistiche. In quegli anni le figure di Martini, realizzate con un lieve sapore arcaicizzante, perdevano ogni necessità di astrazione cerebrale per esprimersi con una personalissima scioltezza nella composizione scultorea. I riferimenti alla scultura classica vennero fusi in una visione più tiepida, più umana, più vicina ai sentimenti elementari, drammatici e patetici dell'uomo. In tali costruzioni Martini riuscì quasi sempre (maggiormente però nelle sculture di dimensioni ridotte) a creare un'atmosfera impalpabile, sospesa tra un senso d'attesa e una vaga sensualità di sapore quotidiano. Questa costante operazione mirante alla creazione di un'atmosfera quasi idilliaca, di uno stato passionale colpì Mascherini, e mosse il suo procedere verso una personale interpretazione dell'espressione umana.

«Sempre nelle mie figure ho dato al volto un'importanza proporzionata al tutto, ma quando mi trovo a un ritratto, l'esperienza pratica e la mia capacità interpretativa vengono rivoluzionate da quel volto che manifesta uno stato d'animo indipendente dal mio.[....] Quando mi accingo ad un ritratto, vengo sopraffatto dal mistero psicologico che naturalmente mi si rivela attraverso una comprensione plastica del soggetto.» In quest'articolo, che Mascherini pubblicò nel 1941, (anno in cui fu insignito del premio dell'Accademia d'Italia per la scultura) sul giornale Le Tre Venezie, rende particolarmente esplicita una certa problematica relativa al suo essere artista: dare una personalità alle sue figure.

Le sculture attorno agli anni cinquanta evidenziano alcuni cambiamenti fondamentali nella sua scultura. V'è in queste opere, come nell'Icaro del 1956, S. Francesco del 1956, Susanna del 1956, Elena del 1959 fino a Furia del 1960, un'influenza, per altro riconosciuta dallo stesso autore, della scultura etrusca. Sembrano, queste opere, infatti, ignorare l'imitazione naturalistica sia nella struttura generale, che nelle forme particolari. Esse mirano alla maggiore intensità possibile di espressione (si osservi il Monumento di Auschwitz del 1958 alla Risiera di San Saba). Vengono così subordinati a questo scopo strutture e particolari che lentamente vanno deformando e riducendo per sintesi gli elementi essenziali attraverso l'impiego semplice, nudo, discontinuo e, a volte, violento delle linee e delle masse. Nel San Francesco l'allungamento e assottigliamento della figura, sono la conseguenza di una concezione dello spazio che si fa vortice e che attrae, come vertiginosa fuga, le immagini verso l'alto, verso l'infinito e l'ignoto. Lo spazio crea un invalicabile diaframma tra l'artista e la sua opera, quasi ad isolarlo dal mondo e per porlo poi in una relazione esistenziale con gli altri esseri animati ed inanimati delle sue sculture.

Sono queste le opere nelle quali Mascherini comincia ad esprimere intensamente la propria concezione artistica. Sempre su Le Tre Venezie nel 1941 scrisse: «debbo accennare a quella che fu per me la rivelazione dei bronzetti etruschi. Vedendo quelle opere di piccola plastica, nelle quali scoprii una perfetta aderenza tra vita e arte, un eternare le cose più semplici che circondano l'esistenza e quasi un senso musicale dell'armonia suggerita dal ritmo universale, compresi quale doveva essere il fondamento primo della mia arte: ispirarsi al vivo velandolo di quel mito che È la comprensione ideologica.» Ed ecco Susanna assumere quella posizione plastica a mezza torsione e, accompagnando il gesto del pettinarsi, prende per avviarsi verso una meta indefinita. Il suo è un mondo in posa, un assoluto razionale di forma ben definita nella luce della coscienza artistica di Mascherini. La purezza e l'essenzialità risorgono nella limpida luce di una coscienza rigorosa, assetata di razionalità che si concentra nella precisione assoluta dell'opera costruttrice di forme e spazi profondi. Sono gli oggetti della visione uno ad uno che creano quei rapporti di vicinanza, contiguità e separazione tra l'autore e la natura stessa, e per rendere evidente il contatto tra il reale ed il rappresentabile, l'artista deve tessere una trama di rapporti che il suo operare artistico infittisce o dirada nella creazione delle immagini: la materia È uno strumento con il quale si possono raffigurare forme, luci e rendere palpabile l'apparenza della realtà visibile.

Il rapporto di Mascherini con la materia è molto più complesso di quanto non appaia a prima vista. In un'intervista del 1968 (Come nasce una scultura) ha avuto modo di esprimersi nei seguenti termini: «Una delle difficoltà maggiori È il sapersi fermare prima che la parte viva dell'opera ritorni materia.» Sembra quasi che l'artista riconosca nella materia grezza una forza espressiva autonoma. Le sculture degli anni sessanta sono infatti caratterizzate dalla presenza, seppur in calco, della materia grezza del legno. La grande statua Cantico dei Cantici del 1962 è l'opera che aggiunge ad un'intensa espressione di tipo figurativo, quella grezza della materia. Le qualità proprie del legno, come le striature e la porosità, nel calco in bronzo vengono accentuate e rese più forti, più dure. La figura dei due amanti si fa aspra, vibrante e tremolante e, assumendo una posizione naturale, pare proiettata verso l'alto, verso l'infinito, verso l'ignoto, fino a farsi fluttuante nell'aria. È un'immagine questa più volte offerta da Mascherini, si pensi ad esempio all'Orchidea del 1966 o al Candelabro del 1967. Entrambe richiamano alla mente due mani unite nella parte inferiore delle palme con le dita allargate e protese verso l'alto, assumendo quasi la forma di una coppa rivolta al cielo in attesa di essere colmata.

Altre opere come l'Edipo del 1965, la Vestale del 1968, Il Martire del 1967, e la Chimera del 1970 sono opere che riprendono la materialità del legno. Sono infatti queste le opere nelle quali la materia ha maggior incidenza nell'espressività dei personaggi di Mascherini. La Catarsi del 1969, nel suo rappresentarsi quasi esclusivamente come materia, semplicemente come scorza–involucro dell'albero, È la scultura che pare interpretare intimamente l'animo dell'artista. Il titolo stesso, volutamente preso da Aristotele, sta senza dubbio ad indicare la liberazione dell'arte, la sublimazione voluttuosa degli oggetti e di tutte le cose che sono amate di per se stesse. Mascherini aveva infatti sostenuto, nel 1964, che: «la materia ha già in sé‚ il dramma che noi cerchiamo di comunicare con l'opera.»

Le ultime sculture, quelle che precedono di un decennio la morte, rasentano quasi l'astrazione pura. L'artista infatti era convinto che la materia avesse in sé una forza espressiva dirompente, bastava saperla cogliere e metterla in evidenza. I rami, gli alberelli, i fiori, indussero Mascherini ad interpretare queste creazioni della natura come manifestazioni mitologiche. Così nella Nascita di Venere del 1972, la dea romana trova la vita non dalle acque, ma dai rami di un albero. In Orfeo ed Euridice del 1972 viene intensamente drammatizzata la morte di Euridice nel giorno delle nozze. Orfeo ritto in piedi osserva la lenta agonia della sposa distesa. Nello stesso tipo di albero e in ramo simile coesistono, come in un'eterna antinomia, i Fiori del Male, del 1972 e La gioia di vivere, sempre del 1972. Sono immagini quasi astratte queste che riportano a una problematica personalissima, a una riflessione sui valori della vita, alla contrapposizione tra vita e morte. La drammaticità delle ultime opere di Mascherini si andava facendo più intensa, proprio mentre l'artista probabilmente avvertiva la sensazione che la vita gli stava sfuggendo dalle mani. La Trasfigurazione di Dafne del 1972 potrebbe diventare una chiara allusione a sentimenti psicologici fortemente personali, che tendono ad identificarsi in quell'inutile fuga di Dafne da Apollo e nella sua trasfigurazione in albero voluta dalla madre Terra. Ma è la capacità creativa e la forza espressiva, indipendentemente dall'esistenza dell'autore, a rendere comunicative le opere e farne rivivere la personalità e a permettere una ricerca di significati nascosti che possono anche andare al di là del raffigurato dall'opera stessa. La realtà di questi rami, di questi fiori, di questi alberi diventa un fatto puramente mentale e per rappresentarlo non c'è più bisogno di attenersi al mondo dell'esperienza visiva, basta indicarla come viene raffigurandosi all'interno della mente, immersa in un fitta trama di relazioni morali, affettive, intellettuali ed inconsce.

