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Artisti

 

annibel-cunoldi, Gianni Asdrubalii, Paolo Cotani, Michel Goldberg, Graziano Marini, Carmen Gloria Morales, Marco Paladini, Giulio Paolini-Pino Pinelli, Gianfranco Pardi, Paolo Patelli, Carlo Patrone, Achille Perilli, Massimo Poldelmengo, Sei altrove, Claudio Verna

 

Carmengloria Morales

Galleria Plurima - Udine

 

 

 



Io non voglio dipingere. Io dipingo. Risposta questa di Cermengloria Morales che induce a riflettere sul significato della frase, sul suo contenuto. La distinzione fra l'essere ed il fare qui si manifesta nella sua più ampia accezione. E' però la stessa che ne scaturisce dopo la visone dei dittici dell'artista.
Se quello di sinistra è dipinto, quello di destra è vuoto, se quello di sinistra è il risultato del dipingere quello di destra ne è il voler dipingere. E quest'ultimo non sta certo in attesa, poiché esso è finito. Non fa parte dell'azione del dipingere, ma fa parte del dipinto come registro, come confronto, come contrapposizione tra l'essere e il non essere. E' contemporaneamente affermazione del possibile, come ulteriore definizione del divenire, una partecipazione attiva, anche se antitetica, al corpo della pittura.
La pittura di Morales dunque non è solamente fatta di colore, segno e gesto, ma contiene una parte che non è leggibile se non nel contesto dell'azione artistica, in quell'ambito dove non vi è limitazione al significato del fare, dell'usare gli strumenti specifici della pittura.
Tra le componenti dell'agire la materia ed il segno sono gli elementi linguistici che maggiormente incidono nel progressivo operare dell'artista. Il corpo della pittura viene così a delinearsi come momento di registrazione dell'azione pittorica. La pennellata, che all'inizio appare corposa e satura, va via via asciugandosi fino a farsi lieve traccia e abbandonare così l'azione della copertura cromatica ed entrare in quella più lieve ed eterea della trasparenza. Un ricongiungere ancora una volta due elementi che linguisticamente promuovono un'unione che va a risiedere in quel problematico e creativo momento dialettico - apparentemente senza sintesi - che concettualmente caratterizza l'operare di Morales.
E in questa sintesi tra il pensiero e la realizzazione materialmente operativa, si delineano gli elementi contrapposti, ma comunque complementari, dell'idea che muove ogni operazione artistica. Nei quadri di Carmengloria Morales è leggibile quell'aspetto umano e proprio di una sensibilità che viene - come anche nei recenti tondi - pian piano svuotata per lasciare poi spazio alla tensione premoni-trice di un energico riproporsi.

 


"Per me, un quadro è una somma di distruzioni. Prima faccio un quadro poi lo distruggo. Ma alla fine nulla è andato distrutto."

Quest'affermazione di Pablo Picasso riportata nel catalogo della recente mostra di Carmengloria Morales alla galleria Plurima di Udine, sintetizza in modo preciso l'operare della pittrice cilena. Alcune delle opere esposte sono dei dittici: una tela, di sinistra, dipinta e una, di destra, ancora grezza. E' proprio la loro collocazione che induce, se seguiamo l'ordine logico di lettura europeo - da sinistra a destra - a pensare ad un'operazione prima di costruzione e poi di distruzione dell'opera stessa. La chiave di lettura che dunque ci offre l'opera della Morales, ci porta a pensare che esiste una tensione tra il finito e l'indefinito, tra il pieno ed il vuoto, tra il dipinto ed il non-dipinto, tra l'atto e la potenza. La tela grezza non è dunque pittura, ma lo può diventare in quanto non si pone come alternativa al quadro finito, ma è dentro al procedere della pittura stessa, e tende perciò a rappresentare concettualmente lo svuotamento dell'energia del dipingere, per riproporsi poi alla fine come nuova pittura in potenza. La lettura che viene proposta al fruitore è in sintesi una lettura dinamica, sempre pronta a proporsi e riproporsi nel ciclo continuo ed ininterrotto del dipingere.
La mostra evidenza anche un'altra presenza concettuale molto importante della pittura della Morales. Sono infatti esposte delle opere di forma circolare. E' dunque questa recente utilizzazione del cerchio che offre una nuova, ma con questo non diversa, chiave di lettura.
Il cerchio è una figura geometrica che non ha né inizio, né fine; è una forma che racchiude all'interno di sé il vuoto ed il pieno, il definito e l'indefinito: è un procedere all'infinito in uno spazio non-euclideo, che riconduce in fondo al punto di partenza. E' un proporsi che mai trova una definizione. E' dunque proprio questa circolarità, questo ritornare continuamente ed incessantemente al punto di partenza, che fa delle opere della Morales un interrotto operare in grado di riprendere, nella forma, l'irrequieto procedere delle vigorose pennellate che, prepotente mente, percorrono la tela. Si realizza perciò l'esigenza di rendere tangibili e percettibili il gesto, il segno ed il colore che si vanno così addensando all'interno dello spazio circoscritto del cerchio stesso.
E' infatti la sua pittura energica e continua, sempre in movimento, fluttuante, come intermittenze ottiche, tra geometrie irregolari pronte a fornire una costruzione spaziale ritmica tale da indurre lo sguardo a farsi avvolgere all'interno della struttura circolare dell'opera stessa.
Le intense pennellate vanno elegantemente esaurendosi con l'esaurirsi del colore e lasciano così sulla superficie segni cromatici che, intrecciandosi come la trama e l'ordito, definiscono lo spazio in cui l'immaginazione vaga tra la visione e la fantasia. E' dunque la materia a lasciare una traccia definita su di una superficie multistratificata di segni e colori che ancora appartengono al ciclo dorato del sole, ma è anche la stessa dinamicità del gesto che impone una medesima dinamicità di lettura.

 

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Gianni Asdrubali

Galleria Plurima - Udine

 

 

 

 



Dopo Fontana la pittura è andata man mano privilegiando lo spazio, ed è lo stesso spazio ad impegnare ed interessare la pittura di Gianni Asdrubali, certamente in un modo e con strumenti alquanto diversi. Non è più un gesto positivo che segna il superamento materiale del limite proposto dalla tela di un quadro, quanto la presenza dinamica di un segno che induce ad una personale interpretazione della superficie, nell'estenuante ricerca di un'armonia spaziale ricca di luce e di leggerezza gestuale.
Il librarsi sulla tela del segno di Asdrubali porta in un primo momento ad una lettura che va sottolineando e privilegiando un'immediata soggettività, in un secondo invece, in quell'intrecciarsi armonico di movimenti anche cromatici, vi si può intravedere un'attenta riflessione sulla funzione dello spazio.
Questo segno, ultimamente fattosi più circolare e più discontinuo, segna una dinamica distinta da un preciso atto di impulso, veloce, ma non privo di una certa attenzione che si propone nel momento in cui viene inserito posteriormente un ulteriore intervento cromatico, quasi un corollario o un completamento di un percorso sulla superficie inequivocabilmente bidimensionale. Non si tratta però né di un ripensamento, né di una correzione, ma di una traccia fluida ma certamente più mediata, come a sottolineare e consolidare la forza ritmica del gesto.
Ma d'altro canto il procedere di Asdrubali lascia un ampio spazio libero, non toccato dalla pittura. In questo operare in spazi diversi o limitati ad una parte, l'artista va innestando una dicotomia - per altro mai risolta - tra il pieno ed il vuoto, tra il finito e l'infinito, tra lo spazio specifico del quadro e quello che sta oltre l'apparente limite della superficie. Il movimento quindi si sperde e, nello stesso tempo, muove verso un autoannullamento, come in un profondo vortice quasi di instabilità, lasciando così irrisolto ogni definitivo tentativo di lettura.

