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V. Cecchini; C. Olivieri, P. Pinelli, C. Viallat, G. Griffa,

 

scambi di opinioni sulla pittura tra

diego a. collovini

Claudio OLivieri

Pope

 

Claudio Olivieri

Dialogo sulla pittura

 

 

 

Alcuni si domandano se il pittore ha bisogno di sapere altra cosa che vedere, e servirsi dei propri mezzi.

Paul Valery

 

 

 

Diego A. Collovini: L’esperienza della Pittura-Pittura, puntualmente teorizzata da Filiberto Menna, ha, per certi versi, - affermato la validità storica della pittura, e dato l’opportunità all'artista di riflettere sulla pittura stessa, ma anche sulla aldilà del suo linguaggio. Questa esperienza, dalle alterne fortune e dai diversi nomi (anche Pittura Analitica e Nuova Astrazione) rappresenta, secondo me, l’ultimo tassello originale cella storia della pittura. L’azione materiale del "fare" si coniuga con l’azione del "pensare analiticamente" gli elementi espressivi come il colore, la luce, il segno, la superficie, che sono poi gli elementi che in realtà hanno scritto la storia della pittura.

 

POPE: Certamente per me, quel periodo fu un’esperienza significativa, poiché in essa vi ho letto una profonda riflessione sui temi della pittura. Quando ho abbandonato le esperienze optical, ho automaticamente spostato le mie ricerche dalla percezione del colore allo studio del colore come progressiva ricerca della luce. E stata però anche l’occasione per riscoprire una certa continuità nella pittura. Voglio dire che si può parlare serenamente di un "fare", ma questo non può essere nettamente isolato da un percorso storico dell’arte. L’azione creativa della pittura non si limita a compiere un’azione temporanea legata al puro atto oggettivo del fare, in quanto ogni agire individuale porta con sé l’esperienza, e questa non è altro che il risultato, anche se inconscio, di una conoscenza e di una memoria. Spesso la semplice lettura dell’opera d’arte è causa di false interpretazioni. Ma essere pittori vuol dire anche inserirsi in un percorso artistico che appartiene consequenzialmente alla storia e alla sua tradizione. Per un pittore il palese riferimento al passato è sempre indice di povertà di idee.

 

Claudio Olivieri: Appartenere alla storia non vuoi dire che la storia, o i sincronismi apparenti con la storia, debbano comparire come ingredienti di tutela, come garanti indiscutibili. La pittura è nella storia solo a patto di arrivare a ucciderla a gettarci nell’odio di tutte le storie.

Certo è vero, la pittura si fonda su pochi e immutabili elementi nella sua materialità, ma nella sua essenza tutto è più problematico. Che dire dell’irriducibilità del colore a qualsiasi quantificazione, del suo sfuggire alle teorizzazioni, del suo sempre mutevole rapporto con luce?

Ogni epoca ha tentato di fare del colore un proprio uso, di renderlo funzionale a qualcosa: alla decorazione, alla psicologia, alla scienza, alla morale. Il colore è stato scientifico, simbolico, dionisiaco, puro visibilista, strutturale, consolatorio, ha tenuto a freno o scatenato: ma è ancora là con tutto il suo intatto mistero.

 

D.C.: L’astrazione, intesa come momento che interpreta l’uscita dagli schemi identificativi con la realtà, o ancor meglio, quando l’artista sceglie un elemento formale della realtà, per poi svilupparlo e interpretarlo con la forza della propria individualità, della propria esperienza artistica, permette una comunicazione che non è sorretta unicamente dalla rappresentazione individuale di un atto artistico, quanto piuttosto dalla ricerca della possibilità di comunicare un’identità, sì autonoma, umana e indipendente, ma non essenzialmente individualistica, perché comunque nasce dalla memoria che appartiene però alla pittura e che spesso ne segue e si identifica con i suoi percorsi storici senza per questo essere per forza un elemento della tradizione pittorica.

 

C.O.: L’idea di tradizione che oggi vediamo prevalere è ingannevole e proprio perché è un’idea. Sia che la si usi per fare da sponda ai tentativi neoavanguardistici, eternamente bisognosi di confronti in negativo, sia che esse ne ricalchino i modelli per produrre fantasmi-retorici.