La recente retrospettiva rende omaggio ad un artista la cui opera ha attraversato buona parte dell'arte del novecento e che ha saputo così cogliere, con quella vitalità artistica che lo ha sempre contraddistinto, quelli che sono stati i momenti più significativi della scultura italiana e facendo di quest'ultima lo strumento per esternare la propria concezione di vita, il proprio pensiero e la propria personalità.

 

 

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Nell'atrio dell'abbazia di Sesto al Reghena

 

 

 

Molto probabilmente in quella pianura del basso Friuli nessun cavallo Morello avrebbe lasciato le tracce sulla neve e nessun Guglielmo di Baskerville ne avrebbe disegnato, con l'aiuto di una ferrea logica, il percorso del cavallo "nero di pelo, alto cinque piedi" al cellario Remigio che lo andava inseguendo. Neanche, in quell'abbazia benedettina, cui l'imperatore Carlo Magno confermò, nel 781, i privilegi già avuti in donazione dal re longobardo Adelchi, ci deve essere stato un novizio di nome Adso tutto dedito a raccontare di strani avvenimenti di morte; né nessun norciniano avrebbe trovato, nell'abbazia di Santa Maria in Sylvis in Sesto al Reghena, un sicuro rifugio che lo proteggesse dalla terribile vendetta di Bernardo Gui.

L'abbazia, fondata tra il 730 ed il 735, fu per molto tempo il più importante nucleo politico e religioso della destra del Tagliamento, e come centro di potere fu palcoscenico di diversi fatti, anche di sangue, legati alla successione e al potere dell'abbazia stessa, tra i più rilevanti si ricordano i diversi assalti, con relative devastazioni, perpetrati da Ezzelino da Romano (1233, 1245, 1246, 1247). In quegli anni ci fu il tentativo di Gueccello di Prata e di Tolberto da Camino di togliere ogni potere all'abbazia e di trasferire la biblioteca nella non distante Lorenzaga; un tentato omicidio nella persona dell'abate Ermanno della Frattina da parte di tal Alessandro da Cessalto, emissario di Ezzelino da Romano.

E non fu neanche, secondo i modi della politica del '300, esente da sconvolgimenti interni ad opera degli stessi frati. Una rivolta vide coinvolto perfino il dotto e pacifico frate padovano Tommaso de' Savioli, ultimo degli abati residenziali.

Certo, al di là di molte situazioni politiche che la videro accomunata a tante altre abbazie, in questo luogo, così distante dai veri centri di potere, dovevano certamente giungere l'eco e l'atmosfera delle interminabili dispute filosofiche d'epoca e delle grandi questioni teologiche che hanno animato il romanzo di Umberto Eco. È molto probabile che le mura di quest'abbazia abbiano fatto da quinta, come del resto è avvenuto in tanti monasteri benedettini, a lunghe ed interminate discussioni sulla corrispondenza evangelica di un determinato ordine, oppure sulla validità del Capitolo di Perugia, o ancora sull'efficacia della notissima bolla Cum Inter Nonnullos oppure sia stato teatro delle lunghe disquisizioni in difesa delle dichiarazioni di Ludovico il Bavaro: le Sachsenhausen. Grandi dispute queste che hanno coinvolto una miriade di attori, talvolta solo apparentemente minori o addirittura fantasiosi come Guglielmo da Melck, Ubertino, Bernardo Gui o il dotto Jorge.

Ma qualcosa di simile deve essere accaduto, soprattutto dopo il 1441, quando l'abbazia divenne un centro di potere al servizio di una sola famiglia. Papa Eugenio IV, a seguito delle lagnanze dell'abate Tommaso de' Savioli, convertì l'abbazia in commenda al Cardinale Pietro Barbo, il futuro papa Paolo II. Questo papa scatenò una guerra vera e propria contro i frati minori, contro quei frati che, come Ubertino del romanzo Il nome della rosa, difendevano l'ordine francescano e che premevano affinché l'ordine del poverello d'Assisi fosse accettato nei suoi ideali di povertà.

La corsa della famiglia Barbo alla conquista del potere sull'abbazia di Santa Maria in Sylvis sta a dimostrare quanto fosse importante, o quanto interesse risvegliassero i luoghi periferici di potere, come i monasteri o i feudi, nelle famiglie nobili veneziane, pronte, come tutte le più potenti famiglie della penisola, ad impadronirsi dei centri di potere.

E, come tutte le case padronali, anche i monasteri, specialmente quelli benedettini, vennero abbelliti tanto da essere l'espressione di un deciso e comprovato gusto estetico. Non che con l'avvento della famiglia Barbo l'abbazia abbia subito particolari miglioramenti, ma i nuovi interventi pittorici, generalmente su tela e solo parzialmente in affresco, tentarono di dare ulteriore lustro e munificenza alla famiglia dell'abate.

Nella seconda metà del 1400 l'abbazia si può però già considerare in decadenza, tanto che il monastero passò dai benedettini, agli agostiniani, poi ai domenicani, più avanti venne affidata ai francescani, e poi ancora ai vallombrosani. L'arcivescovo di Udine, avendo notato che il convento era abitato solamente da due monaci, fu costretto a sopprimere l'abbazia e a declassarla definitivamente in parrocchia nel 1798. La decadenza dunque non era visibile solamente sotto l'aspetto organizzativo del convento, ma, mancando un congruo numero di persone che si prodigasse nel mantenimento delle opere murarie, anche l'aspetto architettonico andava lentamente trasformandosi così anche le pitture murali che andavano contemporaneamente perdendosi e rovinandosi.

Nel Rinascimento l'abbazia non era più il centro attorno al quale ruotava la vita economica, sociale e giuridica. Portogruaro, San Vito al Tagliamento e infine Pordenone fungevano da centri commerciali, militari e produttivi. Per altro anche l'abbazia benedettina di Summaga (la quale, nel 1714 ebbe per abate commendatario il cardinale Carlo Rezzonico poi papa con il nome di Clemente XIII) stava eclissandosi, fino ad essere, per volere della Serenissima, ceduta al diretto dominio della chiesa.

L'abbazia, come complesso architettonico, mantiene al momento attuale poco della struttura originaria. Il monastero vero e proprio, a causa dei danni provocati dalla discesa degli ungari e dai vari crolli dovuti soprattutto all'incuria dell'uomo, è ora di difficile ricostruzione. Comunque doveva essere l'abbazia un villaggio fortificato circondato da un fossato e da mura perimetrali intercalate da sette torri.

Diverse pitture sono però rimaste a testimoniare l'importanza del monastero. Sulla loggia posta immediatamente a sinistra della porta che immette nell'atrio della basilica vera e propria e nella facciata d'entrata della stessa sono visibili degli affreschi a tema cavalleresco che coprono un periodo piuttosto lungo della storia. Quelli della loggetta risalgono al XI, XII secolo e raffigurano un imperatore accanto a una donna tra una fila di soldati che le recano omaggio, e un'altra, più dietro, sempre raffigurante dei soldati. L'affresco è stato, molto probabilmente, disegnato sopra un altro più vecchio. È infatti visibile in alto l'immagine di un uomo barbuto parzialmente chinato certamente un'allegoria dei compiti spettanti ai monaci. Questa nuova raffigurazione è quasi sicuramente un omaggio all'imperatore, forse rievoca una celebrazione, alla fine del 1100 quando l'Abbazia si liberò da Aquileia per passare sotto il dominio diretto dell'Imperatore e «...non riconosceva altro dominio sopra di sé, se non l'immediata protezione dell'imperatore, e questa con piena libertà ed immunità in temporale, ed in spirituale con la dipendenza solo dalla Santa Sede Apostolica …», come riporta il Liruti. Accanto a questo un'altra scena cavalleresca, nella quale sono parzialmente identificabili alcuni uomini a cavallo. Anche questo appare di debole ed incerta fattura. La composizione infatti è completamente priva di profondità e di prospettiva. Il campo è diviso da una linea orizzontale tendente a separare gli avvenimenti, quasi un susseguirsi di narrazioni. Pregevole appare il gioco chiaroscurale, tale da rendere più intenso e vivo il movimento degli animali.

Altri invece situati alla fine della scalinata, databili attorno al 1300 e di recente ritrovamento, mettono in evidenza una mano pittorica più sicura, una figurazione più ricca di particolari e una composizione decisamente più complessa. Rispetto alle altre figure poste sulla parte esterna della basilica. Quest'affresco è una testimonianza di un'evoluzione artistica da un lato, ma anche andava assumendo un funzione didattica o evocativa della pittura sia per il contenuto religioso sia per quello descrittivo e più ameno come le storie di tornei cavallereschi.