 

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Remo Bianco

Studio Tommaseo - Trieste

Studio Delise -Portogruaro
 



Lo Studio Delise e lo Studio Tommaseo, in collaborazione con l'Associazione Culturale l'Officina, l'Istituto per la Documentazione delle Arti di Trieste e l'Amministrazione comunale di Portogruaro, hanno organizzato una interessante retrospettiva di Remo Bianco. Sono infatti esposti, nelle diverse sedi, un congruo numero di opere, un cinquantina circa, comunque sufficienti ad illustrare e anche de finire chiaramente il per corso creativo dell'artista milanese.
Remo Bianco, un eclettico sperimentatore, sempre pronto a ripensare e riprodurre sé stesso, capace di polemizzare come di riflettere, pro penso alla provocazione ma anche di sposto ad assumere atteggiamenti ironici, è stato uno dei continuatori di quell'arte milanese che ha trovato origine dalle proposte di Fontana, e le opere del ciclo 3D sono certamente una delle prime appendici del movimento spazia lista.
Ma, oltre alle riflessioni sullo spazialismo, vi si trovano le provocazioni concettuali, tipiche degli anni settanta. Egli propone il superamento dell'idea di artista-artigiano, che limita il suo operare all'uso degli strumenti propri della pittura. Legge re attentamente le sue opere vuol dire perciò uscire da una logica temporale, vuol dire cioè negare un percorso creativo strettamente legato al rapporto temporale. Egli infatti, fin dalle prime opere, propone un'idea di pittura diversa, indefinita, forse non sempre originale, ma che esce dai canoni comuni, quasi stereotipati, per un'idea di arte complessa, ricca di particolarità che lentamente si definiscono come risultato di una somma di tanti componenti che vanno via via unendosi e combinandosi tra loro. Ma la con seguente sintesi è priva di ogni asso luta certezza, in quanto è punto di partenza e di riflessione per un nuovo procedere e presupposto per rivedere una vecchia idea. Possiamo di conseguenza vedere contemporanea mente un Bianco che ricalca le idee dadaiste, altre volte lo vediamo teorizzare l'arte improntale (Dichiaro che le mie impronte sono una documentazione universale che catalogherà tutte le cose venute a contatto con me..). Altre volte ripensa se stesso - i tableaux dorès infatti lo accompagnano per de cenni - altre volte, provocatoria mente, lo si vede in veste di ideatore delle sculture calde, altre ancora va analizzando le esperienze americane - Pollock - attraverso una razionale scomposizione/ricomposizione nei collages, mentre ancora più tardi lo si vede giocare con l'arte elementare (1978).
Viene dunque proposto, in questo ciclo di mostre, un arti sta in co stante disagio con i tempi attuali, ma tendente al superamento del suo status attraverso il gioco. C'é chi ve de predominare la metafora del gioco delle carte, nella mescolabilità (collages), nel mistero e nella collocazione sulla superficie (i tableaux dorés), e nella loro sistemazione nello spazio (le pagode).
A coronamento della mostra, tre artisti - Alessandro Gamba, Lorenzo Gatti e Pope - rendono, in forma del tutto personale, omaggio all'artista esponendo tre opere che richiamano alla mente alcuni lavori certamente significativi di Remo Bianco e del suo impegno nella sfrenata ricerca dell'identità dell'arte in un trentennio spesso confuso ma comunque vivo.

 

 

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Tommaso Cascella


Galleria Teardo - Pordenone



Una sequenza, quella proposta da Tommaso Cascella, lunga quanto un anno, poiché ogni opera è un giorno dell'anno. Una sequenza di opere di piccolo formato e di dimensione contenuta, caratterizza un lavoro, che per come è stato presentato, si mostra particolare ed nello stesso tempo impegnativo. L'aspetto esteriore, l'insieme del lavoro, immediatamente pone a confronto la grande composizione nella sua integrità con la singolarità dei piccoli lavori, che comunque rappresentano un'unità creativa indipendente, in quanto la loro appartenenza ad un insieme più grande più complesso, si mostra come il risultato di un progetto astratto e più generale. E' dunque un'opera complessa che non vuole solamente rincorre un disegno compositivo generale, ma che persegue anche un'identità, mettendo in luce le particolarità dei suoi singoli componenti espressivi e linguistici. Nella veduta dell'insieme la composizione offre allo spettatore la complessità cromatica che, nel corso di un anno, caratterizza il passaggio da una stagione all'altra.
Il predominio dei rossi, dei blu, degli ocra è un tentativo, sempre legittimo per una artista, di cogliere, oltre la mutevolezza della luce, anche il rapporto della luce stessa con gli elementi ricchi di lucentezza o, contrariamente, di opacità. Questo confronto-dialogo va piano piano a caratterizzare l'aspetto esteriore dell'opera tutta.
All'interno però troviamo il Cascella che conosciamo, un artista mosso dalla volontà, sempre più intensa e più viva, di rilevare l'inesauribile rapporto tra la materialità e il colore. In ogni singola opera è ben evidenziata la ricerca di far convivere, come del resto ben amalgamata appare nella realtà, la convivenza di simboli, di segni, di immagini e della materia. E in questa singolarità possiamo vedere l'impegno continuo di Cascella pittore, di artista in grado di raccogliere la materia nella sua unicità in quanto corpo fisico, e di saperla inserire in un contesto estetico, a volte anche complesso, che vede nell'azione, nell'intensità di un segno o ancora nella purezza e densità di un particolare colore, il punto focale di una ricerca tutta volta alla definizione di un processo creativo capace di sottolineare, anche astutamente, il dialogo dialettico che segna, con forza ma anche con naturalezza, il gioco compositivo dell'artista romano.

 

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Stefano Cattaneo

galleria Plurima - Udine



Dopo la recente apparizione presso la galleria Studio la Città,  approda alla galleria Plurima di Udine. Le ultime opere si mostrano particolarmente interessanti e, per certi versi, continuative di una tradizione artistica che trova nel recente passato una sistemazione estetica.
Sarebbe certamente troppo semplice trovare riferimenti all'arte povera o, fatti i dovuti distinguo, alle esperienze dadaiste. Cattaneo lavora certamente con materiali poveri, con oggetti che contengono di per sé una materialità autonoma, già pronta ad offrirsi con un significato proprio. L'abilità dell'artista non sta solamente nell'assemblarli, quanto di creare attorno a questi una problematica più complessa, comunque capace di uscire da una semplice definizione o interpretazione legata ai materiali. Non credo improbabile né inesatta una lettura che prenda in considerazione alcuni degli aspetti più specifici dell'arte astratta; vi è infatti un consapevole sconfinamento verso un gioco artistico che impressiona lo spettatore, fino a renderlo partecipe allo spessore dell'opera. In quell'apparente nascondiglio che sta dietro al plexiglass, volutamente oscurati da una pacata velatura, trovano posto anche le cose più strane. E talmente strane da non essere una semplice significanza delle cose, quanto una metafora delle cose stesse. Dietro ad un sipario, rigido e poco propenso a mostrare ciò che sta dietro, ecco affiorare ciò che della conoscenza è presente in chi si sofferma a cercare il perché delle cose.
Cattaneo crea così un sistema di relazioni tra gli oggetti e entra nel mondo delle cose con l'atto che spetta al pittore: la pittura appunto. L'azione artistica di Cattaneo si muove verso una diversa definizione dell'apparire, senza con questo ridefinire l'essenza stessa delle cose. Ecco come l' oggetto, nella filosofia del suo esistere all'interno di un ordine, si mostra quale disordine, poiché l'esistere dell'opera vive nell'impossibilità di una definizione autonoma, ma confusa in quel mondo creativo che è l'arte.