Una delle beffarde sconfitte del sistema culturale contemporaneo sta proprio nell’aver ridotto tutto a tradizione (del nuovo o dell’antico che sia) nel tentativo di mascherare la propria convenzionalità: così il saccheggio delle tradizioni serve solo a trovarvi surrogati connotativi, per arraffare una purchessia riconoscibilità, per legittimare il proprio operare in un alveo critico, che offra quella complicità senza di cui semplicemente non esiste.

La tradizione, mutilata della sua parte vitale, cioè della memoria, è in realtà diventata un mero strumento retorico, e soltanto ciò che evidenzia la propria appartenenza al gioco dei rimandi, ciò che si legittima con l’obbligatorietà dei percorsi, ciò che c'è solo perché prende il posto di qualcos’altro, perché nega, o finge di negare, qualcosa solo quello è riconoscibile.

 

POPE: Io penso che più che di tradizione si debba parlare di memoria, poiché non è possibile per un pittore uscire da una realtà artistica in costante evoluzione, che, comunque, in questo suo percorso storico, mira alla definizione, alla specificazione e all’approfondimento dei suoi elementi costitutivi. Ne è certamente un esempio la storia dell’astrattismo. Nella graduale evoluzione del linguaggio astratto sono leggibili le memorie storiche. Si assiste a un’idea di ripensamento intesa non come una variazione sulle sue possibilità espressive di un dato sistema linguistico, quanto piuttosto il “pensare” diversamente in un contesto artistico ed espressivo nuovo, senza con questo isolano dalle sue esperienze del passato, alle problematiche suscitate e anche alle riflessioni sulla pittura in generale. Credo che la pittura non sia solamente un’arte, ma anche un sistema di comunicazione che si identifica con un preciso percorso storico e che porta con sé le molteplici problematiche che in fin dei conti sorreggono la storia della pittura stessa.

 

D.C.: Il vostro costante riferimento alla memoria, alla storia della pittura e, di riflesso, al vostro lavoro, conduce ad una riflessione sul concetto di astrattismo, la cui recente storia, iniziata con Kandinskij e in Italia con Balla, è un po’ l’espressione di una volontà creativa non ancora uscita dalla logica della pura ricerca. Molti degli elementi linguistici della pittura non sono decisamente definiti, né hanno esaurito la loro portata espressiva, poiché se è vera la loro reciprocità con la storia, gli elementi linguistici della pittura non saranno mai in possesso di una definizione immutabile, poiché mutabile è la storia e l’uomo.

Ne consegue però che alcune delle letture e interpretazioni recenti della pittura non escono dal vizio di un'identificazione con lo sperimentalismo o con l’erronea provvisorietà propria della ricerca. Ma si sa che la tradizione storico-critica italiana ama gli artisti che sono considerati le grandi sintesi dei periodi storici (l’uomo rinascimentale) e si dimentica invece degli artisti che hanno aperto nuove vie e affrontato nuovi linguaggi.

 

POPE: La pittura non può vivere di “un codice espressivo” vi è certamente una mutevolezza nei suoi elementi espressivi ma non possono essere completamente mutevoli, in quanto conducono ad una grammatica espressiva che si inserisce gradualmente, ma con una certa intensità, in un ambito socio- espressivo accentuandone le tematiche temporali. L’arte astratta cioè può essere presente nella realtà storica, ma solo come elemento distintivo di un’epoca. li fare pittura come ricerca, per quanto mutevole, non è mai una ricerca provvisoria poiché, come s’é detto, si nutre della memoria, per rendersi gradualmente autonoma e seguire nuove grammatiche e nuove sintassi.

 

C.O.: Io sono convinto che solo con la pittura astratta il colore rinasce e ripropone i suoi interrogativi, ci pervade col suo arcano inesausto divenire. Le banalizzazioni storicistiche che sono alla base di tante storiette dell’arte moderna e contemporanea hanno bisogno soprattutto di definizioni, di modelli, di referenzialità concettuali. Ma il destino della pittura e anche il nostro destino, che il falso abbia estromesso il vero, che si viva la celebrazione della morte dell’arte, sono i balletti di chi si vede sopravvissuto.

La pittura ha bisogno solo di un altrove silenzioso, perché essa è sorella del silenzio e dal silenzio è sempre accompagnata. Perché la pittura sa ciò che non sanno le parole.