Il frammento di affresco a tema cavalleresco presente al fine della scalinata, raffigurante un duello, rievoca un fatto accaduto in zona, o si riferisce ad un avvenimento particolare. Uno dei due cavalieri si vede spezzare la spada dall'avversario. Singolare rimane il fatto che il pittore abbia tenuto in primo piano la rottura della stessa. La punta dello spadone viene colto proprio nel momento prima di arrivare a terra. Il fatto qui narrato è andato nel tempo perdendosi nella memoria, tanto da non poter essere riassunto. Molto probabilmente questi affreschi trovano ispirazione anche da testi miniati sicuramente presenti allora nella biblioteca dell'Abbazia; come le bellissime miniature riportate nello scriptorium di Bologna. Era anche certamente conosciuto dai monaci il famoso manoscritto De arti venandi cum avibus di Federico II di Svevia databile nel 1248, e nel quale sono elegantemente fusi elementi gotici, con altri arabo–bizantini.

Il ciclo cavalleresco va situato tra i Tre ed il Quattrocento. Temi del genere non sono solamente limitati all'Abbazia di Sesto, ma sono estesi in tutti i centri più importanti, sono infatti ancora visibili affreschi del genere nella cripta di Aquileia, nel palazzo comunale di Venzone, nel palazzo Richieri a Pordenone e nel Battistero di Concordia.

Prima di entrare nell'atrio che immette poi alla basilica immediatamente sopra la porta d'entrata e sul muro perpendicolare a sinistra, si vedono i primi affreschi a carattere religioso. Un San Cristoforo con Gesù bambino posto sulla parte sinistra di un altro più complesso raffigurante una Vergine con il bambino e, accanto sulla destra, Giovanni Battista; sulla sinistra San Pietro. Il San Cristoforo, databile come l'altro nei secoli XIII e XIV, è di buona fattura e mette in luce una certa intensità espressiva proprio in quell'evidente differenza di statura e di corporatura tra il Santo e il Bambino, che pare essere in quella posizione solo come elemento di individuazione.

Accanto al San Cristoforo è posta la composizione con la Vergine, probabilmente seguente e risente di un'evidente influenza gotica, ravvisabile soprattutto nel trono sul quale è posta la Vergine col Bambino. Si nota immediatamente la sproporzione tra la lunghezza della testa dei Santi e la lunghezza del corpo, sembrano posti su trampoli. Anche le mani appaiono essere molto piccole rispetto al resto del corpo. Tale sproporzione si è venuta determinando nel tentativo di formare un giusto rapporto con la Madonna, e creare così una solida composizione d'insieme. La Vergine però anch'essa appare essere di un'incalcolabile altezza se pensiamo alla posizione da seduta che è venuta assumendo, posizione per altro non completamente percepibile proprio per la mancanza di profondità all'altezza delle anche. Sono elementi questi che ci permettono di datare o quantomeno individuare il periodo della loro realizzazione. Vi è in questa composizione prevalentemente romanica un'influenza bizantineggiante, e la si può notare nei tratti del viso di San Pietro a sinistra e Giovanni Battista sulla destra. Non poteva, quest'affresco non essere condizionato dal tipo di pittura che ha imperversato per tutto il duecento sia nei centri artistici più importanti, sia nelle periferie, come da sempre andava sostenendo Roberto Longhi a riguardo delle nuove tendenze pittoriche del tredicesimo secolo.

Di apprezzabile gusto, in relazione alla pittura dell'epoca, le cornici attorno ad entrambi gli affreschi che richiamano la tradizione floreale ad intreccio delle decorazioni a bassorilievo dell'arte longobarda.

Sopra il portone che immette nell'atrio è posta una lunetta a sesto acuto leggermente spostata rispetto all'arco a tutto sesto del portone che ora disegna l'entrata. Detto portone indubbiamente è stato ampliato in data seguente agli affreschi. È molto probabile che la lunetta fosse situata immediatamente sopra ad un'apertura rettangolare di più modeste dimensioni rispetto alla presente, largo quanto la base della lunetta stessa, avvicinando la facciata al gusto gotico, allor di moda. Ciò è riscontrabile se si osserva l'angolo formato a sinistra tra l'architrave e la retta nell'affresco che lo sottolinea e lo stipite sinistro del portone sottostante.

Al continuo adattamento della parte anteriore dell'edificio basilicale concorrono gli affreschi posti sopra il portone d'accesso all'atrio e che raffigurano l'Arcangelo Gabriele posto all'interno della lunetta di cui si è parlato e di San Benedetto che occupa la parte destra della facciata.

È verosimile che le due pitture siano databili in epoca diversa e più probabilmente che l'arcangelo sia stato aggiunto più tardi, dopo l'invasione degli Ungari, con il pretesto di dare forma e dimensione autonoma a quella che sarebbe potuta diventare la facciata vera e propria della basilica e distinguerla quindi con il resto dell'apparato monastico. Che l'Arcangelo sia databile dopo l'XI secolo e quindi attorno al XII, XIII secolo, par essere fuori di dubbio e ciò è comprovato dal fatto che la dicitura angelus fortis gabriel, hostem pellat antiquum,volitet ab alto, saepius templum veniens ad istud visere nostrum tratto dalle laudi dell'Ufficio benedettino in dedica all'arcangelo Gabriele, è scritta con caratteri gotici, inesistenti prima del millecento.

Più complessa e più affascinante appare però una lettura legata alla composizione scenica e alle immagini che vi sono raffigurate. Di colpo viene agli occhi la diversità compositiva dei due disegni, non c'è, infatti, alcuna relazione fra i due soggetti, anzi uno, San Benedetto, è inserito in un più ampio contesto simbolico, mentre l'Arcangelo si mostra in una figura quasi di reliquia. Non potendo perciò sostenere che le due dita di San Benedetto, tenute in segno di benedizione, siano rivolte all'arcangelo, si suppone indirizzate o verso il drago che sta di fronte o addirittura converrebbe ipotizzare una figura ora cancellata posta sotto ad una porta o antro, la cui parte superiore si intravede ancora sopra la lunetta che incornicia l'arcangelo.

È anche certo secondo l'opinione di chi scrive che l'affresco col Santo passasse ben oltre i confini ora visibili e lo dimostrerebbe la mancanza sul lato destro della cornice geometrico–floreale presente in modo vistoso sulla parte destra. L'analogia del tratto compositivo e quello della figura con la madonna col bambino posta nelle vicinanze, autorizza a pensare che San Benedetto, fondatore dell'ordine del monastero, fosse raffigurato all'interno di una cornice la quale veniva delineando il campo d'azione della scena stessa, la cui vera storia non ci è dato conoscere, ma certo andrebbe approfondita la presenza simbolica del drago che qui sembra essere tenuto a guinzaglio. Comunque in questa sede, più che una ricostruzione di un episodio della vita di San Benedetto, andrebbe presa in considerazione l'ipotesi interpretativa di E. H. Gombrich, il quale intravede come elemento di fusione tra la religione cristiana e le religioni nordiche dei barbari proprio l'unione di alcuni simboli pagani con altri cristiani, e vede la presenza di draghi e serpenti o altri animali, propri della tradizione nordica, inseriti tranquillamente all'interno di tutta una figurazione cattolico–cristiana, fornendo così le figure di nuovi significati; una fusione di simboli ai quali difficilmente ora abbiamo la possibilità di darne esatta interpretazione. La cultura cattolica però è spesso propensa alla rappresentazione del drago come simbolo del demonio e quindi ad identificarlo con il peccato, con la tentazione, ed ecco il perché del drago a guinzaglio: la sconfitta della tentazione ad opera della fede impersonata dal Santo.

Appena entrati immediatamente si è posti al centro di una composizione a largo respiro: Un Giudizio Universale. L'affresco va letto nel suo insieme; l'Inferno sulla sinistra entrando, l'Arcangelo Michele e l'angelo posti ai lati del portone d'entrata e il Paradiso sulla facciata destra sono elementi compositivi di una sola opera, appunto un Giudizio Universale. La funzione didattica e ammonitiva dell'opera qui si mostra nella sua massima importanza, proprio per il fatto che la redenzione dai peccati e la salvezza dell'anima sono il primo monito della religione cristiana.