 

 

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Vincenzo Cecchini

Galleria Sumithra - Ravenna
Galleria Grigoletti - Pordenone
Studio Delise - Portogruaro



Nella pittura di  l'elemento soggettivo si mostra in modo decisamente intenso, e questo perché l'artista interpreta il fare arte come un momento ludico, piacevole, come puro prodotto della fantasia o del sogno. Un'azione intensa, passionale come specchio della sua personalità d'artista, che sente la necessità di essere esternata attraverso delle azioni ripetitive, fatte di atteggiamenti abituali, come definire una quotidianità vissuta con i movimenti e i gesti che si vivono tutti i giorni
Ma quello che più specificatamente riguarda il campo dell'arte e le sue esperienze d’artista, è certamente un giudizio che si può formulare su di un importante momento dell'azione pittorica: la riflessione sui materiali e sui componenti della pittura. Il colore è spesso chiaro, etereo, dall'ampia dimensione, come a sottolineare le molteplici potenzialità del colore stesso. Non esiste un quadro uguale ad un altro, poiché tutti sono segnati da una relativa temporalità, leggibile nel percorso della mano, mentre la durata dell’azione definisce, la compattezza, lo spessore e la consistenza. Al colore Cecchini dedica tutta l'energia propria della sua pittura, va gradualmente alla scoperta della luminosità, dell'ampiezza, della corposità, aspetti questi che si definiscono sulla superficie e sullo spazio attorno, recuperando così, in un unico momento pittorico, tutti i riferimenti ai significati semantici contenuti nel colore, e nella materia. Ecco perché "la mia fisicità e la fisicità del materiale devono proprio conoscersi. Io devo conoscere la materia e lei deve conoscere me. Io non faccio della pittura se mi sento limitato o se il materiale violenta me". Le caratteristiche proprie della materia, come la consistenza, la permeabilità, la luminosità, la resistenza, concorrono alla formazione del quadro, come del resto le apparenti forme.
Non c’è però in Cecchini una pittura che va verso la definizione delle forme - operazioni queste compiute nel passato nel ciclo delle plastiche e delle assonometrie - piuttosto vi si può intravedere uno stretto rapporto tra il colore e la pastosità, o plasticità della materia. Gli interventi creano spessori e trasparenze a volte causali, altri dovuti alla celerità del movimento pittorico, comunque segni sulla superficie che si lasciano leggere, dallo spettatore, nel modo più personale e più introspettivo possibile, poiché se di significanza semantica si può parlare questa vive indipendentemente da ogni altro elemento con quale il colore va a contatto. Ogni opera di Cecchini appare essere un elemento solitario capace di proporsi autonomamente senza ulteriori componenti che tendono a limitare la portata emotiva e coinvolgente del colore.


 

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annibel-cunoldi

Prigioni del castello - Gorizia



Gorizia, via Don bosco, un colonnato messo in opera dall'architetto Piero Cunoldi. Una doppia fila di colonne doriche, poste su piccolo muretto, che mirano all'infinito prospettico.
Gorizia, Prigioni del Castello, Annibel-Cunoldi ripensa le idee del nonno architetto. L'indagine estetica ripropone, spesso con forme e modi originali, un'operazione di ricerca propria delle sue precedenti esperienze pittoriche. Non dunque un quadro bidimensionale, ma la materia, la pietra. La stessa solidità che viene offerta dalle recenti opere, raccoglie la forza espressiva e significativa di un materiale, la pietra del Carso, esaltandone le caratteristiche di solidità, durezza, freddezza e duttilità. L'intervento va dunque oltre ad ogni aspettativa, poiché la presenza dell'immagine, del segno che contraddistingue l'attività pittorica della Cunoldi, qui si mescola alla materia, altre volte si posa su di essa, raccogliendo quell'aspetto, anche limitativo se vogliamo, della superficie, limitata al semplice aspetto bidimensionale. Altre volte la pittura, come nel caso del magnete l'oggetto tutto, nella sua totale tridimensionalità, viene avvolto dall'azione pittorica, fino a raccogliere quell'aspetto fortemente significativo e evocativo dell'azione di Pietro Cunoldi. Il segno, al sommo delle colonne, è la pittura. E' cioè quel segno che personalizza l'opera, la rende particolare, riflettendo ulteriormente l'indagine sulle linee e sulle superfici.
Come nelle stratificazioni, dove la materialità si riduce a semplice supporto di quel processo dialetticao proposto dal rosso e dal nero; anche nello stato di durata la colorazione appare accidentale, poiché la forma, sia essa nel singolo elemento che nella composizione degli stessi, è l'elemento determinante e maggiormente significativo. La stratificazione qui è composita, non il colore, ma la materia nelle sue forme più elementari quadrato, cerchio o triangolo) si pongono una sopra l'altra fino ad assumere una dimensione autonoma, per poi ricomporsi in altre ancora. L'effetto certamente non richiama certo alla mente l'opera di un architetto, è piuttosto una indagine che in Annibel-Cunoldi si ripete, si moltiplica fino ad offrire un gioco di linee di falsa profondità, di apparente spessore, come nell'immaginario di un colonnato che si spinge nella profondità dello spazio con ombre e con luce, con quei chiaroscuri che ricordano la variazione tonale del colore e della luce, ma con quel gioco proprio dei segni di tensione e di calore come quello del zeitfeuer.
Ci appare semplice completa ma nel contempo si propone come riflessione sulla superficie, in quel gioco dialettico tra il luce e geometria. L'oggetto artistico assume così una forma composita, in essa si riconoscono le figure geometriche semplici come i triangoli, che inducono all'esplorazione della luminosità.

 

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Giuliano Dal Molin

BARBIERATO Arte contemporanea - Asiago

 