 

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… breve dialogo

 

 tra Pino Pinelli,

 

 ValentinoTurchetto

 

Diego Collovini

 

Galleria Plurima, Udine, 1990

 

pubblicato in:

 

G.M. Accame

Pino Pinelli - continuità e disseminazionea Lubrina ed. 1991

 

 

Quel filo rosso della ragione

 

 

Valentino TurchettoCaro Pino siamo arrivati al ‘90 e a Udine facciamo la tua quinta mostra, un percorso di quasi vent’anni. Nel ‘75 hai esposto i monocromi.

Pino Pinelli – In quegli anni, affrontavo il problema percettivo dei colori fondamentali, dei colori complementari e dei grigi. Cercavo di costruire una mia sintassi del dipingere. Nei monocromi indagavo sotto la pelle della pittura, su un problema che non era solo pulsionale, ma di ricerca all’interno di dati apparentemente certi ma mai certi come il colore. Nel 1976 rompo l’unità del quadro con il rettangolo tagliato, spostando l’indagine sul destinatario passivo ossia sul muro che entrava dentro il frammento per farsi opera.

V.T. – È la rottura del quadro classico. Tu in sostanza lo apri e lo neghi in quanto superficie chiusa.

P.P. – La rottura dei quadro indica la mia ricerca, un tentativo di spostare la lancetta dell’acquisito, del conosciuto. Ho cercato di individuare delle vie possibili, indicazioni nuove, non nel senso della novità, perché non bisogna cercare la novità, ma l’idea della continuità e indicare delle vie praticabili.

V.T.Poi il ‘79, anno in cui hai fatto la seconda mostra a Udine, era il periodo della disseminazione.

P.P. – La disseminazione inizia nel ‘76 con i primi frammenti che si moltiplicavano all’infinito come sosteneva Filiberto Menna nella mostra «1, 2, 3, n» e poi in «Disseminazione».

Diego ColloviniIn quella presentazione Menna indicava una variazione cromatica nella successione dei frammenti quale strumento di lettura, come elemento di concatenazione e di tramite per quello successivo. Si intravede nelle opere di allora la metafora del pensiero, il dato mentale interagisce col dato fisico, col dato materiale. E da qui l’importanza del muro come è stato rilevato nella mostra parigina «Astrazione Analitica» (1978) da Bernard Lamarche - Vadel che vedeva fondamentali le pareti parallele dato che una rimandava all’altra: è la pittura che rimanda a se stessa.

P.P. – I frammenti, infatti, rimandano al colore e io allora usavo i grigi che accoglievano il colore per trasformarlo in oltre. Il mio lavoro era, in quegli anni, un problema di analisi, di verifica, perché la pittura guarda se stessa e si auto enuncia. L’artista diventa analista, perché va alla radice di questo grado zero del fare, riducendo così la pittura ad elementi minimi.

V.T.Nel 1982 un’altra personale poco prima di quelle interessanti collettive a due curate da Filiberto Menna dal titolo «Continuità». In relazione a quella complessa operazione tu, oggi, ti senti più pittore o qualcosa di diverso rispetto ai tuoi compagni di strada, quelli definiti in vario modo come Pittori Pittori, Pittori analitici ecc.?

P.P. – Il mio lavoro è un’analisi degli strumenti linguistici. Avendo rotto il quadro, ho scelto una via apparentemente differente, ma quando mi si chiede se mi sento più pittore o più scrittore, io, pur amando la scrittura, mi sento pittore, perché il mio lavoro ha tutte le caratteristiche della pittura: la superficie e l’attenzione analitica sul colore. Certo la mia pittura, fin dagli anni ‘76, ‘77, ha anche corpo per me ancora imprescindibile.

D.C.E che tu continui a chiamare pittura fin dal ‘73. Io vedo un certo recupero concettuale, se non altro perché è l’accostamento del termine pittura a un oggetto che ha corpo e collocato nello spazio oltre ogni definizione di quadro, anzi la tua pittura ha uno spessore che è esterno all’essenza dell’oggetto stesso, perciò libero dalla sottomissione materiale e rivolta verso la formulazione di un’immagine mentale privilegiata.

P.P. – Il rompere il concetto di quadro in frammenti è l’atto disperato del pittore europeo che avverte il peso della storia, che si sente schiacciato da questa enormità imprescindibile che è la coscienza di ciò che c’è stato prima, e credo perciò che l’unico atto possibile sia quello di pensare la pittura più che farla. Noi artisti italiani non possiamo avere l’atteggiamento dell’artista americano che, giorno dopo giorno, ritaglia la propria storia; un artista che vive nella terra di Piero della Francesca, di Masaccio non può non avvertire il peso della storia, per cui l’unico atteggiamento possi bile è quello di caricare la pittura di un nuovo senso.