San Michele regge la bilancia, inconfondibile segno di giustizia, con essa soppesa le anime, alcune, le buone vengono accompagnate dall'angelo in Paradiso, mentre le cattive sono raccolte dal diavolo imbroglione che sta sotto il piatto della bilancia nel vano tentativo di manomettere il giudizio dell'arcangelo. Questa robusta figura appare molto vicina alla mano artistica che ha disegnato il Paradiso. L'arcangelo infatti è colto nel suo essere guerriero, nella sua immagine di giustiziere, di protettore del cavaliere medievale votato alla giustizia.

La parte relativa alla facciata infernale e quella del paradiso richiama il giudizio universale di Giotto (o della sua scuola come pare essere più probabile) della Cappella degli Scrovegni di Padova. La mancanza di una grande parete ha costretto il pittore o i pittori a fare una grande opera in tre ben distinte parti, ma che comunque potevano essere fruite nella loro totalità solamente dopo aver assistito alla funzione religiosa: un ulteriore monito ai fedeli a non peccare e a seguire la parola di Dio.

Mentre il Paradiso è contraddistinto da un supremo ordine l'Inferno invece appare governato dal più grande caos, dal disordine. In centro, come nelle ipotesi dantesche, c'è Lucifero con tre teste, incastrato nella terra fino ai fianchi e ritratto mentre ingoia le anime dannate. In altri parti dell'inferno i dannati vengono sottoposti alle più crudeli pene, molto simili a quelle descritte da Dante nel suo inferno. Le anime, dopo aver ascoltato il verdetto di Minosse seduto su una roccia, vengono accompagnate a scontare la pena: chi viene ingoiato da mostri, chi avvolto da serpenti, chi bruciato sulla graticola, chi bollito ecc. Singolare, anche se di difficile individuazione, è la presenza di Celestino V ancora con la mitra dorata in testa e con la croce pettorale posto in un rettangolino sotto lo stesso Lucifero. Purtroppo questo interessante affresco è pervenuto a noi tutto rovinato a causa della salsedine, ma, ancora più plausibile, a causa delle "sassate lanciate da' fanciulli contro le figure del disegnatovi inferno ..." come riporta Antonio Zambaldi nel suo Monumenti storici di Concordia.

L'affrescatura dell'infermo è stata attribuita ad Andrea Bonaiuti altrimenti chiamato Andrea da Firenze, ma pare che tale attribuzione non possa essere comprovata per diverse ragioni. La prima perché sembra che quest'artista, residente nel quartiere di Santa Maria Novella a Firenze, non abbia soggiornato nelle parti del basso Friuli, dall'altro perché l'impostazione figurativa si discosta parecchio da altri suoi lavori, sia per la forza del tratto segnico, sia per l'effetto cromatico. La possibile datazione dell'opera, attorno al primo quattrocento, non concorda con la vita del Bonaiuti, il quale morì dopo l'affrescatura delle Storie del Beato Ranieri nel 1379.

A favore di una possibile attribuzione all'artista fiorentino pare possano concorrere le solide profondità prospettiche di scuola certamente giottesca presenti in ogni singola raffigurazione infernale, e l'impianto contenutistico di tipo dantesco tipico della scuola fiorentina. Ma anche il resto dell'atrio risente dell'influenza della pittura toscana. Il San Michele, Il trionfo della Morte mostrano una composizione scenica che si rifà, senza dubbio, ad alcuni affreschi presenti al Camposanto di Pisa.

Di mano decisamente diversa appare invece il Paradiso, la sua buona conservazione ci permette una lettura più approfondita e ci permette anche di esprimere qualche osservazione in più rispetto agli altri due elementi del Giudizio Universale. In un primo momento la costruzione pittorica corale rimanda ad altri progetti figurativi. Il primo, che viene alla mente e sicuramente molto ben conosciuto dall'autore, è il Paradiso di Giusto de' Menabuoi situato al Battistero del Duomo di Padova. Oltre che all'aspetto puramente tecnico della fattura, ci sono delle notevoli differenze. Il paradiso di Sesto si viene a sviluppare in senso orizzontale e non circolare come quello di Padova, perciò va perdendo la figura centrale dentro la quale viene raffigurato Gesù Cristo, per cui nel Paradiso sestense il ruolo centrale viene assunto dalla Madonna protettrice del convento mentre viene incoronata dal figlio all'interno della Candita Rosa dantesca dove è attorniata da cherubini e serafini festanti. Tutti i personaggi del paradiso, come del resto in quello padovano, sono disposti ordinatamente in cinque file: personaggi dell'antico testamento spesso riconoscibili dal nome scritto accanto; gli apostoli; pontefici, dottori della chiesa e fondatori dei grandi Ordini Religiosi identificabili per gli oggetti che tengono in mano; confessori della fede, martiri; vergini e anacoreti.

La compostezza, la rigidità ed il buon tratto segnico testimoniano le sicure abilità pittoriche dell'artista, che certamente deve essere stato allievo di bottega di un buon pittore o, più probabilmente doveva essere un monaco pittore molto attento a quello che succedeva nelle altre chiese. La dipendenza dall'abbazia di Santa Giustina di Padova fa pensare ad una sicura influenza di quest'ultima città su tutte le attività culturali e religiose dell'abbazia di Sesto.

È stato spesso avanzata l'ipotesi che l'affresco sia attribuibile alla mano di Antonio da Firenze, cosa non improbabile in quanto Caterina Furlan riporta l'attribuzione al pittore "fiorentino" di un altro affresco posto in fondo all'atrio raffigurante sant' Ambrogio e sant'Agostino. Quest'opera, probabilmente commissionata per celebrare nel XV secolo il passaggio dell'abbazia ai monaci agostiniani, rappresenta un fatto molto importante della vita di San Agostino: l'incontro (al quale nel 387 farà seguito la conversione ed il conseguente battesimo del santo) con il vescovo di Milano Ambrogio. Quell'incontro preparò Agostino all'abbandono del manicheismo e lo introdusse ai grandi temi del cattolicesimo. In entrambe le opere vi è registrabile una certa staticità e fissità delle persone, anche il colore riesce pastoso, ricco. Le vesti dei Santi sono ben curate rendendo il portamento più solido e maestoso. I visi vivono di un'espressione intensa grazie anche ad un discreto utilizzo del chiaroscuro, segno questo di buona tecnica pittorica. La posizione della mano di Agostino pare ricalcare quella di un papa raffigurato nel paradiso.

Di Antonio da Firenze, o di qualche allievo della sua bottega, dovrebbe essere la Madonna in Trono con accanto San Pietro e San Giovanni Battista e, sull'angolo in basso a destra il committente inginocchiato con il rosario in mano mentre prega la Madonna. L'opera appare essere del quattrocento sia per rigida impostazione e geometrica collocazione dei personaggi, sia per tecnica pittorica. Di quest'affresco si nota immediatamente la discreta lavorazione delle vesti, dei piedi ed il gioco chiaroscurale del viso di San Pietro (non molto diverso da quello dal gioco di ombre del Vescovo Ambrogio) e la posizione delle gambe di Giovanni Battista. Meno sicuro, quindi poco convincente, il viso di Giovanni e della Madonna, tanto da sembrare opera di mano diversa. Se lo si confronta con l'affresco Madonna con bambino San Sebastiano e San Rocco presente nella parrocchiale di Pramaggiore, attribuito ad Antonio da Firenze, si nota che la composizione figurativa è la stessa. La posizione di San Pietro è uguale a quella di San Sebastiano, mentre quella di San Rocco ricalca quella del Battista. La Madonna seduta in trono è, nell'affresco di Pramaggiore, coperta con lo stemma del committente nella parte inferiore del corpo, quella parte che nell'affresco di Sesto sembra essere più debole. Il Bambino, benedicente con il braccio destro piegato a angolo retto, è spostato sulla destra (appare singolare l'inversione delle pose dei personaggi nelle due pitture...), infine il trono in entrambi, di fredda linea geometrica, è disegnato imitando le fini venature del marmo. La mano pittorica appare essere la stessa, o, nel caso trattasi di due pittori diversi sono accomunati da una concezione pittorica e da un unico tratto segnico. Pare legittimo ipotizzare che le due opere siano provenienti dalla bottega di Antonio da Firenze condotta dall'artista in Udine negli anni che vanno dal 1484 al 1506 e dalla quale uscì nel 1488 anche Pellegrino da San Daniele.