l'immagine vive solo nella propria cornice.
Marlis Gruterich
 

Qualsiasi artista che faccia propri gli strumenti espressivi dell'arte astratta tradizionale, muove verso l'interpretazione degli elementi linguistici specifici di quel modo di fare arte. Viene così egli operando delle variazioni nella struttura linguistica stessa, dove il fare arte, spesso, non muove da considerazioni dipendenti da un aspetto di tipo puramente contenutistico in costante riferimento ad una realtà esistente al fuori dell'opera stessa. L'artista cioè produce un'opera che, pur essendo significativa - perché mossa internamente da un progetto precedentemente determinato -, è sostenuta nella sua realizzazione da un'analisi di tipo linguistico-espressivo. Un processo produttivo che tiene conto sia della realizzazione dell'opera in senso strettamente operativo, sia del momento della percezione, che è comunque controllato, se non diretto dall'artista stesso.
In questo contesto dunque muove l'attività artistica di Giuseppe Dal Bianco e di Giuliano Dal Molin, i quali utilizzano in modo decisamente autonomo e non senza una certa insistenza analitica, gli elementi linguistici componenti la sintassi dell'arte astratta.
I quadri di Giuseppe Dal Bianco nascono a due colori e non sarebbero concepibili in diverse tonalità cromatiche, poiché il momento determinante del procedere artistico è la definizione assoluta della superficie. Il colore, steso con una razionalità e una freddezza di difficile descrizione, si definisce solo in un rapporto dialettico con uno spazio bidimensionale, quasi ridotto a "tabula rasa".
Non si tratta quindi solo di un'operazione artistica alla maniera minimalista, perché la ricerca della forza comunicativa ed espressiva della superficie trova giustificazione in un'attenta lettura che deve percorrere liberamente la tela per scovare i momenti più intensi della ricerca e dell'analisi pittorica. La preziosità esecutiva, l'ordine compositivo, la ricercatezza di uno spazio che solo in apparenza sembra essere assolutamente ed inconfutabilmente bidimensionale, è il risultato del lavoro di Dal Bianco.
L'apparente rottura prospettica velatamente mostrata dai due campi pittorici sovrapposti, crea uno spazio fantastico, come una negazione di una univoca definizione di superficie. E' uno spazio dunque che muta in continuazione, talvolta l'immaginaria profondità viene offerta con delle linee verticali interrotte orizzontalmente, altre volte ancora è la luce a proiettarsi verso lo spettatore con lo spessore del colore e la vibrazione del corpo pittorico che riproduce una sensazione di fredda razionalità, capace di rimandare alla riflessione sulla significanza, sull'emotività propria dell'irrazionale e dello spirituale. E' un fine gioco nei confini tra luce e materia, dove il colore, così etereo, così fantastico, così poco naturale, diventa uno degli esempi più intensi di astrazione pittorica.
Le sculture di Giuliano Dal Molin muovono da una ricerca su una forma ideale, per cui non è tanto il rapporto razionale insito nella progettazione a condizionare la realizzazione delle sculture, quanto la materializzazione di una forma interiore, quasi immaginaria, ma capace di muoversi contemporaneamente nello spazio o sulla superficie fino all'esaurimento di una sua possibile collocazione sequenziale quando viene proposta su una piatta superficie. Questi momenti creativi, fortemente spirituali, sono il modello di una condizione di "possibilità", e nello stesso tempo di indagine sul mondo delle idee e dell'immaginario. Ecco dunque che le sculture di Dal Molin trovano espressione nell'offrirrsi liberamente allo spettatore, come risultato di una mobilità compositiva.
Una forma dunque che, oltre ad estendersi razionalmente nello spazio, offre se stessa alla molteplice interpretazione di sé perché, in quanto idea progressiva e non definita, si fa possibile. Ecco allora il triangolo, ora convesso, ora concavo, che si dilata e si ripropone in modo sequenziale nello spazio, con dimensioni diverse, ora piatte, ora tridimensionali, fino alla grande forma scultorea.
La dicotomia che immediatamente si legge nelle opere di Dal Molin nasce da un'interpretazione dello spazio ora chiuso ora aperto. E se la libertà della forma si realizza a tutto tondo nello spazio, la sua limitazione è qui ottenuta con la costruzione di una griglia che diventa parte integrante della definizione della superficie, creando così uno stato di tensione pronto a librarsi nello spazio assoluto.
E le opere di Dal Molin portano con sé il gusto della pittura, di una pittura fatta di materia, la graffite, che, con sottili velature, ricopre il piano fino a farlo diventare freddo, rigido quasi a ribadire la presenza indelebile di un limite tra la progettazione razionale e la sua espressione più intima ed intimistica, comunque tale da rendersi autonoma all'atto percettivo.

 

 

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Paolo Cotani

 

Galleria Plurima - Udine

 

 

E’ un’atmosfera, quella che immediatamente si prova davanti un quadro di Paolo Cotani, che è fatta di rarefatte emozioni, di sensazioni e di lievi percezioni che vibrano nell’aria e che, nel loro mostrarsi, inducono lo spettatore a seguire un tracciato di lettura che porta alla ricerca di un primo elemento che caratterizza le sue opere: il colore. Non a caso i recenti lavori vanno sotto il titolo del Peso del Colore, un colore, a volte artificiale a volte artificioso, che appare essere lo strumento capace di interpretare l’esperienza, spesso riservata e momentanea, del diretto contatto con la realtà Per Cotani la realtà è il quotidiano consumo della sua città, Roma, della quale sa cogliere tutte le atmosfere che solamente il colore, nelle sue tenui e delicate sfumature, è in grado di registrare. La sua astrazione perciò limitata al puro significato della parola, cioè alla separazione di un elemento, appunto il colore, dalla complessità della realtà, che nelle superfici bidimensionali sembra essere assorbita attraverso gli elementi che la compongono, immergendoli in aree particolari dell’alchimia dei suoi enigmatici propositi.

La pittura di Cotani non prescinde però dalle esperienze concettuali, perciò l’operazione di velare il quadro, diventa quasi un nascondere una pittura che, nonostante il nuovo intervento, continua a trasparire a tratti, e a mostrarsi nella sua delicatezza e nella sua intensità espressiva. L’uso del rullo per affrontare la complessa operazione delle velature diventa una rinuncia del pennello come storico strumento di mediazione tra l’artista e l’opera, interpretando benissimo la razionalità gestuale – senza essere per questo un gesto informale — e 1 ‘omogeneità del colore stesso, in quanto le tensioni cromatico – sensitive, che stanno nella logica contrapposizione della copertura di superficie e i colori allo stato puro che vi affiorano, sono perfettamente colte e sottolineate dalla forza impressa allo strumento stesso dall'artista.

Un altro elemento determinante della pittura di Cortani viene ad identificarsi nella possibilità espressiva della superficie, sulla quale ben percepibile un ordine mentale che presiede all'organizzazione strutturale dell'insieme e le grandi superfici frontalmente erette contro lo spettatore sono rilette come un momento di. azzeramento di un tipo di linguaggio – azzeramento a suo tempo progettato da Burri – per usarne uno nuovo fondato sulla verticalità del segno posato su una superficie che si dà come supporto e come tale diventa un elemento significante del sistema della pittura (come ha insegnato Fontana) e più in generale dell'arte.

La sua pittura è dunque un percorrere una strada che segue la via della ricerca dell'armonia del colore, scrollandosi contemporaneamente di dosso tutti quegli interventi che possono essere confusi con operazioni di puro abbellimento. E’ una pittura tendente a stabilire precisi equilibri tra il colore, lo spazio e la superficie, come elementi pi vicini ad ogni intima operazione di interpretazione del proprio essere artista.

 

 

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Peter Krawagna

galleria Plurima - Udine
 

 


Peter Krawagna, uno dei più significativi ed interessanti artisti informali austriaci, ben poco esprime, nelle sue opere, della più conosciuta tradizione austriaca, e ciò forse è la più appariscente qualità di un artista giramondo come Krawagna. Egli infatti produce le sue opere in zone ben distinte della terra, dalla nebbiosa e grigia Londra, al sole e alla luce totale del deserto del Sahara, dalla verde e riflessiva Carinzia alla creativa ed internazionale Parigi.
La vecchia caratteristica dei pittori di paesaggio inglesi, di quei ricercatori della luce, del colore, delle intense sensazioni segniche, rivive in quest'uomo che trova nella natura, nell'ambiente un'ispirazione che, nel suo realizzassi, si manifesta priva di ogni progettazione, di ogni riferimento ad un disegno costruttivo definito. La gestualità, il colore, la composizione (preferibilmente in piccolo formato perché è quello che riesce meglio a registrare la velocità con la quale percorre in tempi molto brevi e dinamicamente veloci la superficie) sono in sintesi l’appropriazione immediata delle caratteristiche tonali della luce. Un tipo di pittura che fa del segno, del gesto e del colore l'espressione più intensa di una forza interiore, di un intimo umore e di una rinnovata vitalità individuale.
Una pittura dunque parzialmente imprevedibile in un imprevisto contatto con le sensazioni naturalistiche ispirata da molteplici frequentazioni geografiche. Questi presupposti artistici fanno dunque di Krawagna un artista tradizionale, perché il suo essere pittore appare ancorato ad un certo ordine con determinate caratteristiche, che vanno dal modo di utilizzare certi strumenti, come la carta giapponese, i fondi delle tele, la matericità, le dimensioni del pennello, fino all'interpretazione strettamente soggettiva del colore e della luce.
Se la caratteristica che contraddistingue l'artista austriaco è il diverso rapporto con gli elementi naturali (luce e colore), la forza espressiva invece riflette l’impatto con la vita delle popolazioni indigene. Il soggetto della sua pittura - che forse sarebbe bene definire l’oggettivazione delle sensazioni - non viene interpretato una sola volta, ma in divenire, per registrare la vastità dell’evoluzione degli elementi ispiratori della pittura astratta.
 