D.C.Per questo credo che la tua pittura si regga spesso su un’operazione di rimando ad altro. Il concetto di «Tattilità» ad esempio è un rimando anch'esso perché porta lo spettatore a riflettere e ad analizzare la tua pittura, recuperando alcuni componenti del frammento come la materia, il colore, lo spessore. E un’operazione che induce a una fase analitica.

P.P. – Nella mostra curata da Giorgio Cortenova «Empirica», (1975) accanto al quadro ho appoggiato, in rapporto con il grande, un piccolo lavoro realizzato in pelle di daino. Mi interessava innestare allora la marcia della tattilità, poi il lavoro si è risolto in prima persona perché non era più necessario il supporto esterno a latere. La disseminazione invece è una sorta di rituale. L’artista compie il gesto ad arco del disseminare, che è la ritualità del seminatore che fa rinascere nuova vita.

V.T.Poi abbiamo la mostra del 1985 e adesso stiamo allestendo questa. I frammenti, queste materie bellissime e coloratissime mi portano col pensiero alla lava vulcanica; sembrano dei frammenti usciti con la potenza e la forza di un vulcano. L’Etna appunto.

P.P. – Vedi ognuno porta nel proprio corpo la luce e le proprie esperienze, il proprio essere e io sono un artista etneo e mi porto la luce e un certo modo di intendere i materiali, i colori, le arsure. Le mie superfici non sono mai grasse, sono scabre. E importante che tutte le sensazioni entrino in quel filo rosso della ragione, che è la capacità di analizzare il proprio profondo e farlo diventare linguaggio dell’arte.

V.T.Ma c’è anche musica...

P.P. – Certo che c’è anche musica...

V.T.Sappiamo che tu ami la musica, come me del resto, anche se io, pur amando la musica sinfonica e classica, ascolto molto jazz, il jazz di Louis Armstrong, Charlie Parker e di Chet Baker, ma anche molta musica contemporanea. A proposito mi torna alla mente una composizione di Luigi Nono «Fragments - Silence», del ‘79 o ‘80 e mi piace accostarlo alle tue opere. Questo tuo disseminare i frammenti nello spazio, su ampie superfici, mi ricorda appunto quella musica, il suo rituale movimento, le lunghe pause e il silenzio.

P.P. – Recentemente è stata individuata questa presenza della musica anche da un giovane critico francese Bernard Blistène e ripresa ora da Hubert Besacier, altro giovane critico. Quando feci la mostra a Parigi da Chantal Crousel, Bernard Blistène mi diceva di avvertire un immenso amore verso Bach. Come si fa a non adorare Bach, come si fa a non essere affascinati dalla grande capacità di costruire la frase musicale? Io amo anche Stockhausen, le sue lunghe pause, i silenzi e perciò mi fa piacere quest'accostamento con Luigi Nono, un autore contemporaneo che stimo; e mi piace che dai miei lavori emerga questo mio interesse, questa mia passione.

DC.Arrivare a Milano negli anni ‘60 per un pittore significa acquisire degli elementi linguistici particolari e fra questi l’idea di spazio, soprattutto in Fontana, un solido punto di riferimento per tutti gli artisti degli anni ‘50 e ‘60. Nel tuo lavoro ho visto una personale interpretazione dello spazio, tanto che, scrivendo dite, in riferimento al rettangolo frammentato, ho parlato di circoscrizione di assenza di superficie, in quanto neghi la superficie come quadro, ma vieni recuperando il muro come sustrato. Da un'iniziale chiusura dello spazio bidimensionale con i frammenti, arrivi allo spazio tridimensionale, e ciò fa sì che la superficie diventi altro, un frammento dell’universalità che, in quanto particolare, si fa visione immediata capace di far intuire lo spazio pieno ed il vuoto, il davanti ma anche il dietro.