A destra di Ambrogio e Agostino, diviso dall'entrata della basilica è posto un altro affresco che riprende un episodio del vangelo: San Tommaso che controlla la ferita di Gesù risorto. La fattura è molto simile alla Madonna in trono e all'affresco accanto sulla sinistra. Vi è un'incidenza chiaroscurale dei volti e una certa ricercatezza nel drappeggio delle vesti del Gesù e di Tommaso, che rimanda alla pittura giottesca. Tra i due v'è rappresentato, in dimensione diminutiva, un probabile committente posto in piedi con le mani giunte in senso di preghiera rivolto a Gesù in piedi sopra un pavimento geometricamente disegnato secondo le teorie prospettiche esposte da Leon Battista Alberti. Anche la parte di muro con finestra ed il soffitto a cassettoni testimoniano l'appartenenza ad un periodo certamente seguente la prima metà del quattrocento. Le aureole sono appena accennate ed in trasparenza, uguali agli affreschi appena visti. Questo affresco pare essere coevo agli altri due e con molta probabilità della bottega di Antonio da Firenze. Comunque quest'opera sembra in tono minore rispetto alle altre due, poca sembra l'incredulità espressa da Tommaso dopo aver letteralmente infilato "il dito nel posto dei chiodi, e non metto la mano nel suo costato, non crederò", e viene solo accennato un segno di riverenza dopo l'identificazione del risorto e questo in apparente contrasto con l'espressione di sofferenza e che si legge nel volto di Gesù.

Chi avesse visto al Camposanto di Pisa il Trionfo della morte di Buffalmacco si sarebbe immediatamente accorto che in basso a sinistra vi è riprodotta una scena specularmente identica o quasi al Trionfo della morte presente nell'atrio in fondo sulla destra. L'affresco, parzialmente coperto nella parte superiore a causa di una sistemazione delle travi del soffitto per l'innalzamento dello stesso, ha una data certa, il 1316, data rilevata dal manoscritto esistente nel codice cicogna n. 3181 del Museo Corner di Venezia. Quest'affresco spesso lo si trova sotto il titolo Incontro tra tre vivi e tre morti, e spesso viene accomunato ad un affresco di Meo da Siena esistente al Sacro Speco di Subiaco, coevo questo dell'opera di Sesto.

Chi invece avesse visto attentamente San Zeno a Verona avrebbe avuto modo di notare un altro Trionfo della morte opera di Martino da Verona vissuto verso la fine del trecento, morto probabilmente prima del 1413. Le analogie tra i tre dipinti sono moltissime, anche se immediatamente salta all'occhio aspetto ironico dell'affresco pisano, sottolineato dal cavaliere in primo piano che, forse in segno di spregio, si chiude le narici del naso onde evitare di essere colpito dal maleodorante odore del cadavere, in contrasto con l'aspetto più dimesso ed ammonitivo di quelli veneti. In primo luogo vi è un particolare che salta alla mente: tre vivi davanti a tre morti che, dall'altro verso il basso, sono in progressiva decomposizione; uno dei tre vivi ha la testa rivolta all'indietro verso un'altra figura del dipinto (il cavaliere dell'affresco di Sesto che si gira verso una figura inesistente); i tre personaggi vivi sono a cavallo a Pisa, uno a cavallo a Sesto e tutti e tre a piedi in quello di Verona. Vi è però una maggiore analogia tra il dipinto sestense e quello pisano: immediatamente dietro ai personaggi vi è una salita alla base della quale vi sta un abate con un rotolo di pergamena.  Non pare azzardato pensare che tutti gli affreschi riguardanti il trionfo della morte abbiano a che fare con pestilenze o altre epidemie mortali, come il Vasari del resto aveva suggerito per l'attribuzione, risultata poi inesatta, dell'opera pisana all'Orcagna, comunque si tratta di un tema da "memento mori", ispirato all'opera letteraria del domenicano Domenico Cavalca.

Le diverse analogie fra questi dipinti e probabilmente molti altri spersi per la penisola, sono sicuramente segno che gli autori erano a conoscenza dell'opera del Buffalmacco (alla quale fa seguito, secondo anche imprecise indicazioni del Vasari, il ciclo dei Nuovissimi dell'Orcagna in Firenze), la quale pare rifarsi, come composizione corale e figurazione pittorica ad alcuni trattati medievali riguardanti le proporzioni (cfr. il manoscritto LXI della Biblioteca degli Intronati di Siena) o addirittura dai Volgari Eloquentia di Dante Alighieri o seguire le indicazioni strutturali del Loci Deputati. Facendo riferimento a queste indicazioni bibliografiche, non pare dover escludere che il primo trionfo della morte sia quello di Buffalmacco del Camposanto di Pisa.

Diversi sono stati gli aiuti impiegati nell'affrescatura del camposanto ed è certo però che tale opera pisana fosse conosciuta da moltissimi monaci, per cui non c'è da escludere che qualche aiuto di bottega o qualche monaco buon pittore avesse preso ad ispirazione la grande opera pisana per farne un monito sulla brevità della vita, e sul trionfo della morte sui potenti e sui poveri, un tema questo che tanta ispirazione ha dato all'Apostolo Giovanni per la stesura dei libri dell'Apocalisse.

Una visita all'interno della Basilica immette in una realtà diversa, meno eterogenea, ma comunque ricca di particolari e di una bellezza singolare e riservata la cui analisi pittorica richiede diverse riflessioni e più approfondite osservazioni anche religiose.

 

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Nell'abbazia di Sesto al Reghena

 

 

 

La visione offerta dalla basilica, una volta superato il portone interno che immette nella navata centrale, è sicuramente di un impianto ben definito e logicamente organizzato. La struttura architettonica è di tipo romanico a tre navate leggermente piegate a sinistra, a oriens ad imitare la posizione di Cristo assunta nella croce. Le navate laterali sono separate da quella principale da colonne ed altrettanti pilastri rettangolari che danno origine ad archi a tutto sesto. Al centro l'altare (presbitero) posto sopra la cripta, i cui basamenti sono stati portati alla luce durante la ristrutturazione del 1907; in fondo l'abside semicircolare di tipo longobardo.

Le due navate laterali, prive dal 1963 delle quattro cappelle e degli altari barocchi (ceduti ai Padri Carmelitani Scalzi di Trento) terminano con delle scale che portano all'altare maggiore e all'abside. Il pavimento, alla palladiana, si offre quale prolungamento prospettico in armonia con le decorazioni dei pilastri e della parte anteriore esterna della cripta, in particolare con i due accessi delineati nella loro parte superiore da due archi a tutto sesto. Una composizione formale spesso in conformità con le architetture medioevali fortemente caratterizzate dal principio della simmetria e dell'ordine e dalla disposizione razionale degli elementi sia decorativi che strutturali. È una architettura che riflette, nella sua apparente umiltà compositiva, una forte espressione sentimentale.

La chiesa è stata costruita seguendo la struttura della basilica romana (il transetto non ha absidi laterali), i soffitti delle navate sono a travatura scoperta. Un grosso pregio della basilica è l'acustica. E grazie a questa qualità a Sesto ha luogo una rinomata stagione musicale.

Oltre all'aspetto, squisitamente architettonico, la chiesa va famosa anche per la parte pittorico–decorativa. Diverse testimonianze (forse non sempre attendibili) avrebbero dato la paternità degli affreschi a diversi artisti più o meno conosciuti sia nel Friuli che nel resto della penisola, ma comunque tutti operanti tra il trecento e il quattrocento. Il Mons. Pietro Furlanis ricorda tra tutti i seguenti artisti: Antonio da Firenze (del quale si è già parlato nella parte relativa all'atrio), Andrea da Firenze (della cui presenza il Friuli si è già dubitato), Andrea di Bertolotto detto il Bellunello, attivo a San Vito a Tagliamento e autore, oltre che agli affreschi del castello di Spilimbergo, anche della Madonna col Bambino sul portale della vicina parrocchiale di Bagnara, Pomponio Amalteo, l'allievo prediletto del Pordenone che porta termine le opere incompiute del maestro in tutto il Friuli, Martino da Udine, detto Pellegrino da San Daniele autore tra l'altro di una crocifissione in affresco, ora staccato, nella cattedrale di Concordia Sagittaria.