 

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Teodosio Magnoni

Galleria Plurima - Udine


 

"Triangolo ascoso" è il titolo di un'opera di Teodosio Magnoni, e quel dantesco ascoso induce ad una lettura di ricerca, di analisi. Quasi un'operazione che porta all'identificazione di una forma nascosta, ascosa appunto.
Le sculture di Magnoni promettono dunque una lettura più complessa, non solo perché sono date sia tridimensionalmente, che in modo bidimensionale sulla parete, ma perché i problemi che caratterizzano l'operare dell'artista romano, tendono verso possibili soluzioni, seguendo modi realizzativi apparentemente diversi. Alla forma spetta essenzialmente il ruolo primario in quanto essa é il prodotto di un'idea che, come tale, non può non essere costantemente in evoluzione. D'altra parte pero la stessa modificazione non può prescindere dalla materia, dall'elemento che oggettivamente la costituisce.
Non è quindi un caso che Magnoni adoperi materiali freddi come l'alluminio e l'acciaio e ciò non solo per delimitare un ideale confine tra luogo artistico e luogo percettivo, ma soprattutto per lasciare la forma libera di avere un contatto totale con lo spazio. E nell'illusorio ordine compositivo vi si intravede la necessità di un azzeramento linguistico, dal quale poi muovere verso un'indagine di tipo percettivo. L'illusorietà diventa il filo conduttore dell'operare di Magnoni, poiché il sistema costruttivo si armonizza nella simbiosi fra la materia e la forma, tra materialità ed idealità, fra oggetto e la sensazione dell'oggetto.
Il peso della scultura non è dunque dato dalla materia, dall'acciaio, ma dalla forma. E la leggerezza, che contraddistingue l'opera di Magnoni, è il manifesto dell'estrema essenzialità della forma stessa che qui muove attorno all'idea di vuoto. Un vuoto pero che non può essere semplicisticamente inteso come mancanza di materia, ma come spazio in cui la materialità, in quanto presenza delimitante,è la definizione del suo contrario: il vuoto. Il corpo delle sculture dunque è il prodotto di una ricerca sulla superficie, la quale tende ad avvolgere lo spazio fino a percorrerlo assotigliandosi in un'appendice in fuga, in una linearità che conduce all'infinito.

 

 

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sei altrove

museo Casabianca - Malo



Claudio Cerritelli propone un inedito dialogo tra alcuni protagonisti della pittura degli anni settanta, Olivieri, Satta e Sermidi e i giovani Cortese, Pellegrini e Ruaro. Presentare artisti che si misurano con strumenti, per così dire classici, non significa mettersi in competizione con mode o sistemi estetici ora in auge, vuol dire invece verificare la validità degli elementi linguistici della pittura astratta, come il colore, il gesto, il segno, la superficie, soprattutto in periodi come questi, dove i media televisivi, giorno dopo giorno, mortificano le altre forme comunicative.
Ad onor di logica, però, sembra che l'utilizzo di un determinato linguaggio o di una particolare sintassi espressiva, sia la garanzia dell'esistenza di un sistema espressivo e il fatto che nuove generazioni si offrano quali continuatori o neo-esploratori di un linguaggio astratto, dimostra che questo linguaggio non ha ancora esaurito la sua funzione comunicatrice, anzi tale appropriazione da parte delle nuove generazioni si configura come approfondimento di una grammatica linguistica che può considerare il fenomeno della pittura come un fenomeno ancora in grado di esprimere certi contenuti, o si venga, in ultima analisi, a configurare come ultimo atto tendente alla saturazione di tale linguaggio.
Ad un sistema analitico e riflessivo appartengono le opere di Satta, nelle quali l'indagine muove dal colore verso la luce, proponendo immagini costruite nella dinamica spazio-temporale dell'agire materialmente, di concentrare il suo operare tra un movimento fatto di immagini indecifrabili e variazioni tonali spesso ottenute con velature e mascherature cromatiche.
Ancora un discorso sulla superficie e sul colore viene fatto da Sermidi, il quale concentra l'atto pittorico in una gestualità ancora raccolta e silenziosa, fatta di ampie campiture dalle diverse dimensioni e concentrazioni cromatiche. La luce viene individuata e sottolineata nella molteplice variazione della lucentezza o dell'opacità.
Olivieri realizza la superficie attraverso lievi velature, nelle quali si legge la ricerca di uno scarto cromatico capace di rendere il colore più fluido, più riservato, come a sottolineare una divisione prospettica del campo pittorico attraverso la separazione di zone più o meno colorate o più o meno intrise di colore.
La ricerca e la messa a nudo di una luce nascosta sotto la superficie è l'intento dell'atto gestuale di Gianni Pellegrini, il cui scopo è senz'altro quello di distruggere la superficie come atto certo, per dare al colore il ruolo di maggior interprete della luce, ultimo oggetto dell'indagare dell'artista.
Per Ruaro invece la pittura rappresenta un mezzo per investigare sulle proprietà del colore, in quanto fenomeno nel quale è possibile raccogliere, in fantasiose ed irreali profondità, gli aspetti più intimi e riflessivi dell'azione pittorica come mediazione tra la luce e la materia.
Anche Cortese indaga sul colore come espressione di un fare pittura che tende a collezionare ed interpretare ogni variazione cromatica e poter così raccogliere e registrare le molteplici tonalità che la luce è capace di mostrare nelle lente, ma soli de ed efficaci campiture cromatiche.

 

 

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Gianni Mantovani
 

La Roggia - Pordenone



La costruzione della superficie è l'azione artistica preminente di Gianni Mantovani, ma non è il solo elemento linguistico sul quale va depositandosi l'energia e la forza del dipingere dell'artista. Vi è in effetti presente un momento dialettico tra i di versi linguaggi che contraddistinguono l' arte astratta: la stessa superficie (di pregevole fattura), i colori (prevalentemente fondamentali) e il segno (di liciniana memoria). Quest'ultimo è il primo elemento di contrasto poiché il segno sa, nell'azione di incidere la materia, rendersi momento specifico della superficie proprio perché scaturisce dall'interno della superficie stessa, alterando, attraverso le diverse intensità specifiche dei colori, il mostrarsi della luce
La composizione dell'opera, qui distinta proprio dal quel segno incidente sulla grassa superficie, tende, in queste più recenti opere, a confrontarsi con i grandi spazi, con la qualità della luce. E la stessa costruzione spaziale trova come primo limite di visore un segno che separa nettamente le superfici tra loro affiancate. Di conseguenza il segno si trasforma in una linea colo rata, e attraversa e definisce tutto il campo pittorico, posandosi dolcemente sopra, come a rendere ancor più cupa e silenziosa l'apparente oscurità della superficie dai cromatismi diversi.
L'azione artistica si sposta poi a consolidare la dinamica composizione dell'insieme pittorico in un ampio spazio realizzato con minimi elementi che si propongono come frammenti di un progetto geometricamente allargato e che segue, in questa sua dinamica evoluzione spaziale, l'intensità decrescente della luce o del suo contrario: l'opacità.
E la materia, in queste ampie composizioni, si rende ancora una volta protagonista proprio per la forza con cui partecipa al pro dotto artistico, quasi un'azione di azzeramento attraverso colori di diverso spessore, ma anche di vario cromatismo, sui quali campeggiano tratti e figure geometriche che arricchiscono ulteriormente la già preziosa campitura di fondo.