P.P. – Questi frammenti, che si appropriano del muro e sul quale camminano, sono degli stimolatori di superficie perché questi elementi vivono solamente appoggiati sul muro, appena tu li poni a terra perdono questa capacità atomica e spaziale, ma all’elemento tridimensionale non dò una valenza scultorea perché sarebbe come indagare su un frammento del frammento, come se analizzassi in maniera atomica tutto ciò che dal frammento si può staccare, cioè un altro frammento. Io invece voglio guardare, con l’occhio della mente, l’invisibile, il vuoto/pieno. Noi abbiamo ancora un’idea del vuoto in quanto vuoto, ma il vuoto è pieno perché a livello atomico sappiamo che il vuoto ha una sua pienezza, certo non ci appare ma, se sappiamo osservare con quell’occhio della mente, i vuoti hanno atomi di tipo diverso. L’occhio della mente è, per me artista, l’unico occhio che riesce a indagare su tutto ciò che non conosco.

V.T.In questa mostra vorrei dare anche delle minime indicazioni di quello che è stato il tuo lavoro precedente, di fornire cioè delle chiavi di lettura del tuo percorso artistico. Sarà una mostra indubbiamente interessante come tutte quelle che hai fatto da me a Udine.

P.P. – Ce lo auguriamo un po’ tutti, un certo interesse c’è già stato per questi nuovi lavori a Udine in occasione della mostra curata da G.M. Accame, Le differenze somigliano. Adesso, trattandosi di una personale, verificheremo come la città risponderà a queste mie nuove proposte.

  

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Vincenzo Cecchini

 

pubblicato in:

 

 

Il gesto e il colore opere 1955-2005

Ed. Nicolodi - 2006

 

Tutte le cose mi apparivano nella luce in cui le avevo viste negli anni addietro.

 

W. Goethe

 

 

L'opera di Cecchini è un puro atto pittorico. È così perché nel lavoro dell'artista esiste innanzitutto il fare pittura; si tratta dunque di un procedere che si manifesta in divenire e si esplica nel costante confronto degli elementi espressivi propri della pittura. Non c'è alcun concetto o progetto che annuncia l'opera dell’artista; ogni tentazione di una lettura di tipo programmatico o comunque sorretta da una concezione del tutto razionale, ci sembra improduttiva poiché come dice lo stesso Cecchini "dipingere signi­fica utilizzare certi strumenti, perché dipingere dà la possibilità di poter essere libero, ma sempre con il pericolo di essere chiusi dentro una struttura che imprigiona per sempre. Io devo vivere in uno spazio che mi lascia la possibilità di muovermi in qualsiasi direzione".  

Ecco dunque la caratteristica del modo di lavorare dell'artista, non un progetto che sta a monte, ma un diretto, spontaneo e naturale rapporto con la superficie in quanto luogo della pittura e con il colore, in quanto strumento che dà entità oggettiva alla pittura.

La sensibilità dell'artista diventa così il motore attraverso il quale l'azione si concretizza e si determina in modo definitivo nell'opera; e questo perché le opere di Cecchini non si mostrano né immediatamente né definitivamente, poiché si tratta di puri monocromi dalla consistenza e significanza indefinita. Non possono essere intesi però come un mero "atto" di ripensamento all'interno di un particolare procedere, né tanto meno vogliono rincorrere quel concetto di "grado zero" della pittura, il grado cioè dal quale tutta la pittura è possibile.

Osservando queste sue ultime opere si è portati a privilegiare una lettura che tende a separare l’idea di superficie, in quanto luogo del fare pittura, dal piano dipinto (ultimo atto del fare pittura). Però queste due interpretazioni non possono essere date in forma completamente separata, poiché entrambe concorrono a dare oggettività all’opera. Si tratta, a mio avviso, di una ulteriore operazione di riflessione sul monocromo, sull’impossibilità da parte del colore di assumere completamente la consistenza di un corpo cromatico, di essere cioè elemento solitario pronto a proporsi in modo autonomo e privo di ulteriori componenti.

In tal modo la superficie non può essere intesa solamente come il luogo della pittura, ma è la pittura che fa corpo unico con essa, e da questo corpo pittorico emergono tracce del procedere, segni del susseguirsi dell’azione creativa, come poetiche nascoste che, nel contempo, si lasciano scoprire, mettendo a fuoco le innumerevoli sfumature disegnate dalle trasparenze. E quest'ultime tendono ad assumere un ruolo decisivo nel lavoro di Cecchini. Esse si trasformano in elementi linguistici predominanti, mentre il colore ed il gesto pittorico diventano azioni complementari che intervengono a dare consistenza ed identità al colore. L’autore, sfruttando le luminosità cromatiche, esalta le particolarità del colore e della superficie facendo uso di una tecnica pittorica personale. Egli, infatti, intende quest'ultima non come pura abilità del fare, ma come conoscenza e come convinzione che la pittura può configurarsi come un persistente dialogo tra il colore e la tela, la carta o con tutto ciò che, nel divenire del fare artistico, contribuisce a formare la superficie.