La bellezza degli affreschi (come la Madonna nell'abside, o quella nel transetto, o ancora quella posta sopra il portone d'accesso) indussero alcuni storici all'errore. Le pitture murali furono, in un primo tempo, inavvertitamente attribuite a Giotto. Ciò fu anche confortato dal fatto che dal 1303 al 1305 il maestro toscano, assieme a diversi garzoni di bottega, aveva affrescato la famosa cappella privata della famiglia degli Scrovegni di Padova. Altro indizio fuorviante fu certamente lo stretto legame che intercorreva tra l'Abbazia di Sesto e quella di Santa Giustina a Padova e forse lo stesso rapporto di dipendenza della nostra abbazia rispetto a quella padovana. Dopo una più accurata indagine alcuni storici dell'arte furono propensi ad attribuire le pitture murali alla scuola riminese. Scuola questa che prese origine da Giuliano da Rimini che, assieme a Pietro da Rimini e Vitale da Bologna, comprese la forza innovativa del sommo poeta Giotto, già avvertibile nel ciclo delle Storie di San Francesco presente nella Basilica Superiore ad Assisi.

Alla scuola riminese spetta certamente il recupero di un certo senso volumetrico, e ciò che privilegia questa scuola è l'aggiunta nella composizione dei personaggi e nell'azione narrata, di un certo senso tragico, come una pura libertà di espressione immediata e fortemente sentita dagli autori stessi: un pathos caratterizzato da uno stile più violento e drammatico. Furono questi i sentimenti e le emozioni che qualcuno aveva probabilmente individuato nelle pitture della basilica. Ma un altro motivo avvalorò le tesi di una paternità riminese: la presenza assidua nel Veneto e nel Friuli di almeno tre pittori di questa scuola: Vitale da Bologna, Tommaso da Modena, e Pietro da Rimini. Del primo si ricordano gli affreschi delle Storie di San Niccolò del Duomo di Udine e di Spilimbergo. Di Tommaso da Modena, che ha lavorato a lungo a Treviso, rimangono famosi (recentemente anche per la cronaca, visto che almeno cinque capolavori di questo artista sono stati trafugati) i quaranta ritratti di domenicani illustri presso la Sala Capitolare del convento di San Niccolò. Pietro da Rimini fu invece molto attivo a Padova ed ebbe molto da vedere e da imparare dagli affreschi di Giotto, dato che gli stessi si riflettono nella dilatata possanza delle figure murali della Chiesa degli Eremitani (che è poco distante dalla cappella degli Scrovegni), pervase da una drammatica tensione espressiva.

Di questa attribuzione venne interessato uno dei massimi esperti d'arte del trecento e quattrocento, lo storico Federico Zeri. Egli nel 1958 nell'articolo Una deposizione e confronto ospitato nella rivista il Paragone, negò che gli affreschi dell'abbazia di Sesto al Reghena fossero di Giotto e nello stesso tempo mise in dubbio l'attribuzione delle opere sia alla scuola Riminese, che di quella ancor meno definita, di scuola romagnola. Quest'ultima, meno specifica e chiusa rispetto alla scuola riminese, prevedeva una civiltà figurativa le cui testimonianze si muovono dalla Romagna e dalle Marche fino alle Prealpi venete. È certo, come si è già sostenuto nella prima parte, che vi furono forti influenze artistiche, e - senza relegare quest'ultima ipotesi tra le meno attendibili - certamente molti frati si erano occupati di pittura e molti dei ragazzi di bottega, forse i meno dotati, girovagavano per la penisola in cerca di commesse, anche le meno nobili. Non c'è da stupirsi se molti di questi hanno prestato la loro opera presso i centri minori. Quest'ipotesi, se non la più attendibile, è sicuramente la più utile, in quanto ci pone fuori da molti equivoci e da molte incomprensioni. Non è certo una limitazione né estetica né artista sostenere la presenza di "modelli" cui molte maestranze medioevali hanno fatto riferimento, e in fatto di moda non bisogna certo dimenticare che, come ha sostenuto il Vasari, Giotto, negli ultimi anni della sua vita curava i propri interessi e la propria immagine visto che raggiunse una notorietà non indifferente sia in Italia che in Francia "onde se ne tornò a casa non meno ricco che onorato e famoso" (Le Vite). Par fuor di dubbio che avendo commesse nelle maggiori città della penisola, perfino in Francia nella sede Avignonese dei papi, le sue maestranze fossero numerose e, soprattutto, coscienti della validità dei modelli giotteschi. Perciò, poste le dovute premesse, sembra logico che vi possano trovare analogie iconografiche e tecniche tra le opere della Cappella degli Scrovegni, e quelle che sono osservabili a Sesto al Reghena.

Un'ultima ipotesi che par escludere la presenza di artisti di scuola riminese, è il fatto che la maggior influenza dell'arte di Giotto ci viene dalle opere padovane piuttosto che quelle assisiate che erano il nucleo ispirativo della scuola Riminese.

Certo è che la pittura, a differenza della scultura e dell'architettura, non era mai stata abbandonata, e le tecniche e i contenuti narrati nelle icone, negli affreschi, nelle predelle, nei polittici avevano già assunto uno stile stabile e poco propenso a mutazioni. La venuta di Giotto portò rivolgimenti e, caso particolarmente strano per la pittura medioevale, ci furono innovazioni sostanziali nell'espressione figurativa. Furono cambiamenti a largo raggio anche geografico e tale da giustificare non solo la forza innovativa dello stile giottesco, ma anche la validità del sistema, la sua intensità espressiva, e, per ultimo, la continuazione di strumenti comunicativi figurativi già impostati nel periodo bizantino. Le figure infatti si fanno meno rigide, dei pieni si alternano a vuoti, le scene ricalcano momenti della vita di tutti i giorni. Le figure, sia quelle dei Santi che quelle di Cristo o della Madonna si fanno più comprensibili, meno trascendentali, più vicine agli uomini. Una santità che non è prerogativa di un mondo extramondano, ma vissuta da una volontà terrena nel pieno degli insegnamenti del Vangelo.

Abbandonate queste considerazioni di carattere generale e nello stesso tempo esplicative per quel che riguarda l'impossibilità di dare una paternità certa al complesso degli affreschi, si può passare senz'altro alla lettura ahimé‚ superficiale come compete ad una analisi divulgativa dei contenuti e delle tecniche di alcuni affreschi presenti della cattedrale.

Appena entrati sulla parte superiore del portone d'accesso vi è un frammento di una Madonna. L'affresco certamente rovinato a causa dell'innalzamento dell'architrave del portone d'accesso, è stato datato nella prima metà del 1300 e, in un saggio su La pittura in Italia del '200 e '300 (Electa) Mauro Lucco attribuisce la testa della Madonna alla stessa mano che ha eseguito, nel secondo decennio del 1300 l'abside della Cappella degli Scrovegni ed il paliotto dell'Accademia di Ravenna. Lo storico Lucco vede invece l'abside della basilica e i quadrilobi opera di artista contemporaneo e della stessa cultura dell'autore del frammento della Madonna posta sul portale d'entrata certamente per richiamare la titolazione dell'abbazia: Santa Maria in Silvys. La posizione statica, la mancanza di rotondità, lo sguardo fisso verso l'infinito, l'aureola a raggiera, (particolare che ha sempre caratterizzato gli angeli e i santi di Giotto e del Beato Angelico e dello stesso Pietro Cavallini, quest'ultimo maggiormente legato alla pittura bizantineggiante) fanno pensare subito alla scuola giottesca e nello stesso tempo ci inducono a pensare ad un'opera di qualche allievo che non aveva compreso perfettamente il modo plastico del disegno del maestro.

Immediatamente sulla destra del portone d'accesso vi è un affresco celebrativo delle due figure che hanno fondato il monastero: Efro e alla madre Piltrude. Accanto, nell'anno 1727, vi è stata posta dall'arcivescovo Giusto Fontanini, la lapide commemorativa dei fondatori dell'Abbazia: Erfoni Dinastiae Fori Julii Qui Sub Regula Sancti Benedicti Deo Cum Suis Famulatrus Piltrudi Matri Partenonem In Saltu Circa Aquilejam Sibi Ac Fratibus Antonio Ac Marco Hanc Sexti Abbatiam Alimque Sancti Salvatoris In Agro Ausino Ad Montem Amiatum in Tuscia De suo Condidit.