 

 

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Graziano Marini
 

Studio Delise - Portogruaro



Dieci anni a contatto giornaliero con Piero Dorazio, significa prendere in esame la luce, il colore. Quesa è l'esperienza e l'ipotesi del futuro di Graziano Marini.
Nelle recenti opere esposte presso lo Studio Delise di Portogruaro vi si possono intravedere certo delle analogie con uno di protagonisti di Forma 1, ma chi presta una maggiore attenzione nella lettura e propone un'interpretazione formale può scoprire come l'artista umbro ha avuto modo di approfondire certi insegnamenti e di affrontare autonomamente un'indagine sul colore e sulla luce.
Per Marini la pittura è uno degli aspetti della sua ricerca, infatti l'analisi del colore e della luce viene a proporsi anche nella scultura, e ciò propone una dinamica espressiva maggiore e di forte rilevanza estetica. La materia, che non diventa mai colore, in quanto è superficie dipinta, mantiene la sua forma nello spazio, proponendosi come mezzo con il quale l'artista può misurare, attraverso la tridimensionalità e le molteplici sfacettature del corpo scultoreo, la forza espressiva della luce. Si vengono così alternando campi di luce, con altri di ombra, quasi a ricercare delle trasparenze.
Non dissimile è l'azione pittorica. Nel'opera bidimnsionale Marini lavora con lo spessore del colore, con l'illusorietà di campi in primo piano con altri che ripropongono fughe e alternanze di luce. Il continuo lavoro di stratificazione del colore, nella ricerca di una trasparenza capace di reare delle diverse vibtrazioni, vi si può vedere il mestiere d'artista, la capacità di far dialogare sulla superficie dei colori diversi. Si alternano dunque letture che sembrano, per certi versi, contraddirsi o essere limitate da una azione di copertura, di velatura di un campo pittorico sottostante, con un'altra invece di scoperta di svelatura come se l'artista volesse andare alla ricerca di una superficie sottostante, di una luce che sta sotto il lo spessore del colore, come un'apparizione così intensa da far pensare ad un movimento della luce, ad una sua apparizione dal buio e dalla materia.

 

 

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Marco Paladini

 

Galleria d'Arte Contemporanea - Vienna

Galleria Millenium - Milano

 


Le opere pittoriche di Marco Paladini, si mostrano, ad un prima visione, estranee ad una investigazione di tipo esclusivamente analitico, poiché all'interno dell'opera appare manifesta una forte presenza gestuale, espressa in un primo momento dalla rottura casuale, durante lo strappo dal muro dei manifesti pubblicitari, dal loro secondario utilizzo come substrato alla superficie, ed infine dall'impulsivo intervento del dipingere. E' evidente, in questo articolato agire, che il processo analitico viene essenzialmente espletato durante la composizione formale dell'opera. Un procedere spesso complesso, ma strettamente legato al divenire temporale dell'azione pittorica, in quanto le stratificazioni cromatiche, le velature, i piani chiaroscurali seguono il gioco del divenire e scomparire della luce. E se da un lato vi si intravede la presenza, spesso determinante di un progetto, ispirato alla determinazione dello spazio, sul quale va a posarsi l'azione pittorica, dall'altro la gradualità cromatica e la diversa lucentezza sembrano essere il risultato di una dinamica e reiterata azione di frantumazione del procedere pittorico.
La sovrapposizione di due teleri, solo apparentemente indipendenti, viene definendo la struttura formale dell'opera, fornendo così il corpo al quadro stesso. Un corpo tale da arricchire la superficie di spessore e di movimenti cromatici auto nomi. Il risultato è un piano sfalsato nel quale la ricerca pittorica tende ad assumere delle svariate forme, autonome e oggettive, tra tutte le molteplici e possibili. Alla fine si va delineando uno spazio cromatico che, come metafora del divenire, mira ad una contemporanea rappresentazione di strutture fondamentali, le stesse delle quali vive la pittura, ma che sono anche capaci di creare un ritmo che, nella superficie, segna avvicendamento del colore nelle varie sequenze o individua gli intervalli di una gestualità nella quale non può che venire definita la significanza delle cancellazioni e delle velature.
Le opere di Paladini propongono una particolare lettura di alternanza, dove gioca una logica fortemente sostenuta dall'ambiguità dei contrari del chiaro/scuro, caldo/freddo, del pieno/vuoto, all'interno però di uno spazio capace di diventare un oggetto coloristico espanso e vibrante o ancora come un velario dal quale traspaiono le fasi della saturazione del colore per raggiungere una pittura ricca di luce e comunque tale da raccogliere e far propria la ricercatezza cromatica dei colori del Mediterraneo.

 

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Gianfranco Pardi


Galleria Plurima/Turchetto - Milano.

 


Una pittura in evoluzione quella che Gianfranco Pardi ha presentato alla galleria plurima di Udine. Le strutture, come elemento progettuale di netto carattere minimalista, in perenne stato di disequilibrio e di instabilità, vanno, in queste ultime espressioni pittoriche, via via occultandosi fino a trasformarsi in una tenue traccia su di uno spazio pittorico rigorosamente bidimensionale. I segni proposti da Pardi sulla superficie interpretano forme prospettiche ricche di linee e di tracce visive che inducono lo spettatore ad entrare visivamente nello spazio del quadro., dove si vanno via via recuperando, e solo in parte, le esperienze artistiche passate, soprattutto quelle di matrice architettonica sfociate sfociate, e a suo tempo maturate, nelle strutture spaziali tridimensionali.
Il gioco geometrico, fatto di linee prospettiche o di linee di fuga, si mostra come un ideale momento di creazione di uno spazio virtuale - quello della superficie piatta appunto - che ripropone senza esserlo quindi, quello reale, quello cioè che accoglieva nella completezza e nella totalità tridimensionale l'oggetto scultoreo negli anni ottanta. E l'esperienza minimalista, neopalstica e suprematista qui si combina con nuove e recenti esperienze pittoriche. All'interno di questa duplice possibilità interpretativa, da parte dell'artista, dello spazio - creativo formale da un lato e più espressivo e pittorico dall'altro - e in questo evidente contrasto degli elementi artistici propri della pittura, si può giustificare o definire l'evoluzione in senso pittorico dall'artista milanese, il quale però riesce ancora e nello stesso tempo a mantenersi in quell'ambiguità - che lui stesso ha spesso difeso, cioè il non essere specificatamente né pittore, né scultore, anzi di riuscire a stare nel contempo al limite della pittura e al limite della scultura. E mantenendosi in questa posizione (il cui limite e definizione sono strettamente legati alle momentanee e temporali definizioni dell'uno o dell'altro) tende a privilegiare l'idea in quanto progetto e perciò ricca di tutte quelle potenzialità realizzatrici di cui sono prive le realtà oggettive.

 

 

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Paolo Patelli
 

Studio Bassanese - Trieste

 