Dunque, se da un lato le opere di Vincenzo Cecchini si manifestano come puri oggetti cromatici, dall'altro le vibrazioni, che originano dalle molteplici stratificazioni di colore, sono ulteriori inviti ad una lettura più riflessiva e ponderata; una lettura che appare spesso discordante, poiché lascia alla luce il compito sia di guidare lo sguardo e farlo penetrare nell’infinito delle sue molteplici manifestazioni e apparizioni, sia di evidenziare una meditazione ricca di componenti umane, forse malinconiche, forse gioiose, ma comunque nascenti da un rapporto gelosamente personale e diretto con il colore e con una tela che disegna la storia del divenire dinamico di una personalità artistica in continua evoluzione.

La pittura di Cecchini sintetizza così l'indagine (in quanto procedere nell'atto pittorico) del linguaggio espressivo e l'idea della composizione come atto finale, nel quale si definisce la consequenzialità. L'artista va in questo modo consolidando l'azione materiale e viva del dipingere, lasciando però evidente il dialogo tra le varie componenti linguistiche, mentre nel fare pittura l’artista va liberando una personale gestualità che definisce il suo modo di dipingere particolarmente equilibrato. Un fare pittura che non sempre rimanda o ripropone una  lettura di tipo ludico o passionale, in quanto Cecchini è pittore, artista, giocatore accorto, è un buon conoscitore del mondo dell’arte, egli avverte gli effetti del colore e per questo sa anche come e quando scegliere il colore. Mai un colore forte, violento. Il suo è il colore in assoluto: è il colore.

L’attenta lettura (in itinere, come lo è lo svolgimento della pittura di Cecchini) ci svela, in realtà, un procedimento, in apparenza, ambiguo, poiché l’artista si muove con una certa liricità compositiva, sia sotto l’aspetto puramente estetico che in quello formale. Solo in un secondo tempo - ma sempre supportato da quel suo personale modo poetico di fare pittura - la sua liricità gestuale guida ogni azione che si fa viva e mutevole, fino ad annullarsi in un processo di totale identificazione; non esiste più distinzione tra gesto e colore, tutto si armonizza e si fa azione del dipingere, come pura soggettività. Non ci sono, nell’opera dell’artista romagnolo, elementi linguistico‑espressivi distinti o autonomi: tutti concorrono alla realizzazione di quell’opera, che raccoglie così l’intensità, la gravità cromatica nonché l’essenza temporale espressa dal modo di fare pittura di Vincenzo Cecchini.

 

Nel giorno di san Carlo Borromeo 

 

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Claude Viallat

Galleria Peccolo

Claude Viallat

 

Pensare la pittura oggi impone di pensare la pittura nel tempo e il tempo nella pittura che la produce e la motiva

 

Claude Viallat

 

 

Claude Viallat, fin dalla metà degli anni 60, si è tenuto fuori dalla sfera attrattiva del formalismo americano, e già parallelamente al gruppo BMPT (Buren, Mosset, Parmentier, Toroni) sperimentava pratiche pittoriche che andavano verso l’interpretazione di nuove teorie artistiche, ispirate dalle analisi e dalle prospettive dello strutturalismo. Questa generazione di artisti ha lavorato per superare i confini della pittura tradizionale francese. In realtà non erano soli prima di loro gli pittori americani come Morris Louis, Kennet Noland, Robert Ryman, avevano fatto ricorso alla tecnica della tintura, lavorando sull’impregnazione cromatica della tela e della materia, in una prospettiva progressista. Anche in Germania (Gaul, Girke) e in Italia (Griffa, Olivieri, Morales, Gastini) operazioni simili si andavano rafforzando. Comunque queste nuove sperimentazioni muovevano verso l’annullamento di una consolidata e ostentata superiorità di un passato artistico, ormai divenuto una pagina della storia dell’arte. Si andava allora profilando un nuovo razionalismo, una concezione modernistica, una sorta di nuova tabula rasa, il cui obiettivo non era tanto il desiderio di ritorno alle origini della pittura, quanto una riflessione, un’analisi sull’identità della pittura stessa, e sui suoi elementi specifici, come il colore, la materia, la superficie, la ripetizione, ecc. Una pittura cha ha trovato la propria origine e il proprio percorso fuori da situazioni mistiche, simboliche, o ancora rappresentative, ma anche estranea a facili sociologismi e lontana da schemi di conoscenza già definiti.