Seguendo la navata di sinistra si incontra una pittura murale raffigurante una processione di uomini e vergini con lo stendardo di San Sebastiano protettore di tutte le epidemie. La datazione di quest'opera appare incerta ma presumibilmente, essendo il tema relativo ad una processione, si può considerarlo come ex voto in relazione ad alcuni avvenimenti epidemici verificatesi in quei luoghi. L'affresco, come si addice ad una composizione figurale medioevale, ha i personaggi posti simmetricamente. Da un lato vi sono le vergini, dall'altro invece ci sono gli uomini. E' ancora visibile un'intonacatura a forma triangolare. Posto tra le figure maschili e quelle femminile si sa che fino a non tanto tempo fa vi stava collocato il fonte battesimale fatto costruire dal primo dei Grimani che si succedettero al governo dell'abbazia. Il Mons. Pietro Furlanis ricorda che tale fonte era stata costruita secondo i canoni dettati dal Concilio di Trento, per cui è lecito dedurre che fosse stata collocata il quel posto più tardi, probabilmente a coprire qualche altra figura o qualche altra situazione che, in qualche modo giustificasse la presenza dello stendardo di San Sebastiano. Non credo ci sia molta difficoltà a datare approssimativamente tale affresco attorno alla fine del trecento, nonostante, come si è già detto, non sia di mano sicura ed eccellente. Lo stendardo, portato in processione dal gruppo degli uomini, raffigura San Sebastiano, protettore contro le epidemie e in particolare contro la peste. Antonio Zambaldi nella sua opera Gli annali storici ricorda che nel 1347 vi fu un "orrendo tremuoto fu in questi lidi nel giorno della conversione di San Paolo [...] e in quel tremendo tempo ruinarono in Venezia molti edificj pubblici e privati [...] Vi si aggiunse nel seguente anno la peste che ha mietuto tre quinti della popolazione dell'Europa. In Venezia morirono cento mila persone". L'analogia dei fatti porta a dedurre, certamente non senza qualche dubbio, che al posto del visibile triangolo intonacato vi fosse posta un'immagine che giustificasse la disposizione corale (cosa credo poco probabile vista la limitatezza dello spazio) e la direzione verso cui muove la processione. Questo naturalmente fa pensare che in quello spazio vi fosse rappresentato un santo o la Madonna, a cui era rivolto il ringraziamento o la supplica degli abitanti. Appare possibile tale datazione non dalla fattura dell'affresco, ma dall'iconografia. Come I Trionfi della Morte pare presagissero il venire delle epidemie - visto che già prima del 1347 si era individuata un certa ciclicità delle epidemie, calcolata tra i 6 e 12 anni - anche la presenza di San Sebastiano può essere intesa come una sorta di ringraziamento o di invocazione per una specie di prevenzione.

Proseguendo verso l'altare ci si immerge in un ambiente molto particolare e abilmente costruito che divide lo spazio murale in diverse zone. Vi sono infatti affreschi dedicati alla Madonna, altri a San Pietro, altri ancora riprendono avvenimenti della vita di San Benedetto. Da solo e di notevole estensione il famoso Lignum Vitae.

Una lettura limitata ai singoli affreschi sarebbe una divagazione fin troppo dispendiosa e ripetitiva visto che molto probabilmente sono di un unico artista, per cui conviene tentare una lettura per temi, anche perché‚ gli affrescatori che vi hanno lavorato mostrano, senza ombra di dubbio, di aver solida conoscenza dell'arte pittorica.

Una prima serie è dedicata a fatti ed avvenimenti della vita di San Benedetto. Nel quadrilungo sono rimasti solamente due affreschi dei dodici esistenti. Quello di destra mostra in secondo piano una veduta paesaggistica, probabilmente Norcia la città umbra che diede i natali a Benedetto. Ha accanto la sorella Scolastica e assieme accolgono tutti coloro che vogliono entrare nella vita monastica. Nell'affresco posto sul lato destro si vede San Benedetto seduto con il viso circondato da un'abbondante barba che tiene una lezione di ascetica ai suoi seguaci. La scena è collocata in un interno e, in secondo piano, è visibile la ricostruzione prospettica delle volte a crociera introdotte da archi a sesto acuto. E' stata più volte avanzata l'ipotesi che queste opere fossero di scuola senese, ma si nutre un forte dubbio anche perché‚ non esistono testimonianze di presenze di artisti senesi conosciuti. L'impianto figurativo e l'utilizzo di una certa intensità cromatica sono tipici della pittura del trecento, in particolare questi affreschi rimandano a quelle esperienze non meno importati compiute a Firenze dal Maestro Della Santa Cecilia, il quale aveva dato origine alla moda di rappresentare le figure dentro architetture con ampi scorci prospettici. Tale modo di dipingere fu spesso fuorviante, poiché‚ alcune delle sue opere furono prima confuse con opere di Pietro Cavallini e poi - è il caso della Madonna di San Giorgio alla Costa - con opere di Giotto. Comunque pare che il Maestro della Santa Cecilia abbia lavorato con Giotto alla pittura delle vele della chiesa superiore di San Francesco ad Assisi. Questa breve divagazione sta a confermare come sia difficile attribuire un'opera ad un artista quando le fonti scritte sono così poche, e come sia fallace affidarsi esclusivamente ad un'indagine di tipo stilistico-formale.

Un altro affresco, forse più interessante, è quello del funerale di San Benedetto posto sul tiburio in alto immediatamente sopra l'arco a sesto acuto che dà verso la navata centrale. La coralità dei personaggi crea un senso di tristezza e di mestizia. Tutti i presenti alle esequie del Santo sono posti attorno alla bara ancora scoperta e situati all'interno di un ambiente architettonico caratterizzato da una nicchia a tre navate (come quella dell'Abbazia sotto l'altare maggiore), con l'evidente scopo di individuare e di inquadrare i protagonisti nella scena. Sulla sinistra sono visibili delle suore e delle donne, al centro, individuabili dai paramenti sacri, Papi, Vescovi e Cardinali. Sulla destra borghesi e monaci assorti nel dolore con il capo chino. La presenza di figure borghesi fa pensare che l'autore abbia voluto porre la figura del Santo anche al di fuori dell'ambiente religioso. Si presume infatti che quei personaggi possano rappresentare filosofi e poeti di quel tempo. Le figure non sono individuali, ma qualcuno ha creduto di riconoscere nella figura vestita di rosso che sta nel mezzo dei personaggi di destra, il sommo poeta Dante Alighieri. La sua partecipazione non costituirebbe alcun problema se pensassimo ad una sua presenza come ideale giudice. Infatti Dante colloca San Benedetto nel XXXII canto del Paradiso, molto vicino a Dio e, nella scala gerarchica del Paradiso, immediatamente dopo a San Giovanni Battista:

 

e sotto lui così cerner sortiro

Francesco, Benedetto ed Augustino

e altri fin qua giù di giro in giro

 

Qualche dubbio sorge a proposito di quest'identificazione anche perché‚ nel 1300 - '400, quando cioè è databile quest'opera, Dante pur godendo già di una certa fama non poteva essere eretto a giudice di tale importante fatto. Mentre a parziale conferma di una possibile identificazione può essere la presenza del poeta fiorentino a Treviso presso la famiglia dei Da Camino, come lo stesso poeta ebbe a sottolineare nel Convivio (IV-XIV). Il personaggio ha infatti un semiprofilo che spicca rispetto alle altre figure, per cui, anche senza volerlo fortemente, vi si può notare una certa somiglianza con l'illustre fiorentino. Accanto un'altra storia di San Benedetto con a lato il monaco Romano che distoglie dalla contemplazione il maestro.

Del ciclo degli affreschi di San Giovanni vale la pena di citare quello raffigurante il Santo disteso mentre sta scrivendo L'apocalisse, l'affascinante e sempre misterioso libro sulla fine del mondo. Altre storie della vita di Giovanni sono narrate di seguito, ma il loro contenuto iconografico è scarsamente leggibile. Di pregevole impostazione appare invece l'Apoteosi del Santo. Vi sono raffigurati Policarpo e la comunità cristiana di Patmos che assiste alla salita in cielo di Giovanni raccolto tra le braccia di Gesù risorto con ai lati angeli e gli apostoli festanti e sulla sinistra vi è Maria "seconda madre di Giovanni". L'impostazione scenica è molto simile a L'ascensione in cielo della vergine di Giotto, dove al posto di San Giovanni vi sta la Madonna leggermente tenuta per le mani dal Figlio in un'aurea mistico-ascensionale.