Paolo Patelli, durante un lungo dialogo, affermò: fin dall'inizio della mia attività di pittore, ho fatto una pittura che era dentro la storia della pittura.
Le recenti opere di Patelli non sfuggono certo a questa logica, né a quella dell'evoluzione del pensiero estetico dell'artista veneziano. Nelle opere da poco viste da Turchetto a Milano e alcune delle stesse presenti allo Studio Bassanese di Trieste, riecheggiano molte esperienze pittoriche personali, che vanno dall'utilizzo di materiali poveri di recupero, fino all'esaltazione del colore come elemento espressivo di forte e vivace intensità comunicativa.
Ma a leggere attentamente l'opera di Patelli si possono intravedere molte indicazioni che tendono a sottolineare alcuni particolari e ancora promuovere una singolare lettura dell'opera stessa. Una prima annotazione viene sicuramente dalla composizione del quadro stesso. Se da un lato vi si trova un riferimento a certe tensioni mistiche esperite in giovane età - non credo che sia un caso che l'opera più grande sia titolata Stonehenge - dall'altro vi si scorgono riferimenti all'arte povera, alla materialità dell'opera. La forte presenza della materia ci permette di parlare di quadro-oggetto. In esso infatti, oltre alla presenza di materiale non espressamente pittorico, vi si scorge l'azione ed il conseguente recupero di una certa operazione manuale legata all'agire, al fare materialmente pittura. Nulla ci esclude di intravedere in questa complessa operazione il tentativo di conciliare il pensiero con l'abilità che si riconosce al pittore.
Un quadro-oggetto dunque capace dapprima di proporsi come il risultato di un'idea, di un pensiero, di una teoria, dall'altro invece di offrirsi come risultato di un'azione ludica, fatta di interventi con le mani o con il pennello, per ricreare nello spettatore la sensazione di una materia informe e pronta ad essere manipolata, muta, ma anche conservata e unita.
Questo duplice aspetto dell'arte di Patelli appare evidente anche nella composizione formale, dove elementi densi e ricchi di significato autonomo si alternano, ordinatamente, con spazi vuoti. Una pausa che fa riflettere, ma che nello stesso tempo diventa un'azione che muove in direzione dell'ordine e della riflessione e dove il confine tra il mettere ed il togliere è così labile che richiede una riflessione sull'importanza della pausa come momento integrante la composizione, ma anche come registrazione oggettiva dell'agire, del mettere e dell'occupare lo spazio nell'incessante divenire nel tempo.

 

 

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Carlo Patrone
 

Galleria Plurima - Udine



Sarebbe una considerazione certamente sbagliata se soffermassimo la nostra analisi al solo cambiamento formale rispetto alle opere precedenti di Carlo Patrone, cioè limitare la nostra osservazione all'abbandono del frammento quale traccia cromatica come risultato dei processi di acidificazione. Nelle Nuove Istocromie - titolo dell'ultima raccolta proposta alla Galleria Plurima e contemporaneamente in coppia con Zavagno presso il medioevale Municipio di Venzone - vi è invece un approccio diverso con la materia e con lo spazio. Non più l'installazione come risultato finale, non un percorso ricco di frammenti su superficie diverse quali il muro, oppure inventate come si presentavano nella mostra curata da Filiberto Menna nel 1988. Vi è ora una grande superficie all'interno della quale avvengono le trasformazioni chimiche e le mutazioni fisiche dei componenti della carta. La partecipazione dell'artista non è più attiva solo nella fase compositiva del percorso finale, ma complice e autrice indiretta di una trasformazione e di una mutazione biologica che non si va definendo se non nel suo farsi altro e Patrone ha la consapevolezza di essere partecipe del mutamento della materia fino al momento della sua rottura o della sua distruzione.
Ecco perché istocromie e non un semplice processo di colorazione della superficie con strumenti impropri della pittura. Un'azione artistica che fa mutare, nello stesso tempo, superficie e materia. L'accidentalità delle sfumature cromatiche e delle alterazioni di superfici sono spesso determinate da una specifica e casuale formazione della carta e della sua essenza atomica e fisica. Patrone ne prevede certamente il mutamento con la consapevolezza razionale che il mutare ed il divenire della trama e del tessuto sono il motore del farsi altro della materia, proprio nel momento del suo disfarsi.
Non è come appare a prima vista una fredda ed impersonale realizzazione di una scala cromatica, quanto un partecipare con il fare dell'artista, alla mutazione della materia. La conoscenza della variabilità chimica e fisica permette di comporre una superficie che, se da un lato diventa chiusa e definita in quanto bidimensionale, dall'altro è l'eterno produrre - attraverso un processo di astrazione - materia, cromatismo, spessore. E' dunque la continua ricerca di un'identità quale particolare e personale tassello di una più generale concezione estetica.

 

 

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Achille Perilli
 

Quartiere latino - Conegliano Veneto



Pittura colta quella di Perilli. D’altronde il suo passato, le lezioni di Venturoli, l’amicizia con Prampolini e Ripellino rappresenta l’impegno e l’interesse per una certa pittura. Una pittura di riflessione, di analisi e le rivisitazioni di Kandinskij, o di Mondrian, o ancora le opere ispirate al futurismo, non sono altro che il risultato di una riflessione sulla forma, sul simbolismo cromatico, sulla geometria.
Questi aspetti, specifici delle esperienze astratte degli anni immediatamente prima della seconda guerra mondiale, accompagnano l’impegno artistico di Perilli. La partecipazione al gruppo Forma, e la partecipazione alla mostra pittura astratto-concreta, muove l’artista verso una identificazione della pittura con un’interpretazione dello spazio: Sono appunto degli anni cinquanta le opere di tipo costruttivista, nelle quali la forma tendente a espandersi geometricamente nello spazio, risulta fluttuare all’infinito su una campitura monocromatica dalle apparenti aperture verso un non identificato spazio.
Buona parte delle carte esposte però sono riferibili agli anni cinquanta sessanta Vi troviamo anche opere fortemente segnate dalla presenza di una spessa materia, sulla quale l’artista interviene con leggere graffiture o segni, comunque con l’intento di ricercare quasi dietro la materia, delle tracce di una curiosità che porta a riflettere su tutte le componenti della pittura.
Altre opere mostrano invece una notevole curiosità verso le sperimentazioni. I lavori che ne escono sono invece il risultato di un approfondimento teorico delle avanguardie artistiche che hanno segnato il secondo dopoguerra. Forti citazioni Dadaiste, Costruttiviste, si possono intravedere, comunque sempre discrete, solo parziali spunti dai quali poi la grande creatività dell’artista romano si libera.
E questo continuo cambiamento, questo improbabile ripensamento sul proprio agire, segnano un approccio solo apparentemente freddo dell’artista con i fatti dell’arte. Egli rimane sempre pronto a raccogliere la mutevolezza del tempo, la diversità di strumenti espressivi e di linguaggi.
Ecco da questo tipo di lettura appaiono i suoi quadri più famosi, forse i più conosciuti, quelle geometrie che incantano per la loro lievità e per la loro astratta consistenza materica. Sembra che in Perilli il processo evolutivo si muova al negativo, e cioè in quel processo in cui la sperimentazione mira più alla negazione di un linguaggio e meglio alla sua saturazione con l’intento che la curiosità dell’artista miri all’apertura di nuove strade e di nuovi ambiti nei quali esercitare il diritti di indagine poiché mossa dalla curiosità.

 

 

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Giulio Paolini e Pino Pinelli

Galleria Totem - il Canale - Venezia



Un interessante confronto tra due diverse concezioni dell'arte contemporanea, entrambe sono accomunate da una personale interpretazione del frammento, oggetto di indagine e soggetto indagante
Paolini utilizza il frammento come elemento compositivo non di un'idea generale precostituita, ma quale componente fondamentale per la realizzazione di uno spazio visivo nel quale l'artefatto è opera autonoma e artistica nello stesso momento. Le opere presenti alla mostra sono arricchite da certe varianti prospettiche quasi scenografiche, all'interno delle quali l'inserimento di frammenti di opere conosciute possono essere interpretate come una sorta di un procedere a ritroso nella ricomposizione formale di un'opera autonomamente significante. Tutti gli elementi in aggiunta non interferiscono dunque sul contenuto iconografico del disegno di supporto, poiché ogni quadro dell'artista torinese non è altro che l'infinita e inarrestabile estensione dei limiti e delle definizioni dell'arte. Vi si scorge quindi un incontro tra linguaggi che non tendono né all'annullamento reciproco, né alla sopraffazione, entrambi sono fatti in sé, autonomi ed interdipendenti in quel mondo di illusioni e allusioni che è il mondo dell'arte.
Per un artista come Pino Pinelli costruire l'opera pittorica, non significa fare riferimento solo al mondo delle idee, ma affidarsi anche a quella parte operativa che contraddistingue l'essere pittore, per cui ogni sua opera vive della simbiosi tra l'idea della pittura e il fare pittura.
In passato la rottura del quadro, e la conseguente frammentazione della superficie stessa, proposta dall'artista, non solo ha rappresentato una semplice allusione allo spazio, ma è l'interpretazione dello spazio, poiché si identifica con la negazione della limitatezza imposta dal piano bidimensionale.
La materia, non più chiusa nei confini dalla superficie del quadro, assume forme le più diverse. L'oggetto è dunque lo spazio, e la disseminazione il modo di interpretarlo, di creare cioè un movimento capace di scrollarsi di dosso la ristrettezza dell'essere contenuto, per addentrarsi, con movimenti ampi ed armonici, in un mondo privo di una dimensione predefinita, e seguire l'idealità di una possibile dinamica spaziale, che le opere dell'artista presagiscono dalla direzione del loro movimento. Non è dunque una pittura limitata ad una superficie quale supporto dell'azione del dipingere, quanto la pittura che trova, nell'indeterminatezza dello spazio, la superficie ideale per realizzarsi.