La modernità pittorica di Claude Viallat ha trovato una sua prima concretizzazione nella reinvenzione della favola della pittura, a partire proprio dal 1968, quando le condizioni storiche di produzione sembravano considerare l'opera in quanto tale, come espressione di un processo razionale autonomo, libero da identificazioni o da particolari significanze, che non fossero quelle puramente fenomenologiche. A partire dal 1973, in seguito alle decostruzioni del periodo support/surface, Viallat ha operato un’analisi sistematica degli elementi linguistici che costituiscono il quadro. Ha proposto un confronto fra modernità artistica e la primitività del fare, al fine di frugare nella pittura e riconoscere a questa un suo stato di oggetto puro, lo stesso oggetto che si pone dinanzi allo sguardo dello spettatore.

Nella sua ricerca, l’artista francese è riuscito a coniugare i due momenti specifici e distintivi della pittura: il fare materialmente la pittura e nello stesso tempo proporre un'analisi sistematica del linguaggio pittorico. In questo gioco dialettico fra colore e materia si origina, provocatoriamente, la ripetizione metodica della forma primitiva. Un fare che altro non è che l'immagine del dipingere, la rappresentazione reale ed immediata di una forma semplice, elementare, priva di ogni identificazione organica o geometrica. Una forma dai cromatismi matissiani ed immutabile anche in relazione ai diversi supporti bidimensionali; sempre uguale a se stessa, proiettata infinitamente nello spazio, fino a diventare il contrassegno dell’artista francese. Dal 1966 l’artista ha trovato nella ripetizione un fondamento estetico; una concettualizzazione dunque di una modularità compositiva e formale, in una dinamica espressiva, dove ogni componente linguistica vive di una sua identità. La superficie, ad esempio, viene intesa come un elemento autonomo, perché ad essa è negata la pura e semplice funzione di luogo bidimensionale sul quale vanno a depositasi le azioni creative della pittura.

Nella logica della coniugazione dei diversi elementi linguistici, l'agire pittorico dell'artista francese sottolinea, attraverso una proiezione all'infinito, la validità del linguaggio astratto utilizzato. Il sistema linguistico di Viallat non mostra dunque segni di esaurimento, anzi va sottolineando l'impossibilità di limitare la forza espressiva del colore, del segno, del gesto, della materia, e nello stesso tempo negare la staticità e temporalità della pittura. Così il divenire del processo artistico dell’artista francese si realizza in un intenso rapporto tra spazio, tempo, materia e colore, dove la centralità viene soppressa, e dove il cromatismo di base crea delle apparenti profondità nel dinamico rapporto di pieno/vuoto.

L’opera dunque non è altro che il visibile, l'osservabile, un luogo nel quale gli elementi espressivi dell'arte moderna si mescolano con quelli dell'arte primordiale, con quelli che appartengono all'alba della creazione artistica, a quel grado zero temporale, dove la forma precederebbe la pittura e dove la pittura corrisponderebbe a un dispositivo sommario di costruzione di una forma. Per Viallat dunque l'arte è un'attività trasformatrice, tale da permettere all'uomo di erigersi a protagonista di un gioco dialettico mediante il quale il sapere e l'esperienza definiscono una nuova modernità artistica. L’idea di primitività della pittura denuncia le delusioni della storia, dello storicismo e di tutte le ideologie realistico–progressiste, spesso simulate nella capacità della pittura di smuovere il fondo sensuale dell'uomo. L’opera di Viallat, proprio per il suo linguaggio analitico, ci propone una serie di riflessioni su concezioni artistiche che stanno alla base del dibattito intorno allo stato attuale dell’arte, e di cui bisognerà chiedersi se, in un periodo così complesso ed articolato dell’arte contemporanea, i cui i linguaggi si contaminano fino alla vertigine e all'eccesso sperimentale, esiste una specificità dell’arte, oppure se è sufficiente relegare ogni espressività artistica a puro “atto” della comunicazione.