Un ciclo di notevole interesse è quello mariano posto nella Cappella dell'Incoronazione (anche cappella longobarda). Vi sono affreschi i cui argomenti sono facilmente leggibili, vi si trova Maria addormentata, Maria Assunta, Maria con i discepoli, la Natività. Ma quello forse di cui conviene parlare è certamente la Madonna in Trono che ha per protagonisti Gesù e Maria pregante mentre riceve la corona dal figlio. La scena è parzialmente chiusa da un sipario tenuto da angeli del paradiso festanti. In primo piano vi sono altri angeli con in mano degli strumenti che cantano "Maria è assunta in cielo …". Quest'affresco è il solo, del ciclo di Maria, a essere ancora ben leggibile; vi si può intravedere la classica composizione del '300. La scena infatti è simmetrica, come vogliono i canoni compositivi medioevali. L'aria che si respira è di spensieratezza e di gioiosità, momenti ben misurati e accordati con la marcata solennità dell'evento.

Cercare l'autore di quest'opera appare operazione ardua, non solo per la mancanza di documenti, ma anche perchè quando furono chiamati Giotto, Tommaso da Modena o Vitale da Bologna nel Veneto, moltissimi dei loro ragazzi di bottega accettarono commissioni in tutto il territorio friulano, facendo conseguentemente uso degli stili dei loro maestri. Il risultato fu che molte opere fra loro simili furono sparpagliate in chiese, case di tutto il Friuli e il Veneto. Padova e Treviso, non va certo dimenticato, erano i centri più importanti nei quali le nuove tendenze espressive del trecento avevano trovato una più che giusta collocazione. A. Rizzi ad esempio ipotizza la presenza in Friuli di Cristoforo da Bologna - arrivato al seguito di Tommaso da Modena - affrescatore autonomo di chiese e di nobili locali.

L'Incoronazione di Maria, per quella tessitura chiaroscurale a pennellate fitte e continue e al tenero pigmento cromatico, è quella che, assieme al Martirio di Pietro e Paolo, si avvicina per qualità agli affreschi della bottega di Giotto o a quelli della scuola riminese. Vi spiccano infatti momenti precisi della pittura del tardo duecento o del trecento. La presenza del Santo, la coralità del pubblico ed infine gli impianti architettonici di contorno alla figura ricostruiscono lo spazio attorno alla scena principale, riprendendo cioè la realtà come essa si sarebbe presentata agli occhi di un semplice osservatore.

La ripetizione invece, quasi stereotipata delle figure e della loro disposizione, la composizione della scenografia, l'inserimento delle figure in strutture architettoniche, o di personaggi in ariosi baldacchini, sono certamente una riproposizione dei canoni ben definiti e collaudati della pittura tardo medioevale. Non è difficile infatti trovare composizioni simili a quelle delle storie di San Pietro (Martirio di Paolo e Pietro, Pietro resuscita la vedova di Joppe, Cristo consegna le chiavi a S. Pietro, Pietro passa le chiavi a S. Lino, Condanna a morte di Pietro con Nerone in trono) nelle figurazioni di Giotto ad Assisi, o, ancor più intense, di quelle della Cappella degli Scrovegni in Padova.

Tra le Storie di San Pietro vale la pena soffermarci sul Martirio del Santi Pietro e Paolo. Quest'opera è quella che possiede una carica comunicativa maggiore. I personaggi, dipinti con una certa cura cromatica, si mostrano stupefatti e nello steso tempo curiosi. Tra loro in prima fila S. Lino, il successore di Pietro. Alcuni di questi guardano verso l'alto, verso il fumo dell'incendio appiccato da Nerone per accusare i cristiani. Davanti una fila di soldati, alcuni intenti a tenere Pietro e a legarlo, altri invece assumono posizioni diverse: chi parlotta, chi invece alza lo sguardo al cielo nel tentativo di vedere qualcosa di trascendentale. Il corpo di Pietro grava verso il basso, abbandonato dalla vita. Due colonne con capitelli corinzi sorreggono un baldacchino con sopra l'imperatore Nerone che assiste, con un fare quasi distaccato, alla terribile cerimonia. La figura dell'imperatore testimonia certamente l'importanza dell'evento e in un certo senso tende a sottolineare il passaggio da un'era, quella pagana, ad un'altra, quella cristiana. In tutto l'affresco di notevole dimensione (copre infatti una superficie di 20 metri quadrati circa) e collocato in una parte importante della basilica, immediatamente a destra dell'altare. In questa interessante composizione vi si legge un'attiva ed intensa partecipazione da parte dell'oscuro autore, il quale era sicuro dell'effetto del contenuto dell'opera sui fedeli, ma anche per l'indiscussa capacità artistica - avvertibile per i motivi figurali simbolici riportati, il che denuncia senza alcun dubbio una solida conoscenza dell'arte e delle tecniche allora più efficaci.

Sul lato destro del presbiterio vi è il grandissimo affresco del Lignun Vitae. Esso rappresenta uno dei momenti più intensi delle pitture della basilica. E' certamente una copia di quello presente alla chiesa di San Francesco a Udine. L'affresco ha avuto diversi rimaneggiamenti - non ultimo un recente restauro che mirava a ricostruire l'aspetto iconico - per cui molte mani sono intervenute a modificare gli elementi compositivi dell'opera, in particolare nella parte bassa, dove vi sono raffigurati i monaci. È certo che alla direzione dell'abbazia si susseguirono diversi ordini e molto probabilmente i monaci preganti sotto l'albero furono, almeno nei segni distintivi dell'ordine, sostituiti o addirittura cambiate le figure stesse. L'opera che è giunta fino a noi conserva l'immagine di S. Bonaventura (riconoscibile dal cappello cardinalizio?) mentre prega con in mano un lungo foglio quasi ad imitare il santi e padri della Chiesa che sono rappresentati nei diversi rami dell'albero.

L'impianto scenico e simbolico ha origine più distanti. Uno dei primi quadri che hanno per tema l'albero della vita, è una tavola risalente ai primi anni del XIII secolo: Allegoria della Vita, opera di Pacino di Buonaguida conservata presso le gallerie dell'Accademia di Firenze. Ma chi ha avuto modo di vedere nella pinacoteca di Ferrara Il sogno della Vergine attribuito a Cristoforo datato attorno al 1350 avrà di certo notato un albero spuntare da un fianco di Maria dormiente. Sulla sommità un nido sul quale un pellicano si strappa la carne per sfamare i piccoli mentre angeli, dall' aspetto di uccelli, stanno posati sull'estremità dei rami. Al centro dell'albero Gesù in croce. Questa tavola, se posta in relazione col grande affresco di Sesto e di Udine, non solo potrebbe avvalorare l'ipotesi di Rizzi relativa alla presenza di Cristoforo in Friuli, ma conferma la validità di un sistema simbolico di comunicazione. Il contenuto iconografico fungeva da supporto alle prediche dei monaci come memento pronto a ricordare ai fedeli il messaggio divino. "Ciò che gl'illetterati non possono intendere con la scrittura, deve essere loro insegnato con la pittura" aveva sancito il sinodo di Arras nel 1025

La bibbia, ma anche nelle iconografie religiose orientali, fa spesso riferimento all'albero come simbolo di un particolare ciclo (albero-vite-uva-vino-sangue) e anche come elemento distintivo tra il bene ed il male. Nella Genesi 2:9 infatti troviamo "l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male" ma troviamo anche più avanti in 3:22 "l'uomo colga anche dall'albero della vita e ne mangi e viva in eterno"

Vari sono stati i riferimenti filosofici all'albero ad esempio San Bonaventura nel libro Lignun Vitae affronta la tematica dell'albero seguendo la teoria tipicamente francescana secondo la quale la Croce di Cristo nasce dalla tomba del primo peccatore Adamo.

Nell'opera sestese l'albero è un melograno, simbolo della fecondità, e come tale riassume, nella sua iconografia, l'espandersi ed il propagarsi dell'insegnamento evangelico. L'albero ha al centro Cristo in croce che redime i peccati dell'umanità e che cioè si strappa la vita per alimentare la fede degli uomini (il pellicano). Ai Lati i padri e dottori della chiesa e infine, ai piedi dell'albero, i quattro fiumi che muovono verso i quattro punti cardinali a simboleggiare le vie della predicazione degli apostoli.

Le figure ai piedi dell'albero sicuramente tributano onore all'ordine dei monaci e ad alcune figure dei santi dello stesso ordine.

Come tutte le chiese all'interno delle quali vi si trovano interessanti impianti scenici e pittorici anche la basilica di Sesto meriterebbe delle letture più approfondite, perchè‚ quello che il tempo fino ad ora ha mantenuto visibile, la parola più rendere comprensibile ad una cultura - in costante evoluzione - i significati più intimi ed intensi della comunicazione religiosa del passato.

 

 

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