 

 

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Massimo Poldelmengo
 

Galleria il Cantiere - Venezia



Sequenze è il titolo dell’esposizione di Poldelmengo. E non è un titolo dato a caso, poiché nella realizzazione delle opere-oggetti vi si legge la presenza insistente di una forma al divenire, nella quale, il diverso rapporto tra le dimensioni delle opere e la materia che le compongono, tendono a identificarsi con il divenire del tempo. Un divenire che appare cangiante dapprima dall’azione mutatrice della materia, ma anche dalla presenza statica dell’immagine fotografica. La materialità segna qui la mutazione delle cose terrene, anteponendo però ad esse la staticità dell’identificazione formale in quel mondo delle cose sconosciute ma incomplete. La sintesi mira alla realizzazione di un’anarmonia umanistica, in un reale contrasto con aspetto assillante dell’attualità sociale.
L'utilizzazione di materiali deperibili e mutabili nel tempo (come il legno, il ferro) e la costruzione di forme che racchiudono in sé solo oggetti di un probabile uso quotidiano, permettono all'artista di utilizzare dei significati incompleti poiché vivono della fase di un’incerta identificazione con la loro utilizzazione. Poldelmengo, allievo di Plessi all'Accademia di belle arti di Venezia, ha saputo cogliere ed elaborare uno degli elementi fondamentali del concetto del divenire. Un attuarsi che esce dalle dinamiche trasformazioni del farsi "altro", ma tendente a riproposi come azione capace di riaffermare il proprio essere in quanto sostanza.
E' dunque un'incertezza quella che propone l'artista pordenonese. E questo perché la povertà dei materiali usati, la lo ro distrazione da una realtà quotidiana, la loro apparente funzionalità oggettiva, mettono lo spettatore in un piano di disagio, in un luogo nel quale difficilmente la cosa estetica ha riscontro fuori del mondo dell'arte.

 

 

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Ciussi - Pope
 

Ex Convento di San Francesco - Pordenone

 


"Le opere esposte hanno una dinamica alquanto complessa che riguarda il percorso di lettura individuale, le diverse connessioni di Ciussi e Pope, ma anche la relazione provvisoria tra questi linguaggi e l'identità estetica dello splendido contenitore". Così Claudio Cerritelli introduce in catalogo la scultura di Carlo Ciussi e la pittura di Pope esposte presso l'ex convento di San Francesco (veramente splendido contenitore) a Pordenone.
Due artisti che, hanno risentito entrambi delle esperienze dell'arte astratta degli anni sessanta, più volte hanno provato a confrontarsi nella pittura, tanto che ora le loro opere sanno dialogare con una certa naturalezza e godono contemporaneamente di un'ampia autonomia.
Solamente "Ferri" sono chiamate da Ciussi le sue sculture. Sono opere che provengono da un percorso diverso da quello proprio della scultura. E' l'esperienza pittorica che qui prevale e non a caso l'autore privilegia la visione di due facce rispetto al tutto tondo tipico della scultura. Una pittura quella di Ciussi che ha trovato nella geometria un' ulteriore forma di astrazione che gli ha permesso di indirizzare la sua ricerca verso la progettazione di un movimento modulare molto particolare. L'originalità della forma e l'intensità dinamica delle sue opere sono state, senza dubbio, la motivazione per una sua ulteriore partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1986. L'elemento estetico proprio di queste opere si individuando nella costante volontà di interpretare, in modo personale e singolare e all'interno di un'apparente e falsa fissità, la dinamicità del movimento di un doppio che non si mostra quale banale ripetizione anonima di una particolare forma, quanto di due forme entrambe espressioni di una potenziale dinamicità contrapposta.
Colore, materia, superficie, sono gli elementi linguistici della pittura di Pope. Più un'operazione razionale che un fluido movimento pittorico sulla superficie. Un piano sul quale vengono posti, con la medesima intensità materia e colore, ma anche luce come è facile riscontare nei monocromi bianchi, Qui la luminosità si fa intensa sottolineatura di una pennellata fluttuante su una parte della superficie.
La presentazione in dittico permette all'artista di superare il limite del quadro e lo spazio viene in questo modo ad essere interpretato nella sua dualità, qui proposta in una diversa dimensione, in una diversa forma, in un diverso cromatismo. Pope muove verso una duplice interpretazione della superficie, una più vicina all'azione del pitturare e quindi più intima e più libera, un'altra, quella più razionale, rimane ancorata al costruire al creare, all'inventare. In questo dialogo tra forma e spazio, trova dunque giustificazione una ricerca sulla percezione ma non talmente determinante da soffocare i "sentimenti soggettivi del colore attraverso l' armonica realtà del corpo pittorico".

 

 

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Michel Goldberg

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Claudio Verna

Galleria Plurima - Udine



Nel '73 Verna scriveva "avvicinarsi alla pittura, oggi, [....] significa reiventarla, oggettivarla, allontanarla da sè, servirsene per proporre allo spettatore/fruitore una traccia per una ricerca comune e non per offrirgli una verità che l'autore non può avere perché non esiste".
E' indubbiamente una considerazione sulla pittura che oltrepassa il concetto di tempo poiché ciò che è stato scritto trent'anni fa ha ancora valore. La pittura di Verna vive ancora nella dinamica della ricerca, in quel divenire che rinnova continuamente sè stessa attraverso le continue contrapposizioni tra produttore e lettore. E nel gioco delle parti l'intercambiabilità non può essere reciproca; la fattualità si distingue nettamente dalla percezione e solo quest'ultima non abbisogna di un rapporto immediato, intenso, durevole, ludico, perfino perverso con la materia, con il colore, con la superficie, o ancora con la resistenza del colore stesso.
Le opere di Verna vivono certamente della duplice identità del fare e del leggere o indifferentemente nell'offrirsi e dell'essere fruito. Una duplice verità che sta prima nella fase razionale della progettazione, dello stretto rapporto tra l'obliquità del segno e le dimensioni della superficie oppure tra lo spazio percettivo progettuale e il diverso rapporto cromatico e i molteplici passaggi di colore; comunque un fare che si propone sempre come risultato di un'abilità o di una fattualità individuale propria dell'artista e non di altri.
Diverso invece il momento percettivo che certo compete anche all'artista poiché l'illusorietà è quel fatto puramente personale che ci permette di essere altro. Spariscono allora segni e colori che potevano costituire l'origine, il cominciamento, mentre nuovi rapporti illusori acquistano valore, potenza ed espressione. Cromatismi di circolo di apparenti ed illusorie lucentezze.
E' la negazione della pittura non può essere altro se non il suo assoluto stato di oggetto autonomo. Uno stato nel quale ogni congettura è l'essenza della pittura stessa e dove ogni problema del fare pittura è la pittura in senso assoluto.

 

 

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