  

Nel giorno dei Ss. Castore e Teodora

 

 

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Giorgio Griffa

Studio Delise '91

 

Un piccolo gioco di pennello, variandone lo spessore in modo che il bianco della tela giochi più o meno in trasparenza, rendendo un effetto prezioso di tela marezzata

 

Henri Matisse

 

 

Se un tempo Griffa, sia nei suoi scritti che nelle sue opere pittoriche, lasciava poco tempo al discorso sul quadro o alla descrizione delle sue opere, ora, almeno ad una visione immediata, pare che la presenza dell’artista si sia fatta più evidente e più partecipe. Le linee, quelle degli anni settanta, si andavano offrendo ad una lettura più scarna, più fredda (motivata anche da quelle autopresentazioni del tipo io non rappresento nulla, io dipingo o ancora al …  e continuo a fare per immagini), indirizzando così lo spettatore verso una lettura più formale e ad un’interpretazione del tutto indipendente, poiché l’artista ha accuratamente evitato di fornire indicazioni tali da poter volutamente condizionare la lettura delle opere. Ciò, per l’artista torinese, è un atteggiamento comprensibile, soprattutto quando la sua preoccupazione (come ebbe a dire dopo una lezione presso l’Università di Roma del 1979) è comunque quella di dipingere, per cui solamente l’opera, in quanto tale, diventa significativa di se stessa: essa sola è in grado di comunicare con lo spettatore. Ecco allora le molteplici interpretazioni tendenti a legare le opere di Griffa ora al movimento Concettuale, ora considerarle quale conseguenza di esperienze dell’arte povera, io stesso ho tentato una lettura che privilegiasse il rapporto temporale di esecuzione, come se la pittura fosse espressione di un fatto esclusivamente fenomenologico. Ho sostenuto ciò certamente attingendo ad un’interpretazione di tipo concettuale che l’esecuzione materiale del dipingere fosse la registrazione della durata dell’azione in quanto atto pittorico. La presenza e l’assenza di segno e di colore confermavano una certa validità della mia lettura. Ed è attraverso un sottile pensiero razionale ed intellettuale - rilevabile anche dal rigoroso ed essenziale procedere dell’artista torinese - che è possibile una lettura che lascia perdere ogni espressione relativa a teorie fondate su particolari concetti assoluti o teorie universalistiche. È un agire per analisi (e non è stato forse Griffa accomunato al gruppo di Pittura - Pittura?) che non significa certo ridurre la pittura ad un processo fortemente analitico degli strumenti espressivi. Ma nello stesso tempo non nega alla pittura un’origine e un procedere intellettuale e razionale che sottolinea un’attiva riflessione sulla validità dell’agire. Un procedere artistico dunque che mira piuttosto a confermare la validità del sistema linguistico. Il problema, semmai, si pone nel rapporto con lo spettatore, perché la necessità di costruire, se non reinventare un nuovo linguaggio, prevede un’attenzione critica il cui substrato è per definizione di tipo intellettualistico, in quanto si configura quale ampliamento o approfondimento analitico del sistema metalinguistico proprio dell’arte astratta.

Dall’alternarsi di vuoti e pieni propri dell’«appoggiare il colore nella tela» alle opere più recenti viene recuperata la superficie nella sua totalità, il luogo cioè sul quale Griffa viene operando un’analisi non più limitata all’azione pittorica o al suo susseguirsi in modo temporale, quanto piuttosto come riflessione sulla pittura stessa, sul suo esistere. E qui i dichiarati riferimenti a Matisse non riproducono solo un piacevole viaggio tra le memorie storiche dell’arte, anzi vanno contemporaneamente sottolineando un’idea artistica che ancora una volta muove verso un nuovo modo di procedere tra i pennelli, la tela, i colori lo spazio ecc. I vuoti ed i pieni non giostrano più nell’alternarsi di molteplici operazioni minimaliste come le linee. Il pieno ed il vuoto si susseguono tra ampie zone colorate. Questi colorismi, sono dunque capaci di creare una percezione più viva, più vivace e forse più giocosa. Un evidente riferimento ad un modo personale di dipingere perché «se preferisco l’arte egizia ed il Rinascimento italiano, è l’espressione di un legittimo gusto personale piuttosto che un‘oggettiva scala di valori» (G. Griffa in La nascita di Cibera)

 
Ottobre ‘91

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